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Siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere


A tutti coloro che non perdono mai occasione di schierarsi con le unghie e con i denti, e nemmeno quella di tacere.

Non è mai stato facile per nussuno fare l’educatore. Bisognerebbe andare a scavare fino alla settima generazione di ognuno per capire di chi è la colpa. Un ragazzo fa una rapina, e allora la colpa è dei genitori che non sono stati in grado di educarlo, e per lo stesso principio a loro volta hanno avuto padri e madri che li trascuravano, che di conseguenza hanno avuto la stessa sfortuna, perché altrimenti i loro figli non avrebbero trasmesso ai discendenti le loro lacune. E così via, fino alla preistoria.

Comprendere che i mali della nostra società arrivano da lontano è fondamentale, ma circoscrivere alle singole famiglie le colpe di un degrado diffuso è profondamente insufficiente come riflessione. E allora mi chiedo perché dovrebbero esistere uno Stato, una Costituzione, delle Leggi, un Sistema Formativo? A cosa dovrebbe servire una Istituzione del genere se poi, alla fine, la colpa del degrado è da imputarsi sempre agli individui e mai alla debolezza del Sistema nella sua complessità?

Allora se uno Stato schiacciasse dalle tasse il proprio popolo verrebbe facile pensare che quel popolo, pur di non farsi schiacciare, evaderà le tasse creando le basi per la corruzione. Il concetto è che se i reati e il degrado aumentano può solo significare che lo Stato non è in grado di funzionare come dovrebbe. Non è in grado di educare il proprio popolo.

Scaricare la colpa sul singolo individuo (che pure ha colpe, ma non lui soltanto), e concentrare l’attenzione giudicando la singola azione significa sollevare di ogni responsabilità un Sistema che avrebbe dovuto per primo evitare l’evolversi del degrado, che si manifesta soprattutto attraverso episodi come quelli che la cronaca racconta ogni giorno.

Siamo tutti bravi dare giudizi, ma siamo meno bravi in un’infinita di altra roba. Soprattutto siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere.

La povertà, tra indifferenza, diffidenza e superficialità


Ho, purtroppo, modo di interloquire sempre più spesso con persone che considerano la condizione di povertà l’effetto di un’incapacità esclusivamente personale, una caratteristica di quelle persone che non riescono, giacché non vogliono, a trovare una posizione sociale e quindi a realizzare una vita come quella di tutti gli altri che, invece, riescono a concretizzare perché ne hanno la volontà. Costoro pensano che il mondo sia costituito per una parte da predatori, sciacalli, imbroglioni, astuti, ingegnosi, volenterosi e interessati, di conseguenza immaginano che l’altra sia fatta di ingenui, sprovveduti, imbranati, sfaticati, oziosi, privi di interesse, lamentosi e parassiti. Plagiati quotidianamente da stereotipi, luoghi comuni, banalità e quant’altro capiti di ascoltare o leggere attraverso i media, come dargli torto. E dal momento che “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, il propagarsi di tali preconcetti è inesorabile. A dispetto quindi di quel che conseguentemente una crisi — che nessuno ha voluto — produce, ovvero povertà e degrado sociale, gli indigenti sono tuttavia elaborati come degli incapaci.

È, molto spesso, il povero stesso a ritenersi incapace, non all’altezza delle situazioni e dei problemi che è suo malgrado costretto a fronteggiare. Ed è anche il motivo principale che trascina un individuo alla depressione, e nei casi più estremi anche al suicidio, senza contare le umiliazioni con le quali si scontra ogni giorno e le frustrazioni che ne conseguono. E le umiliazioni sono proprio gli sguardi e i preconcetti di coloro che li considerano degli inetti, per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili nei confronti di chi versa in condizioni di miseria, facendo lo sforzo di comprendere che le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità.

Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in conto alcuni aspetti che una crisi come quella che stiamo vivendo genera: il terreno sul quale camminiamo che si fa sempre più fragile, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali inevitabilmente ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora e che non a tutti riesce facile governare, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e dunque tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche che diventano sempre più difficili da curare a causa della mancanza di risorse economiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.

Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità individuali per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha l’attitudine di diventare predatori, sciacalli, egoisti, astuti a nostra volta. Una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli “attrezzati”. Pensarlo equivale a essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo altezzosamente il resto del mondo. Coprire gli occhi, tappare le orecchie e turare il naso, durante la nostra corsa sfrenata verso il “successo”, poiché vedere, ascoltare i lamenti e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, non serve a nessuno, se non ad alimentare un egoismo e un’inconsapevolezza sempre più diffusi.

Il problema è che non siamo disposti e disponibili a vedere, ascoltare e sentire; l’uomo non è un essere incline a misurarsi con il “brutto”, con la bassezza umana, ma solo con il bello. È ininterrottamente esortato, sollecitato a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, “silenziosi”, e dunque sempre più irraggiungibili, convinto che ciò possa rendere bella, pulita e silenziosa anche la sua coscienza, tranquillo, sicuro di non aver colpe per le disgrazie altrui con il suo comportamento.

Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto ci si possa spruzzare di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare, classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”.

E poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei “loro” confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, ci vengono allora in aiuto espedienti in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà. Primo fra tutti è il metodo più semplice da adottare e anche il più efficace (non in termini di solidarietà; efficace per placare egoisticamente la nostra coscienza): quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione” si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato, inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.

Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere (vedi violenze e reati diffusi); più il numero dei malati di cancro aumenta, più saremo costretti a non vedere, non ascoltare, e a non sentire l’odore. L’indifferenza, la diffidenza e la superficialità dilaganti con le quali affrontiamo certi argomenti, e con le quali mi scontro ogni giorno, lo attestano chiaramente. E quanto vorrei sbagliarmi…

Il pregiudizio


Il pregiudizio è l’arma di chi non sa difendersi con la ragione, il principale alimento di cui si ciba l’ignoranza; è preclusione, superstizione, fissazione e fanatismo. Non ha argomentazioni valutate, ma solo vantaggiose. Il pregiudizio è l’atteggiamento di chi non conosce punti d’incontro, ma solo distanze e convenienze. Non cerca ragioni, ma pretesti. Non contempla, non esamina, bensì sorvola, esclude a priori, emargina, rifiuta, respinge, e si esonera dalla responsabilità di considerare, comprendere, penetrare; non va in fondo alle questioni, ma resta in superficie, ossia nell’unico posto in cui è in grado di risiedere, poiché non ha in sé strumenti e basi che gli consentono di permeare, andare oltre, attraversare. Il pregiudizio osserva la facciata del mondo e delibera il contenuto; preferisce determinare per sentito dire, anziché dopo un’attenta analisi. Non si mette mai nei panni degli altri, poiché ha la convinzione che debbano essere prima gli altri a vestire i suoi.
Il pregiudizio è la forma più spregevole, miserabile e indegna con la quale un essere umano è capace di confrontarsi con un altro, con il mondo attorno a sé, e anzitutto con se stesso.