Archivi tag: disuguaglianze

Manifestazioni di dissenso: ecco perché, “grazie ai media”, sono ininfluenti


Ruberie, soprusi, discriminazioni, disuguaglianze e povertà sono in costante crescita in Italia e nel mondo, eppure il popolo sembra aver perso la capacità di ribellarsi, o quantomeno di manifestare disgusto verso una
classe dirigente sempre più incapace, attenta solo a salvaguardare i propri interessi personali e quelli di chi finanzia le loro perenni campagne elettorali. Il dio denaro, sempre lui, abbatte tutto e tutti, comprese le manifestazioni di protesta che hanno da sempre evidenziato il carattere umano, solidale e comunitario delle società nei momenti di maggior sofferenza. Ma da solo il denaro non basta. Bisogna disporre anche dei giusti strumenti (che il denaro ovviamente compra) in grado di corrompere e compromettere la struttura psicologia e percettiva degli eventi cui il popolo viene a conoscenza ogni giorno. Ecco allora che i mezzi di comunicazione di massa, compresi i nuovi media, svolgono un ruolo fondamentale a tal fine.

Un tempo l’uomo si riuniva attorno a un fuoco e più tardi a una tavola imbandita dove assieme con altri consumava i pasti discutendo degli accadimenti passati, quotidiani e di quelli futuri; oggi il fuoco non ha più quell’utilità e i pasti, nell’era dei “fast food”, vengono consumati in tutta fretta e dove capita, magari chiusi ognuno nella propria stanza davanti al proprio televisore sintonizzati sul proprio programma preferito. Si è soli, teoricamente in compagnia di altri individui soli come noi, tuttavia ciò non ha la prerogativa di renderci meno soli. Anzi.

La Tv in particolare, oltre ad essere una fabbrica di stereotipi e di spettacolo, ha la funzione primaria di dare al pubblico spettatore ciò che la fantasia riesce a produrre, ovverosia offre una valvola di sfogo fittizia, priva di reale consistenza capace di placare sul nascere ogni forma di espressione costituita individualmente. Con l’avvento dei talent-show ad esempio — a sostegno di quella che non è certo una teoria — il numero di persone sedotte da essi che aspirano a diventare ballerini, cantanti, attori, scrittori, eccetera, è aumentato smisuratamente. I nuovi media a tal proposito, grazie al prezioso contributo dei social network, amplificano, esaltano e sviluppano ancor di più tutto il materiale che la Tv produce — anche se in alcuni casi può verificarsi l’inverso ottenendo comunque lo stesso risultato —, interagendo fra loro come una protesi fa con chi la indossa.

“Diventare famosi!”, di fatto, è il feticcio cui gran parte della società delle apparenze ambisce. «Essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere i protagonisti delle prime pagine di migliaia di riviste ed essere presenti su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone.

La nostra fantasia produce empiricamente i suoi frutti, ovvero elabora desideri che gli giungono ai sensi attraverso l’esperienza dei fenomeni e degli accadimenti. E in un mondo, come afferma Germaine Greer, in cui “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, ciò che giunge ai sensi è accuratamente selezionato per essi dal mondo dei mass media.

L’aspirazione dell’umanità è sempre stata, utopisticamente, quella di raggiungere la “bellezza” della perfezione — o “la perfezione della bellezza” — e i modelli offerti dai media volgono dispoticamente verso quella che dal modello sociale dominante è spacciata per tale. Ma, come acutamente ci illumina Baudrillard, “la perfezione è sempre stata punita: la punizione della perfezione è la riproduzione”. Perfezione, pertanto, alla quale noi tutti siamo sottomessi indefessamente, cui noi tutti dobbiamo obbedire, sopportare e ambire di riprodurre, imitare per tentare di realizzare le nostre fantasie istigate dalla perfezione stessa dalla quale sono accerchiati.

Ci troviamo così di fronte a un’esibizione criminogena della perfezione, a una produzione di fantasie e aspirazioni bramose, ma l’elemento ancor più preoccupante è la convinzione che si insinua fraudolentemente negli individui, che è quella di fargli credere di star facendo qualcosa che in realtà non fanno; di essere qualcuno che in realtà non sono, e di possedere delle qualità che in realtà non hanno. Possiamo rilevare ciò registrando il tempo che trascorrono sui palcoscenici le miriadi di presunti nuovi talenti smerciati per tali al grande pubblico dalle case discografiche o dagli improbabili talent-scout, che appunto vendono persone come pane fresco, le loro facce, le loro voci, i loro corpi, il loro modo di (farsi) vestire, come fossero ognuno migliore dell’altro, proprio come un prodotto sullo scaffale di un supermercato sulla cui confezione campeggiano frasi come “il migliore in assoluto”, oppure “eletto prodotto dell’anno”. Di facile seduzione per il pubblico, ma anche di seria frustrazione quando chi apre la confezione si rende conto (ma senza prenderne realmente coscienza) che poco differisce dagli altri prodotti, o quando “il talento” stesso si accorge di essere stato rimpiazzato da quello successivo.

Naturalmente il pubblico fatica ad accorgersi di siffatti rimpiazzi poiché tenuto in perenne suspense ed eccitazione dall’annunciato prossimo fenomeno, e quand’anche se ne accorgesse non sarebbe rilevante dacché gli individui cui si rivolge il mercato non sono interessati, anzi, non percepiscono nemmeno certe strategie di marketing. Ma le subiscono; motivo per il quale ambiscono a diventare prodotti loro stessi, convinti di dare alla “perfezione” il proprio contributo, giacché persuasi di esserne portatori.

Ed è in questa riproduzione indefinita di prodotti da consumare che ci smarriamo, che ci consumiamo, e dalla quale usciamo vinti combattendo una battaglia che non siamo noi a chiedere di combattere, ma che ci depreda delle forze e della concentrazione necessarie per affrontare quelle di una vita sempre più avversa, che andrebbero invece osteggiate con impegno e costanza.

Generare un’aspettativa è il vero nocciolo di tutta la questione fin qui trattata. Una società che regge la propria economia grazie ai consumatori, infatti, cresce rigogliosa (gonfiando le sole tasche di chi produce selvaggiamente) finché riesce a rendere perpetua l’insoddisfazione dei suoi membri. In ogni aspetto della vita sociale. Per sostenerla, l’impulso a cercare le soluzioni ai nostri problemi, alle nostre ansie e dolori nei prodotti (o persone) pubblicizzati, non solo è incoraggiato esplicitamente, ma è un comportamento che provoca assuefazione verso l’insoddisfazione e la delusione, diventando abitudine priva di alternativa. Se la soddisfazione fosse definitiva nessuno venderebbe più soluzioni.

Mantenere il consumatore in persistente tensione è la strategia madre di tutte le strategie di vendita adottate dal mercato. Per vendere un prodotto, una persona, un’idea, una riforma, non c’è necessità che questi siano ciò che per cui sono spacciati. Devono rispondere semplicemente all’esigenza di un pubblico che chiede e desidera quanto gli è stato imbeccato di desiderare, di conseguenza, se chiede una rivoluzione basterà piazzare sugli scaffali qualcuno con su scritto sulla maglietta “rivoluzione in corso” per dargli l’impressione di trovarcisi nel bel mezzo; se chiede un talento basterà mandare in scena qualcuno spacciato per tale; se chiede che i suoi sogni possano essere realizzati basterà presentargli qualcuno cui (a tale scopo) sono stati realizzati; se chiede una riforma basterà annunciare qualcosa come tale; se chiede giustizia basterà fare la telecronaca degli arresti eseguiti; se chiede un colpevole basterà indicarglielo; se chiede la fine della fame nel mondo basterà allestire un’Expo; se chiede salari più alti sarà sufficiente fargli credere di avere 80€ in più in busta paga; e via di seguito. Allora è una delusione continua, che genera frustrazione continua, che reprime la rabbia e che ci convince di essere sempre più impotenti di fronte alle infinite complessità che ci vengono rappresentate quotidianamente, ininterrottamente, e alle quali, nonostante tutti i nostri sforzi, non troviamo soluzioni definitive. Del resto ansia da prestazione, eiaculazione precoce e orgasmi simulati sono peculiarità di una società esigente e “fast” come la nostra, insieme ad un consumo sempre più massiccio di antidepressivi.

Thomas Hylland Eriksen spiega perfettamente la società confusa nella quale viviamo:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(“Tempo tiranno”, p. 139 – 144)

Non essendoci narrazione logica, tantomeno percezione di quel che accade attorno a noi, ne consegue che preferiamo astenerci e lasciar fare agli altri, convinti, in senso lato, di dare lo stesso il nostro contributo poiché apparentemente ci sentiamo al centro del dibattito, quale che sia. In fondo, crediamo tutti di essere dei talenti e di poter cambiare il nostro microcosmo, nonostante il sempre più degradato macrocosmo che ci avvolge, e non viceversa, come invece dovrebbe essere.

Rapporto Istat: farmaceutica e “beni non durevoli” non conoscono crisi


Dal corposo rapporto Istat fresco di stampa arriva innanzi tutto l’ennesima conferma circa la drammatica situazione complessiva che comprende disoccupazione (Tavole 1.6 – 1.7 in fondo al post), diritti, potere d’acquisto delle famiglie (Tavola 1.8), salute e diseguaglianze sociali: rimane pressoché negativa e preoccupante (Tavole 1.1 – 1.2); ma quelli che seriamente sorprendono, e che dovrebbero esortare tutti a fare una riflessione più approfondita, sono i dati che riguardano l’import-export del settore farmaceutico (Figure 1.22 – 1.23).

Dai dati emerge che “i settori nei quali l’indicatore mostra i livelli più elevati sono computer e apparecchi elettronici e ottici (82 per cento), articoli farmaceutici (74,7 per cento) e mezzi di trasporto (67,8 per cento). A fronte di un incremento strutturale del grado di penetrazione delle importazioni, si rileva una crescita ancora più significativa della propensione a esportare (rapporto tra il valore delle esportazioni e il valore della produzione) per i prodotti manufatti, che sale dal 33,7 per cento nel 2008 ad oltre il 40 per cento nel 2013. Incrementi di questo indicatore toccano molti settori industriali rilevanti (Figura 1.23).
In particolare, la propensione a esportare è aumentata raggiungendo livelli molto elevati nei settori delle macchine e apparecchi (dal 62 al 77 per cento), dei prodotti farmaceutici (dal 49 al 74,3 per cento), dei mezzi di trasporto (da 57,7 a 72,9 per cento) e di tessile, abbigliamento, pelli e cuoio (da 40,8 a 48,8 per cento)”.

Nella stessa misura in cui aumenta la povertà diminuisce il potere d’acquisto, conseguentemente si riduce lo stato di benessere della popolazione quindi della sua salute. È un vero e proprio boom se osserviamo l’import-export del settore farmaceutico. In particolare aumenta significativamente la produzione e il consumo di farmaci ansiolitici, antidepressivi e tranquillanti. Sono sempre di più, infatti, gli italiani che, stressati e depressi, ricorrono all’aiuto degli psicofarmaci. Nel 2011 sono oltre undici milioni di persone che nel nostro Paese ne hanno fatto uso: 5 milioni hanno assunto tranquillanti e ansiolitici (il 12,8% della popolazione), delle quali più di 3 milioni sono donne. È ciò che emerge dallo studio Ipsad (Italian Population Survey on Alcohol and other Drugs) condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ifc-Cnr) di Pisa.

Da evidenziare come lo stato di salute diventa più allarmante nella fascia d’età che va dagli over 65 a salire, ovvero fra coloro che non riescono più a pagarsi le cure mediche, registrando così un drastico aumento delle disuguaglianze nel settore assistenziale. Si legge nel rapporto Istat che “nel 2012 sono aumentate le persone che dichiarano di stare male o molto male, la loro quota sul totale della popolazione si attesta al 7,7 per cento, circa un punto percentuale in più rispetto al 2005. Questa componente soggettiva della salute mostra delle differenze di genere: le donne che dichiarano di stare male o molto male sono complessivamente il 9,4 per cento contro il 5,8 per cento degli uomini, senza differenze rispetto al 2005. Oltre la metà della popolazione ultrasettantacinquenne soffre di patologie croniche gravi. Nella classe di età 65-69 anni e 75 e oltre, le donne che soffrono di almeno una cronicità grave rappresentano, rispettivamente, il 28 e il 51 per cento. Il diabete, i tumori, l’Alzheimer e le demenze senili sono le patologie che mostrano una dinamica in evidente crescita rispetto al passato. Gli uomini soffrono di almeno una cronicità grave nel 36 per cento dei casi, nella classe di età 65-69, e nel 57 per cento, tra quelli ultrasettantacinquenni (Tavola 4.2)”.
Si segnala inoltre come siano in aumento “le persone che soffrono di almeno una patologia cronica grave”, determinato da “un incremento della popolazione anziana esposta al rischio di ammalarsi (nel 2012 sono il 14,8 per cento della popolazione, con un aumento di 1,5
punti percentuali rispetto al 2005
)”. In particolare, “la cronicità grave aumenta, ma non con la stessa intensità sul territorio, nella classe di età 75 anni e più, gli incrementi maggiori si osservano nel Centro e nel Mezzogiorno, rispettivamente di 4,5 e 4 punti percentuali; nella classe di età 70-74 anni l’aumento è stato di 5,3 punti percentuali nel Nord-est e di 2,6 nel Mezzogiorno. Gli incrementi osservati acuiscono la distanza del Mezzogiorno dal resto del Paese, infatti nel 2005 la prevalenza di cronicità grave era pari al 53,7 e al 41,1 per cento nelle due classi di età più anziane, entrambe circa quattro punti percentuali in più rispetto alle altre ripartizioni. Nella classe di età 65-69 gli andamenti sono contrastanti: la prevalenza si registra in aumento di 2,5 punti percentuali nel Nord-est, sostanzialmente stabile al Centro e nel Mezzogiorno, in diminuzione nel Nord-ovest (-2,1 punti percentuali)”. Continua a preoccupare il tema delle disuguaglianze sociali nel settore sanitario. “Gli indicatori di cronicità e di sopravvivenza hanno, infatti, già messo in evidenza importanti divari di genere (Tavola 4.2 Il Sistema sanitario nazionale: un difficile equilibrio tra efficienza e qualità), e a questi si aggiungono quelli di natura economica. In particolare, le persone over65 con risorse economiche scarse o insufficienti, che dichiarano di stare male o molto male, sono nel 2012 il 30,2 per cento (28,6 per cento nel 2005) contro il 14,8 per cento di chi dichiara risorse ottime o adeguate (16,5 per cento nel 2005). In particolare, sono gli anziani del Sud il gruppo di popolazione più vulnerabile”.

È chiaro, dal rapporto Istat, che lo stato di salute della popolazione spinge ad indebitarsi per fronteggiare alle cure mediche, ma emerge anche come i “consumatori” siano propensi a contrarre debiti nel settore elettronico.

Resta ora da capire in che modo, e se, s’intende intervenire di fronte a dati così preoccupanti. Si farà finta di niente come s’è sempre fatto, quindi continuando a tagliare nella peggiore delle ipotesi o, nella meno peggio, a non rafforzare l’efficienza del nostro sistema Sanitario (vedi Tavola 4.3), oppure si deciderà (finalmente) d’intervenire con determinazione? La parola spetta al Governo. Quel che è certo è che non sono sufficienti i grandi titoli per riuscire a cambiare un Paese così disastrato. Staremo a vedere.

20140529-102916-37756543.jpg

20140529-102941-37781884.jpg

20140529-104643-38803864.jpg

20140529-104738-38858901.jpg

20140529-104739-38859272.jpg

20140529-105023-39023538.jpg

20140529-105310-39190962.jpg

20140529-105405-39245468.jpg

20140529-111433-40473605.jpg

20140529-111448-40488120.jpg

20140529-111500-40500937.jpg

20140529-111511-40511442.jpg

Elezioni europee: il malato che prescrive la cura al dottore


Noi, la nostra generazione, quella dei nostri padri, dei nostri nonni, veniamo da una società strutturata sulla base di un’Etica del lavoro sulla quale le nostre identità si sono modellate, educate, organizzate, caratterizzate, determinate. Abbiamo imparato a relazionarci fra noi attraverso le nostre identità lavorative suddivise in categorie, ceti, gruppi, eccetera. La crisi che ci ha investiti dimostra però l’incapacità di alcuni uomini di governo nel garantire lo status di convivenza di tali «gruppi», ma anche una profonda inettitudine a garantire quello individuale. Si è dimenticata l’inevitabilità dell’essere umano d’essere vincolato (ci piaccia o meno), per cause esistenziali, alla coesistenza con altri gruppi al di fuori di uno specifico. Perciò l’accanimento a perseguire la il-logica del successo individuale non potrà che condurci – e ci ha condotti – verso il caos sociale.

La produzione incontrollata, la libera circolazione delle merci, la privatizzazione dello Stato sociale, sono misure partorite da menti offuscate dal profitto, dal voler dimostrare a se stesse (e solo a se stesse) di essere le uniche in grado di governare quella stragrande maggioranza di popolo ‘ignorante’, privo d’ambizioni, e che s’accontenta di quel tanto che gli basta per vivere dignitosamente. Il risultato di questa ostentazione di superiorità (ma che è invece espressione di un grave complesso di inferiorità e di emozioni represse), è quella che oggi viene definita insistentemente, arrogantemente «crisi economica», ma che dovrebbe invece essere chiamata col suo vero nome: «crisi Culturale», per evitare – come del resto è sempre avvenuto – di occultare ancora una volta le radici della grana con cui si vanno a scontrare sistematicamente i «signori dell’individualismo».

Il tentativo miserabile di voler mantenere – ulteriormente – nel limbo, problemi di natura strutturale del modello economico-sociale in corso comprova inconfutabilmente la loro incapacità. La rivoluzione avvenuta nel sistema delle intercomunicazioni non viene presa minimamente in considerazione da lorsignori, confidando e speculando sul fatto che l’eccesso, la sovrabbondanza di notizie messe in circolazione non siano in grado di condizionare o colpire i punti vitali del “loro” modello di società. È vero che «se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive» (Eriksen, “Tempo tiranno”), ma è proprio a causa di ciò che cresce il senso di angoscia, d’inquietudine, di preoccupazione, di sofferenza, di inconsapevolezza, e la storia ci insegna quanto sia arduo e decisamente azzardato scommettere sulla governabilità di tali emozioni, specie quando si è mossi da convenienze economiche individuali. Non è una sfida sulla quale conviene giocare come costoro sono abituati a fare in borsa; quando si tratta della vita delle persone, della loro sopravvivenza, messa ogni giorno più a rischio, non esiste governo in grado di contenere la rabbia di chi cerca pane da mettere sotto i denti dei propri figli, e poco importerà, in quel caso, quanto siano o meno consapevoli della realtà che li circonda.

Il gioco vale davvero la pena?

Siamo in piena campagna elettorale per le europee, e fino a ieri nessuno aveva messo in discussione le politiche di austerità messe in campo dai governi, che hanno ridotto alla povertà centinaia di milioni di persone non solo in Europa, ma in tutto il mondo cosiddetto “occidentale” (i dati sulla crescita del PIL americano, ad esempio, non dimostra affatto che la qualità della vita sia migliorata, anzi, le disuguaglianze sono in aumento a fronte di una drastica riduzione dei diritti), definizione, questa, implicitamente divenuta una formula autoassolutoria per ogni occasione, un’autolegittimazione per giustificare qualsiasi cosa nel nome di un progresso presunto ma che sistematicamente si è rivelato essere più un difetto che un pregio, più un fallimento che una conquista, più un demerito che un merito. Oggi, a due passi dalle elezioni, sembra che tutti concordino nell’ammettere che tali misure erano sbagliate e che, forse, avrebbero dovuto agire diversamente.

Che dire…? Peccato non averlo capito mentre la gente iniziava a suicidarsi, mentre le fabbriche chiudevano lasciando per strada milioni di famiglie, mentre le associazioni caritatevoli imploravano per essere degnate di un minimo di attenzione (mai ricevuta), mentre lo Stato sociale crollava (e continua a farlo) a causa delle loro politiche assassine. E non è finita, perché oggi si ostinano a parlarne come se tutto ciò appartenesse al passato, come se la ripresa “fosse alle porte”, come se da domani tutto cambierà. E allora mi chiedo come si può essere tanto idioti e sfacciati quando dietro alla propaganda le piccole e medie imprese continuano a chiudere o quelle più grandi a delocalizzare, e le richieste di assistenza crescono a un ritmo incessante? Come si può essere tanto cinici? È possibile non riuscire davvero a trovare limiti decenti e non così offensivi? Dopo aver distrutto milioni di famiglie, solo adesso, a ridosso delle elezioni europee si rendono conto dei loro errori? È la stessa storia che si ripete, fino alla nausea: per un voto venderebbero la propria madre. Sono un pugno di falliti che si possono contare sul palmo di una mano, e nei loro fallimenti hanno trascinano e continuano a trascinare interi popoli. È come se il malato prescrivesse la cura al dottore, che è e deve essere più democrazia, più poteri decisionali al popolo, più partecipazione nelle scelte di governo.

Forse sarebbe il caso di smetterla. Forse è il momento di mandare in onda un altro film.

Emergenza immigrati e modello di sviluppo economico: connessioni


Secondo taluni gli immigrati scappano dai loro paesi perché in cerca di lavoro. Si dice non sia vero che il nostro modello di sviluppo economico sia sbagliato, che non è a causa del capitalismo selvaggio che nei paesi più poveri le condizioni di vita peggiorino sempre più. Qualcuno si ostina con spudoratezza a chiamare “rifugiati economici” coloro che in massa abbandonano le proprie terre natie perché appunto attratti dal nostro modello di sviluppo economico. Si dice inoltre che perseguire una politica verso una “decrescita felice” sia una follia, poiché tornando a “pescare con l’amo” ci troveremmo nella stessa condizione di queste povere persone. Essi, secondo taluni “creativi”, scappano proprio dalla “pesca con l’amo”. Ma la follia sta proprio nel fatto di pensare che torneremmo a pescare con l’amo cambiando il nostro modello di sviluppo. È impensabile, oltre che falso, anche solo considerando semplicemente il livello di conoscenza acquisito dall’uomo.

Siamo perennemente in campagna mediatico-elettorale, perciò per raccogliere voti, consenso, legittimazione e giustificazioni si gioca, attraverso i mezzi di comunicazione, sulla paura che abbiamo di vederci togliere i comfort conquistati e, naturalmente, sulla nostra ignoranza. Da quando esistono i mass media la procedura è questa.
Il nostro modello di sviluppo selvaggio, illimitato, fa in modo che si vadano a ricercare e sfruttare all’eccesso risorse che si trovano nei continenti più poveri. Le disuguaglianze aumentano per ciò: perché la parte più forte economicamente schiaccia quella più povera. È una legge della natura: il pesce più grosso mangia quello più piccolo; ma per quanto sia naturale che i pesci grossi mangino quelli piccoli, non è altrettanto naturale ai piccoli essere mangiati da quelli grossi.

Il lavoro ci sarebbe in quelle terre, e c’è, ma è sottopagato, privo di qualsiasi diritto fondamentale, irrispettoso della sicurezza ambientale e manchevole (come da noi) di limiti consapevoli; ciò permette appunto la crescita economica selvaggia dei paesi “occidentali” e “occidentalizzandi“. Le guerre civili sono, infatti, una conseguenza, l’effetto, non la causa degli esodi. Tali guerre (in aumento e sempre più violente) scaturiscono prevalentemente da gruppi di ribelli armati (armati dalle industrie belliche degli stessi occidentali) che combattono l’invasione dell'”Impero del Bene” quale si dichiara il nostro modello di sviluppo, ovvero il modello di sviluppo voluto dall’America tecnocratica imperante, ma anche per rimanere in possesso del controllo degli esseri umani, per schiavizzarli al suddetto modello, che garantisce il soddisfacimento dei nostri bisogni. Sono le diverse ideologie a farsi la guerra. Di fatto, “produrre in quantità sempre maggiori e a costi sempre più bassi” è la formula mirata del capitalismo selvaggio.

I migranti sono quindi l’ostro* generato dai nostri bisogni effimeri, il risultato del nostro “stato eteronomo“, e della nostra incoscienza e ignoranza derivanti.

A tutto ciò si aggiunge un’ulteriore difficoltà di pensiero: le attività commerciali aperte, ad esempio, dalla popolazione cinese. Non tutte ovviamente. Ma proviamo a chiederci quali possono essere i motivi per cui le amministrazioni locali rilasciano le licenze come pane fresco per aprire parrucchieri, centri estetici e negozi vari a due metri da parrucchieri, centri estetici e negozi vari a gestione italiana, in barba al buon senso. La risposta è semplice: molti di essi portano con sé soldi in contanti, corrompono le amministrazioni locali (altrimenti non glieli farebbero aprire seguendo normali iter), e favoriscono il mercato nero (produzione a basso costo, quindi laboratori clandestini come quelli di Prato, oppure l’importazione di prodotti – fabbricati nelle modalità di cui sopra – senza alcun controllo doganale) nonché della prostituzione e del commercio umano da sfruttare nella manodopera. Sappiamo essere l’Italia uno dei Paesi più corrotti al mondo, ed è facile pertanto trarre le coerenti conclusioni. Il corrotto quindi fertilizza il terreno con altra corruzione, e chi vuole sopravvivere deve obbligatoriamente adeguarsi. Così invece di fare l’errore di dar la colpa a chi apre tali attività commerciali, sarebbe più corretto darla alle amministrazioni locali. Combattere il malaffare nel nostro Paese è sempre stato un’incognita. Certo è che questo non aiuta affatto a comprendere i problemi che ci circondano, sia a livello locale, sia a quello globale. Ne consegue quindi una guerra tra la ragione e l’ignoranza che, con la prepotenza-prevalenza assoluta degli scontri violenti che la cronaca ci espone ogni giorno, distrae l’opinione pubblica dalla vera radice dei problemi. Discutiamo allora sempre più degli effetti (spettacolari, da offrire al pubblico che segue appunto lo spettacolo) e sempre meno delle cause.

Paradossalmente, per mantenere in vita il nostro modello di sviluppo economico, abbiamo bisogno di guerre, carestie, ignoranza, inconsapevolezza, e di esseri umani disposti a tutto pur di sopravvivere: abbiamo bisogno di quanto sta accadendo nel mondo. E le disuguaglianze sociali in aumento lo dimostrano chiaramente. Ma per quanto ancora potrà durare?

*Nella mitologia greca, Austro (o Noto od Ostro) era il nome di uno dei figli di Eos e di Astreo, ed era uno dei quattro venti, quello del sud.
Austro portava con se caldo e pioggia, viveva nel profondo sud e possedeva un fiato talmente ardente che con esso bruciava intere città e vascelli.