Può la tecnologia riscrivere la storia esistenziale dell’essere umano?


Quando l’uomo imparò a dominare il fuoco certo non poteva immaginare che un giorno quell’impresa sarebbe diventata uno dei simboli evolutivi della storia dell’esistenza. Così come quando inventò la ruota, o più recentemente ha imparato a dominare l’elettricità, a servirsi del vento, dell’acqua e del sole per produrla. Queste invenzioni, assieme alle infinite altre, hanno migliorato, o quantomeno semplificato la nostra vita. La tecnologia nasce anche dall’esigenza di ridurre la fatica di vivere, in ogni campo. Pensiamo alla lavorazione, alla produzione industriale e artigianale e alle applicazioni in campo medico. Sono miliardi le persone che ogni giorno riescono a curarsi e a migliorare la propria vita, ad allungarla, grazie alla tecnologia. Pensiamo al fornello a gas, ad esempio: ci ha consentito di guadagnare molto tempo da dedicare ad altre cose, oltre, ovviamente, ad aumentare la qualità della cottura del cibo eliminando gran parte delle sostanze dannose e cancerogene per il nostro organismo. Oppure alla macchina per le ecografie: ci permette di guardare all’interno del nostro corpo attraverso un monitor per individuare malattie che altrimenti degenererebbero nascoste. L’identificazione o la cura di tutte le malattie conosciute fino a oggi dall’uomo sono possibili grazie a strumenti tecnologici che permettono di studiare da vicino il mondo sub-microscopico che abita o invade il nostro corpo. Ci sono persone, come il grande scienziato Stephen Hawking, che avrebbero abbandonato da tempo le loro scoperte se la tecnologia non gli avesse fatto da protesi estensiva per interagire con l’ambiente circostante. Altre non potrebbero respirare, molti altri sarebbero già morti d’infarto, altri ancora non potrebbero parlare o sentire, e si morirebbe ancora per un comune raffreddore. Sono migliaia, milioni, infinite, le applicazioni in cui la tecnologia si è resa utile per migliorare e allungare la nostra esistenza. È vero, come in tutto ciò che esiste non c’è solo il buono. L’eccessivo sfruttamento delle risorse e la distruzione di interi territori, il consumismo, l’inquinamento, le tecnologie belliche, sono tutti fattori che derivano da un perfido utilizzo della tecnologia, ma che non per questo deve essere criminalizzata nella sua totalità. Oggi consideriamo la tecnologia come una minaccia che rompe gli schemi tradizionali dai quali attingevamo per ampliare la nostra conoscenza, il nostro sapere, ed è così, ma solo in parte. Ad esempio, personalmente, la Tv come è fatta oggi, e la funzione manipolatoria che ha, non mi piace, poiché brandisce smisuratamente, e senza alcun controllo, stereotipi dannosi come unico vocabolo di comunicazione, ma questo non basta a convincermi che debba essere tutta da criminalizzare. Un programma televisivo indegno non mi fa dimenticare quello più meritevole, o un film penoso non oblia quello migliore.
Poi c’è la rete, internet. Internet nasce per questioni belliche, e nessuno di quelli che hanno inventato e utilizzato all’inizio il linguaggio HTML si sarebbe mai immaginato che un giorno avrebbe messo in comunicazione miliardi di persone in tempo reale. Era inimmaginabile, come per Einstein, e per tutta la comunità scientifica, che la sua Relatività avrebbe rivoluzionato la concezione che fino a quel momento si aveva dello spazio e del tempo. La tecnologia è ciò che ha permesso ad Einstein di formulare la sua relatività e a noi di comunicare in massa. Ci si potrebbe chiedere a cosa servono realmente queste scoperte (e dobbiamo chiedercelo, ma per comprendere, non per sentenziare), ma in quel caso verrebbe da dire mancare di una visione filosofica, critica dell’esistenza. Possiamo postulare dunque che per noi esseri umani non è importante sapere quanto di buono c’è in quel che facciamo (che a giudicare dalle catastrofi provocate nel corso della storia, a fatica è possibile affermarlo), ma se quello che facciamo accresce la nostra conoscenza oppure no. La curiosità nella novità, nella scoperta, fa parte di un individuo con una personalità temeraria, aperta alle avventure, come solo la specie umana sa essere. Se c’è del buono o del cattivo sarà, come sempre, il tempo a stabilirlo, e lui soltanto, nonché la qualità che ognuno di noi, individualmente, mette nell’utilizzare gli strumenti a disposizione.
Se pensiamo che il “buono” di internet siano solo i social network, omettiamo di dire a noi stessi una verità che effettivamente non è perfettamente definibile e che si nasconde nel modo di comunicare. Mai nella sua storia l’uomo ha potuto comunicare così velocemente e contemporaneamente scambiandosi informazioni, pensieri, idee. Non siamo mai stati così vicini fra noi come oggi, però, contemporaneamente abbiamo la sensazione (giustificata) di essere così lontani dal contatto umano, dall’empatia che si crea solo con il contatto fisico. È vero, ma la rete non è soltanto uno strumento attraverso il quale scambiamo le nostre pseudo-emozioni; scambi che, oggettivamente, sono profondamente degradanti. La rete è soprattutto la più grande enciclopedia mai concepita dall’uomo, certamente molto disorganizzata, ma grazie alla quale è ci possibile scambiare informazioni alla stessa velocità con la quale viaggiano i neuroni nel nostro cervello. Se c’è qualcuno che la utilizza solo per guardare materiale pornografico non vuol dire che la sua funzione sia solo quella. Di sbagliato, nell’approccio che abbiamo alla rete, e come in moltissime altre cose che fanno parte della nostra vita, c’è l’assenza di cultura individuale, e anche la cattiva (o assente) educazione che riceviamo riguardo all’utilizzo della vastità infinita delle informazioni che contiene.

Se non sappiamo guidare la macchina e non conosciamo un minimo di codice della strada ma ci immergiamo a tutta velocità sull’asfalto del traffico cittadino, alla meglio commetteremo una lunga serie di infrazioni o, più probabilmente, causeremo un incidente. Quel che è certo è che a nessuno verrebbe in mente di prendersela con l’asfalto o con le altre macchine rimaste coinvolte nell’incidente.
Il vero problema delle tecnologie è il loro cattivo utilizzo. A causa di esse si stima che fra qualche anno la forza lavoro necessaria impiegata nella produzione sarà pari al 20% del totale; il restante 80% non troverà collocazione. Potrebbe essere questa l’occasione di riscrivere la funzione esistenziale dell’essere umano, indirizzato al lavoro forzato dall’inizio della Prima Rivoluzione Industriale? Può questo mutamento irreversibile occupazionale far sì che l’uomo possa dedicare il tempo a disposizione ad altre cose più vicine al suo essere? È una sfida che si profila all’orizzonte, visibile e già tangibile, che forse, vista l’ostinazione irrazionale a voler mantenere in uso un’etica del lavoro che non esiste più, e che forse non è mai davvero esistita, se non per esigenze capitalistiche egoiste, e che sta mietendo vittime ovunque attestando il proprio fallimento, sarebbe il caso di affrontare seriamente.

P.s. È certo che all’inizio a molti il fuoco incutesse paura, e che quindi lasciassero ad altri il compito di dominarlo. Non per questo abbiamo smesso di perfezionare l’utilizzo che ne facciamo.

Conflitto d’interessi: Tv e internet a confronto nell’era dell’informazione “libera”


Ci sono illustri commentatori e opinionisti che considerano internet un potente mezzo di condizionamento delle masse. Diffondono il loro verbo molto spesso per screditare o ridimensionare il fenomeno dell’informazione libera che questo strumento potenzialmente offre, ma che di certo, va detto, non garantisce. Al di là delle ideologie, oggettivamente la rete è un vastissimo spazio dentro il quale è possibile trovare ogni genere di cose che genericamente, in via estrema, possono essere concentrate in due principali categorie: bugie e verità. Collocare ciò che troviamo nella giusta categoria, è una questione non di poco conto e che riguarda la sfera culturale soggettiva.
Assunto ciò, i mezzi che i suddetti chiosatori utilizzano prevalentemente per “trasmettere” il loro messaggio, sono Tv e stampa. Ovvero i medium che più di ogni altro di tutta la storia dell’umanità hanno controllato, indirizzato, influenzato, adattato, contaminato, limitato, suggestionato, sottomesso, sbaragliato, annientato, corrotto, snaturato, manipolato l’opinione pubblica. E senza il benché minimo diritto di replica: i mass media hanno da sempre presentato un pensiero a senso unico, unilaterale: io parlo, tu ascolti. Non hanno mai offerto reali alternative men che meno una diretta interazione. Non vi è dubbio che il compito di verificare la veridicità di quanto trasmesso, anche in questo caso, appartiene al soggetto-spettatore, ma non vi è altrettanto dubbio del fatto che un rapporto di reciproca dipendenza crea un terreno (più “e” meno fertile) sul quale è ancora più possibile coltivare una riflessione.
Forse, e qui il dubbio è più che fondato, c’è un leggero conflitto di interessi nel momento in cui lorsignori si prodigano saccentemente per propagandare il loro messaggio, o meglio, il personaggio che interpretano.

Soluzioni che si aggrappano al problema


Parafrasando Guy Debord:
“Ciò che lega i consumatori non è che un rapporto irreversibile allo stesso centro che mantiene il loro isolamento. Il consumismo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato.”

11 settembre 2001:
due aerei pilotati da terroristi di abbattono sulle Torri Gemelle distruggendole (almeno secondo la versione ufficiale) e provocando la morte di migliaia di persone. Poco dopo il presidente degli Stati Uniti Georg W. Bush si rivolge agli americani, ancora sconvolti e sbigottiti, esortandoli a «tornare a fare shopping»; da intendere come un invito a riprendere la loro “vita normale”.

Crisi economica attuale:
I capi di governo si rivolgono alla popolazione con perle di saggezza quali: «Bisogna salvare il Paese dalla depressione esortando i cittadini a consumare» o «Bisogna condurre il Paese fuori dalla recessione stimolando i consumi».

Che consumare sia un dogma che non mettiamo quasi più in discussione, è fuori discussione: è uno dei pilastri della saggezza popolare e del buon senso. Spetta a noi consumatori rimettere in sesto la società, in ordine i conti, e riprendere la nostra “vita normale” da dove l’avevamo “momentaneamente” lasciata. Si ritiene quindi che la salvezza dipenda dalla decisione di noi consumatori di tornare al diligente adempimento del nostro dovere di fare acquisti e spendere il denaro che abbiamo guadagnato o che guadagneremo dopo un “breve” intervallo in cui abbiamo dovuto tirare la cinghia.

Consumare significa “tornare alla normalità“. Tutto deve essere come prima. Fare shopping è l’unico modo (forse l’unico, e di certo il principale) per curare ogni afflizione, respingere e rispedire al mittente qualsiasi minaccia e porre rimedio a ogni avaria del sistema. Scegliere lo shopping come reazione ad ogni preoccupazione, arcinota o del tutto sconosciuta, insolitamente orrenda, eccezionale e inaspettata, è quindi il modo più semplice e sicuro per ridimensionare un evento terribile al semplice status di banale “rottura di scatole“: svuotarlo, addomesticarlo, renderlo familiare, rabbonirlo e (ultimo ma non meno rilevante) privarlo delle sue tossine.

Dai consumi dipendono le sorti della stabilità sociale, della sicurezza economica e psicologica della popolazione; essi sono le fondamenta sulle quali si ergono il presente e il futuro dell’umanità, ma anche il problema e la soluzione insieme, l’azione che dimentica la reazione, l’effetto che aliena e oblia la causa, la dipendenza scambiata per normalità, l’incoscienza che supera la realtà, un’insistente bugia diventata verità, una cultura di forma anziché di sostanza, il mezzo che offusca i fini, la razionalità messa alle strette dalle contraddizioni; il consumo è l’attività che fa vivere in noi ciò che non esiste, poiché per costituzione e finalità è un’atto che si esaurisce nel breve lasso di tempo: deve essere sfuggevole, effimero per mantenere la sua incisività e il suo potere. È, inoltre, un modo per far entrare un ordine di cose differente entro l’ordine stabilito per natura: sostituisce la realtà, penetra nelle coscienze e isola e passivizza i soggetti.

Abbiamo noi, più o meno implicitamente, la responsabilità di rianimare l’economia; spetta a noi, posizionati sulla griglia di partenza verso la strada dello shopping, correre non appena ci viene dato il segnale; segnale che recepiamo incessantemente in ogni dove. E la sentiamo tutta, questa responsabilità, tanto da sacrificare la libertà di scegliere ciò che riteniamo sia in realtà giusto per noi, per il nostro presente e per il futuro dei nostri figli.

Tuttavia, non è questo l’unica attività a cui siamo stati costretti, in una società consumistica quale è la nostra. Si tratta semplicemente di un esempio ricavato da una vastissima serie di difficoltà con cui ci troviamo a fare i conti, o con le quali in ogni caso presto dovremo farli, o in qualche modo li abbiamo già fatti. Quel che è certo, è che la soluzione di tutti questi problemi è stata riadattata in modo da passare inevitabilmente per i negozi. Si crede e si auspica che l’acquisto e il consumo siano azioni in grado di sedare disagi e attutire cadute altrimenti destinati ad acutizzarsi, cronicizzare e impedire così di rimetterci in piedi.

Consumiamo, dunque. Il resto lo affronteremo a data da destinarsi. Auspicandoci, però, che non sia già troppo tardi.

Globalizzazione individuale


In fondo, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità in un mondo indirizzato verso la meccanizzazione della vita sociale-lavorativa dell’uomo? I diritti e la libertà, che furono i principi sui quali si era fatto credere di aver fondato l’etica del lavoro, hanno ceduto il passo alla concorrenza economica fra soggetti non egualmente attrezzati e implicitamente esortati ad accumulare capitale da reinvestire a scopo di dominio, del mercato, della forza lavoro, della società stessa. La libertà di pensiero, di parola e di coscienza erano idee sostanzialmente “critiche” che dovevano servire a promuovere e proteggere l’individualità e le libere iniziative che questa implicava, invece oggi stiamo assistendo alla completa soppressione delle identità storico-culturali dei piccoli artigiani, e con esse quelle che compongono la comunità. La globalizzazione economica, ovvero la libera circolazione dei capitali finanziari, ha permesso di creare una rete di dominio che opera mediante la manipolazione dei bisogni e che si estende su tutto il pianeta imponendo percorsi, scelte, abitudini, modelli, con il solo fine di accrescere i profitti di chi detiene le redini del mercato.

Ogni scelta individuale oggi viene fatta in base a giudizi di valore introiettatici dalle pubblicità: bisogni (indotti dal mercato)-vendita (“scelta” dei prodotti sul mercato)-acquisto (soddisfazione dei bisogni)-consumo (esaurimento della soddisfazione); una sequenza ciclica che continua indefinitamente, o almeno “fino ad esaurimento scorte” (vedi foto). Si è perso ogni fondamento logico della tradizionale natura umana in nome di una non ben ancora definita destinazione culturale, oltre quelle del consumo delle risorse e del profitto illimitato, impedendone così l’organizzazione internazionale a favore di un’equa ridistribuzione.

Si stima che entro qualche anno (non è possibile dare un tempo certo data la veloce e progressiva evoluzione tecnologica impiegata in campo industriale) la forza lavoro necessaria alla produzione sarà pari al 20% del totale disponibile; il restante 80% non troverà collocazione nel mondo del lavoro. La meccanizzazione e automazione del sistema produttivo industriale (che annienta il piccolo artigiano a un ritmo vertiginoso) rende inutile, oltre che dispendiosa, la presenza dell’uomo.

Se la strada intrapresa è quella di massimizzare la produzione diminuendone i costi incrementando i profitti, è facile immaginare il futuro che ci attende nel caso in cui questo processo non verrà invertito, o almeno regolato severamente. Allora dobbiamo iniziare a chiederci “criticamente” quali sono le priorità di cui abbiamo veramente bisogno, e quale mondo (e in quali condizioni) vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli.

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C’era una volta l’umanità… (Seconda parte, con “obbligo di fermata”)


Oggi, grazie a internet, quel vuoto che ci assorbe quando siamo in solitudine, può essere ignorato o dissimulato; il dolore dell’assenza può essere quanto meno sedato. Se vogliamo compagnia non dobbiamo far altro che accendere i nostri schermi elettronici, non più varcare porte di legno. Oggi le porte sono “d’accesso“, digitali, analogiche, impalpabili, ideali, e ci permettono di sfuggire da quella tormentata solitudine che ancestralmente ci appartiene. Alcuni considerano questo nuovo tipo di rapporto un apprezzabile passo in avanti rispetto a quelli più “tradizionali” di tipo faccia-a-faccia, e sono proprio le nuove generazioni, che si trovano gettati-nel-mondo delle “connessioni virtuali“, ad apprezzarlo di più. Queste (ma non solo queste), non avendo mai appreso (fondamentalmente) le modalità che le interazioni faccia-a-faccia richiedono, avvertono e subiscono maggiormente – inconsapevolmente – la rivoluzione avvenuta nella sfera dei rapporti umani, ma al contempo accolgono con molto entusiasmo gli aspetti negativi che offrono le “connessioni virtuali”.

Infatti, Facebook, Twitter, Instagram, whatsapp, e gli altri social più gettonati, offrono quanto di meglio si possa desiderare, secondo coloro che provano un disperato bisogno di eludere la solitudine, ovvero secondo coloro che hanno bisogno di rapporti umani ma che hanno obliato il “come” e il “dove” cercarli. Molto spesso, di fatto, capita di sentirci a disagio, fuori luogo e infelici in compagnia, ma sono sentimenti che, là dove suscitassero una riflessione, trovano un “obbligo di fermata” in prossimità delle chat e dei social che il mondo virtuale offre. Così disimpariamo a dialogare con noi stessi per cercare di sentire o quantomeno intuire le ragioni del nostro disagio.

Non c’è più alcun bisogno di rimanere ancora da soli: in qualsiasi momento (ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana) basta premere un tasto per entrare in contatto con una vastità di individui soli come noi. Nel mondo virtuale nessuno si allontana mai e tutti sembrano sempre a disposizione. Inoltre, questi siti permettono di contattare gli altri senza doverci necessariamente introdurre in uno scambio che ci esporrebbe ad una conversazione poco gradita. I contatti possono essere sospesi o troncati non appena la comunicazione prende un verso sgradito; quindi non si corrono rischi, e non c’è neanche bisogno di cercare scuse o pretesti, o di mentire: basta un tocco delicato col dito, completamente protetto dallo schermo e indolore.

La minaccia di rimanere soli non sussiste più, e il rischio di doversi sottomettere al volere del prossimo, compiere sacrifici o compromessi, o fare qualcosa che non vogliamo soltanto perché altri lo desiderano, è scongiurato. E tutto ciò è possibile stando semplicemente seduti in una stanza, vuota ma affollata al contempo di persone, oppure mentre gironzoliamo in un centro commerciale o per strada, circondati da amici e passanti: in qualsiasi momento abbiamo la possibilità di “assentarci” per rimanere “da soli” e far capire a chi ci è accanto che intendiamo interrompere i contatti. Possiamo estraniarci dalla folla componendo un messaggio, entrando in un social, per comunicare con chi è “fisicamente assente” e quindi alienarci dal mondo reale che ci circonda.

Ecco, questa “alienazione” ricorrente è ciò di cui dovremmo avere maggior paura. Ma più di ogni altra cosa dovrebbe farci riflettere seriamente sull’eventualità di rimanere privi di questi strumenti di connessione virtuale. Proviamo un attimo ad immaginare seriamente come potremmo sentirci se di punto in bianco tutte le connessioni venissero interrotte, oppure, per chi come me ha abbastanza anni da ricordarlo, proviamo a tornare indietro di venti o trent’anni: ci sentiamo più, o meno umani?

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C’era una volta l’umanità… (Prima parte)


«Al mattino, a mezzogiorno, di sera, nei giorni feriali come nei fine settimana, durante le lezioni, all’ora di pranzo, mentre faceva i compiti o si lavava i denti».
Tremila sms in un solo mese, una media di cento messaggi al giorno, uno ogni dieci minuti. Questa l’ammissione di un’adolescente, come tantissimi altri. Se ne deduce che la ragazza non avesse quasi mai occasione di rimanere sola per più di dieci minuti; intendo dire sola con se stessa: con i propri pensieri, i propri sogni, le proprie preoccupazioni e le proprie speranze. Probabilmente si sarà dimenticata di come si fa a vivere (pensare, organizzarsi, ridere o piangere) da soli, senza la compagnia degli altri. O sarebbe forse più esatto dire che non ha mai avuto la possibilità di apprenderne l’arte. D’altronde non sarebbe sola nemmeno in questo…

«Al mattino, subito dopo colazione, durante il lavoro, a pranzo, subito dopo essermi lavato i denti, nel pomeriggio, a cena, la sera con gli amici fino a tardi, o prima di coricarmi».
Sessanta litri di bevande alcoliche al mese, una media di due litri al giorno, un “goccetto” ogni dieci minuti. Questa l’ammissione di un ragazzo inconsapevole del suo alcolismo, come tantissimi altri. La solitudine e le insicurezze che egli prova sono né più e né meno le stesse dell’adolescente.

Possiamo tranquillamente accomunare queste due storie, estreme, ma più frequenti di quel che immaginiamo, poiché tutte e due parlano d’una dipendenza, entrambe fisica e psicologica, ed entrambe pericolose, nei confronti di chi ne fa uso e di chi si viene a trovare sfortunatamente nei loro paraggi: si muore e si uccide per un incidente alla guida di un auto in stato di ebrezza, e si muore e si uccide per essersi distratti scrivendo un sms. Dal punto di vista psicologico sono ambedue evidentemente devastanti: creano dipendenza e assecondano l’isolamento.

È un fatto ormai riconosciuto: siamo assuefatti alla produzione e alla ricezione di segnali audio-visivi tramite schermi elettronici. I siti, le chat, i social network, rappresentano delle nuove, potenti droghe da cui siamo ormai dipendenti. Se un virus (o i genitori, o gli insegnanti, o una legge, o una catastrofe magnetica) ci impedisse di accedere a internet o mettesse fuori uso i nostri cellulari, rischieremmo una crisi di astinenza paragonabile a quelle che provocano strazianti tormenti in chi – più o meno giovane – interrompe l’assunzione di altri tipi di sostanze. Il “dispositivo tascabile” può essere equiparato alla “borraccia tascabile” dell’alcolizzato, o alla bustina di cocaina o eroina “pronta all’uso” del tossicomane. Ambedue le assuefazioni, prima di ogni altro aspetto, “hanno” il compito di colmare quel vuoto che non riusciamo ad affrontare in altro modo. Di fatto, nel nostro mondo imprevedibile, assiduamente inaspettato e ostinatamente enigmatico, l’eventualità di esser lasciati soli può generare un vero e proprio senso di terrore, e sono svariati i motivi che rendono la solitudine profondamente spiacevole, ostile e orribile. Ma c’è un errore che non dobbiamo fare, ossia quello di attribuire a questi apparecchi elettronici tutta la colpa di quanto sta accadendo a chi è nato, o a chi si è trovato a “mutare e adattare” le proprie abitudini in questo mondo dominato dalla “connettività”; sarebbe tanto ingiusto quanto insensato. Tali arnesi, infatti, rispondono a un’esigenza che non è stata creata dalle nuove generazioni, che se li ritrovano loro malgrado nelle mani; tutt’al più contribuiscono ad acutizzarla e a renderla più ossessiva, e questo perché i modi per assecondarla sono ormai irrefrenabilmente alla portata di tutti, e non richiedono altro sforzo che quello di premere qualche tasto.

Sappiamo che le strade pullulano di individui che si sentono soli e che detestano la propria solitudine, avvertendola come angosciosa e umiliante. Persone che non solo sono prive di compagnia, ma anche afflitte dalla sua assenza. Con i televisori che, piazzati in ogni stanza, prendevano il posto del focolare domestico dove si riuniva la famiglia, ciascuno di noi praticamente oggi vive intrappolato nel proprio bozzolo, lontano dal calore dei rapporti umani, senza i quali non sappiamo come riempire le ore, e i giorni.

Allora appare ancora più difficoltoso, oggi, districarsi nel groviglio della “rete” nella quale siamo impigliati, e anche solo l’idea di poter rimanere qualche ora (non “quale giorno”) “disconnessi” dal resto del mondo, provoca in noi il terrore non solo di venire esclusi, ma di doverci trovare faccia a faccia con noi stessi; cosa che ormai siamo abituati a non fare più. È infatti questo l’aspetto primario che ci terrorizza: non sapere più come si fa a dialogare con noi stessi. Abbiamo perso un po’ di questa “umanità”.

Noi, e loro, i senza terra


Oggi il mondo è sempre più eterogeneo, multiculturale, internazionale, interculturale e interdipendente: siamo disposti allora a vivere insieme a queste diversità? Essendo questo un processo irreversibile e inesorabile, ci sentiamo pronti ad accettarlo? Migliaia di migranti quest’anno (come da anni ormai) saranno costretti a scappare dai propri luoghi d’origine per scampare a guerre, torture, carestie, all’occupazione dei loro territori, all’espropriazione dei loro spazi vitali, alla depredazione delle loro risorse per appagare le esigenze (istigate) del (nostro) mondo “occidentale” e riempire così i portafogli di chi detiene le redini del mercato economico globale; riusciamo allora a comprendere fino in fondo cosa si sta verificando nel mondo? Siamo davvero consapevoli di tutto ciò? I governi stanno facendo le acrobazie (come sempre) per schermare questa carneficina, e fanno passare tempo prezioso accollando sistematicamente la colpa ora a questo, ora a quest’altro organo governativo, ma mai esortando i veri responsabili (poiché loro stessi) di questi flussi migratori a modificare le loro politiche per intraprenderne una che vada incontro alla necessità di futuro migliore per tutti, equamente distribuito e più consapevole. Prendersi la responsabilità dei problemi endemici di questo modello sociale, è indispensabile per capire a fondo chi e cosa determina la fuga d’interi popoli dalle loro terre. Le coltivazioni selvagge, l’estrazione delle materie fossili, lo sfruttamento della manodopera che impongono la schiavitù di donne e bambini per raggranellare almeno un pugno di riso al giorno (quando va bene), sono le ragioni principali che costringono queste persone ad andare alla ricerca estrema di un posto che gli consenta di restare in vita, giacché il loro destino nei luoghi d’origine è una morte certa. Ed è qui che diventano i “senza terra”.

Quando vediamo in Tv, o su un social, la foto di un bambino che “sorride pur non possedendo nulla”, per un attimo ci mettiamo a confronto (non nei loro panni) e non possiamo fare a meno di sentirci dei privilegiati. Ma è solo un attimo (per “fortuna”, pensiamo). Di fatto, a ciò sono utili immagini del genere al “mondo occidentale”: a farli percepire lontani da “noi”, a opportuna distanza, quanto basta per non sentire la puzza di povertà che li ricopre e le grida di dolore straziante che portano con sé; a rassicurarci, a persuaderci ad abbracciare il “nostro” mondo, sbagliato, ma pieno di comfort, e a tenerlo ben stretto, con tutte le nostre forze. E nel caso in cui non riuscissimo proprio a contenere quel briciolo di “senso umanitario” che ancora ci è rimasto e che si affaccia a comando di fronte a quelle immagini, è presto fatto: basta digitare il numero impresso sullo schermo o riempire il bollettino e donare qualche euro per fare la “nostra” parte, da questa parte di mondo, ed è fatta; la nostra coscienza, perlomeno in quell’istante, è salva.

Poi, però, alcuni bambini diventano anche adulti, e lo fanno covando il desiderio di fuggire dalle atrocità che subiscono da quando sono nati, “loro”, e i loro parenti, pur non avendo alcuna colpa, se non quella d’esser venuti al mondo… ma “noi”, questo, sembriamo non volerlo capire – del resto nessuno ce lo spiega, e spesso siamo occupati a fare altro invece che “perder tempo” andando individualmente alla ricerca delle cause –, e allora, come un fermo immagine alla Tv, quei bambini sono destinati a non crescere mai per “noi”, che abitiamo al di qua del muro, al di qua dello schermo che ci separa da “loro”, dal “loro” mondo. Non riusciamo a mandare avanti il video, e ancora meno ad oltrepassarlo, così i bambini crescono (pochissimi), indisturbatamente violentati, lontani dai nostri sguardi, o emarginati sul lato della strada, ben nascosti dietro i cartelloni pubblicitari.

La questione stupefacente e paradossale in tutto ciò, è quella di credere che siano “loro” a privare “noi” delle risorse, quando invece sono le “nostre” politiche e il “nostro” stile di vita (“occidentali”) a derubare le “loro”. È veramente paradossale. Inoltre, “avvertiamo” quel che accade solo quando li vediamo (attraverso lo schermo) sbarcare stremati (chi riesce a sopravvivere) dai “loro” gommoni sulle “nostre” coste, e quel che riusciamo a pensare e che ci allarma di più generalmente è: “adesso stiamo più stretti; ci porteranno via lavoro, case, sussidi previdenziali (quel niente messo a disposizione); aumenterà la criminalità; i nostri figli andranno a scuola con ‘questi qua’; costruiranno una moschea sotto ‘casa mia’…”. Perché l’importante, ciò che a noi preme veramente, è che “va bene tutto, purché non nel mio giardino”.

Facciamo attenzione, perché le politiche imboccate negli ultimi anni, e rafforzate negli ultimi mesi, hanno come obiettivo quello di tagliare il welfare, ossia lo Stato Sociale, la spesa pubblica, quella parte strutturale dello Stato che serve – o serviva – a sostentare i più bisognosi, a combattere l’indigenza e a dare incentivi alle famiglie. Si preannunciano anni duri, e tutto starà alla percezione che abbiamo del mondo che ci circonda, che è sempre più pericolosamente alterata dai mezzi di comunicazione, che non riescono più (se mai ci sono riusciti) a raccontare una storia, a fare una narrazione logica della realtà. Non ci saranno più risorse per nessuno, non certo perché i flussi migratori si estenderanno, ma per andare incontro alle esigenze del mercato capitalistico che punta ad incrementare la crescita del PIL riducendo la spesa pubblica, che loro considerano non solo inutile, ma d’intralcio affinché i conti risultino in ordine agli occhi dell’opinione pubblica. Produzione con meno manodopera è la politica intrapresa.

È un’invito che faccio sempre: se ci teniamo davvero a quei bambini, cerchiamo di capire perché quando crescono, anzi, quando hanno la fortuna di crescere, scappano dalle loro terre, anziché donare due euro e toglierci il pensiero. Che tanto poi torna sempre…

Tweet di storia


La memoria è la sopravvivenza della storia. Attraverso la memoria la storia continua a vivere nelle speranze, negli scopi e nelle aspettative di uomini e donne che cercano di dare un senso alla vita, di trovare un ordine nel caos, di fornire soluzioni note a problemi ignoti. La storia ricordata è la materia di cui sono fatte speranze, obiettivi e conoscenze; è il regno in cui le immagini del passato sono salvate dall’oblio. La memoria è storia in atto. La storia ricordata è la logica che gli attori introducono nei loro sforzi e di cui si servono per conferire credibilità alle loro speranze.

Nella sua sopravvivenza, la storia dovrebbe guidare la lotta del presente. Ma in un presente in cui la storia passa con la stessa velocità e lunghezza di un tweet, essa viene ridimensionata a gioco di ruolo in cui i partecipanti si sfidano a colpi di manipolazione ristretti in un titolo, in uno slogan, sintetizzati, compressi in 140 caratteri, con il solo intento di vincere per primi la partita; una partita che serve a far funzionare il mondo, così com’è: mal funzionante, e non a cambiarlo in meglio. Il vincitore, infatti, si aggiudica il posto di “amministratore di condominio” (più o meno buono), che sa benissimo come farlo funzionare. Non serve un progetto né una visione storica dell’insieme: c’è soltanto bisogno di un amministratore in grado di manipolare la memoria e di strappare dalla testa e pancia delle persone il consenso necessario affinché tutto continui nella stessa direzione; pillole di certezza, attimi di certezza e tweet di certezza da introiettare nella testa delle persone, che così sono sicure che la storia narrata sia quella, anche se in realtà così non è, ma non importa, perché in fondo l’esigenza di verificarla non riguarda loro personalmente. Basta che porti con sé fascino e attrazione fatale.

È così che si vince una partita: s’impone l’attore più bravo, professionale e capace di sfruttare al massimo gli strumenti messi a disposizione dalla storia per manipolare la storia stessa.

Tutti abbiamo bisogno di certezze, di ascoltare storie, di qualcuno che ce ne narri una, e non hanno importanza le basi individuali di cui disponiamo per interpretarla correttamente: le credenze non devono essere coerenti o fedeli alla verità per essere accettate. È storicamente sempre andata così, e le credenze d’oggi non fanno eccezione, poiché come in passato tendiamo a credere con uguale fermezza di non poter fare molto individualmente, con alcuni altri o tutti insieme per cambiare il modo in cui vanno o sono fatte andare le cose nel mondo. Inoltre siamo convinti che, se anche riuscissimo a produrre un miglioramento, sarebbe vano, per non dire irragionevole. Elaborare insieme l’idea di un mondo diverso da quello esistente e, qualora lo considerassimo migliore di quello in cui viviamo, impegnarci a fondo nella sua costruzione non è fra le nostre principali aspirazioni individuali: siamo occupati a fare altro, ad organizzare la nostra vita, a scansare ostacoli, ad acquistare l’ultimo modello di cellulare, l’ultimo capo alla moda, a fare le nostre scelte quotidiane per raggiungere l’irraggiungibile soddisfazione, per non rimanere indietro, che è già faticoso di per sé. Il resto sono questioni che non sentiamo nostre, che non sembrano così vicine da meritare il nostro interesse, che d’altro canto nessuno destina a noi. E allora perché sforzarsi tanto?
Proviamo, quindi, a farci una domanda:
Se la battaglia per la libertà fosse stata vinta, come si spiega che la capacità umana di immaginare un mondo migliore e di fare qualcosa per migliorarlo non è tra i trofei di quella vittoria?

Il presuntuoso


Il presuntuoso non è altro che colui che presume troppo di sé, che si confronta con gli altri solo per cogliere occasione di dimostrare la loro inferiorità. Il presuntuoso non conosce crisi, ma pretende di descriverla dall’alto della sua saccenteria spacciandola per intelligenza e sensibilità. Si qualifica vanitosamente ed è oltremisura abile nel confronto orale, usa termini esigenti per evidenziare l’inferiorità dell’interlocutore e sogghigna causticamente sui suoi difetti verbali. Il presuntuoso raramente accetta consiglio, e prende in considerazione solo persone che lui stesso giudica all’altezza. Si autodefinisce e presenta come una persona modesta, umile, semplice, pur non essendo necessariamente a contatto intimo con nessuno che presenti spontaneamente questi contorni. Si confina in gruppi nei quali si rivendica convintamente la propria egemonia, ed enfatizza fino all’esasperazione l’incapacità degli altri nel risolvere i problemi. Il presuntuoso sostenta le proprie convinzioni con la sua vanità, che non perde occasione di rafforzare e far risaltare ogni qualvolta il suo interlocutore appare in difficoltà, ed è anche paradossalmente lo stesso motivo per il quale spesso evita la discussione, ovverosia per non trovarsi lui stesso nella medesima condizione d’inferiorità. Rivendica il contraddittorio come strumento indispensabile di democrazia, ma al contempo rinnega sfrontatamente l’esistenza antropologica di ragioni opposte alla sua. Generalmente il presuntuoso dispone privilegiatamente di mezzi e risorse che gli permettono di affermare con netta predominanza la propria posizione. Non ha opinioni ma certezze, e ritiene il suo l’unico punto di vista opportuno. Il presuntuoso interrompe gli altri quando cercano di esprimere un concetto, non essendo in grado di ascoltare ragioni non convergenti con le sue. Confonde l’intelligenza con l’ottusità, poiché portatore sano inconsapevole di scarso intelletto. Il presuntuoso giudica, emette sentenze, è eccentrico, stravagante, ironico e anche autoironico, per certi aspetti appare anticonformista nella sua esteriorità, a volte è trasandato, particolare che risalta autoironicamente per rivendicare la sua semplicità, senza accorgersi di sconfinare nell’egocentrismo. A volte invece è impeccabilmente curato, composto, elegante, peculiarità anche questa che rievoca con grande saccenteria. Il presuntuoso non è altro che colui che smentisce le logicità del proprio punto di vista con le sue stesse affermazioni, propagandandole boriosamente per verità filosofiche universali.
Il presuntuoso riflette narcisisticamente la propria immagine nella “contraddizione più filosofica del termine” testimoniando l’incoerenza di una teoria falsificandola a piacere. Il presuntuoso è convinto arrogantemente che il saggio sia chi sa di sapere ma, forse per comprenderlo rende meglio l’idea lo stile di Woody Allen: “fino all’anno scorso avevo un solo difetto: ero presuntuoso”.

Parafrasando un noto venuto a mancare recentemente: spesso l’ignoranza logora chi non ce l’ha.

Storie di ex lavoratori


«Se si ha un lavoro che ci consente di avere una vita dignitosa, mentre la si vive non si fa caso al tempo, non si aspetta con ansia e frustrazione che qualcosa possa finalmente cambiare per poter migliorare la propria condizione, si è tutti presi dalla vita e non si fa attenzione ad altro. Io non so più cosa significa una vita così».
– Un ex operaio –

Il motivo di soddisfazione principale di una vita dignitosa è quello di poter far parte, o essere membro, del gruppo, della società, della comunità. Sentirsi utili, a se stessi e alla comunità, equivale ad avere una vita dignitosa, quindi utile a se stessi e agli altri. Non ci si sente e scartati, emarginati, espulsi dal contesto sociale in cui viviamo. Non esiste niente di più umiliante per un essere umano che sentirsi inutile alla società, che sentirsi emarginato. L’umiliazione non viene avvertita limitatamente nel cerchio familiare, ma si estende nelle complessità della della vita, nella loro totalità. Un essere umano, quando costretto a sopravvivere di stenti e a convivere con le umiliazioni quotidiane conseguenti all’emarginazione, perde i suoi equilibri, il suo “senso“, le sue ragioni di vita. Non accetta, intimamente, di essere ridotto a scarto della società, di essere abbandonato a se stesso senza possibilità di riscatto. Quando non riesce a procurare il pane per i suoi figli, per la propria famiglia, nasce e si radica in lui un sentimento di odio verso lo Stato, verso la società che non lo accoglie più. Un odio che ha origine dalla sopraffazione subita, dalla negazione o la soppressione del suo senso di appartenenza, che invece vorrebbe essere libero di esprimere.

Come può un uomo accettare simili umiliazioni? Come può guardare negli occhi i propri figli, pensare di poter dare loro protezione, esempio, giusta educazione, sani princìpi e valori, e rassicurarli dicendogli che va tutto bene, di non temere, che la vita è bella…? Dove può trovare un uomo simili risorse, se lui per primo non riesce a rassicurare se stesso? Gli esseri umani non sono tutti eroi, non hanno tutti a disposizione, indistintamente, un pozzo dal quale attingere speranze, forze, coraggio… Pensare con pretesa che ognuno di noi, senza appelli e dubbi, sia in grado di trovare dentro sé la forza adatta ad affrontare le complessità della vita, allo stesso modo di tutti, significa non conoscere minimamente la vita e le sue infinite sfaccettature. Significa essere mossi dall’arroganza, dalla presunzione, dall’egoismo, dalla saccenteria… Significa non conoscere affatto la vita, e arrogarsi un giudizio che non abbiamo il diritto di emettere, una conoscenza che non conosciamo e dimostriamo di non voler conoscere. Significa avere la presunzione di conoscere risposte a domande che nemmeno ci facciamo, che non “abbassiamo” a farci perché convinti di non averne bisogno. Siamo tutti capaci a piangere davanti una storia raccontata attraverso uno schermo, ma difficilmente dopo, cambiato canale, quella storia, quella rabbia e quelle lacrime ci faranno andare alla ricerca di risposte.

Farsi domande significa qualcosa di più che servirsi di risposte preconfezionate e pronte all’uso. Farsi domande significa confrontarsi, indagare, mettersi continuamente nei panni degli altri, nelle disgrazie e nelle vite degli altri, cercare di conoscerle, di scavare fino alla radice dei problemi che li affliggono e farli nostri.
Le domande non si esauriscono una volta che si è cambiato canale.

Se da una parte lo Stato non aiuta, dall’altra ci siamo noi, singoli di una comunità che non c’è più, completamente conniventi a questo menefreghismo.

Lasciati soli, da soli, non è per tutti facile trovare le forze, e in questo senso di abbandono, che soffoca come un braccio stretto attorno al collo, che schiaccia gli individui fin nell’animo, sfido chiunque a guardare i propri figli negli occhi, tutti con lo stesso coraggio, la stessa risolutezza, la stessa forza d’animo, la stessa eloquenza, e dir loro:
«Non ti preoccupare, ci sono io…»
E come, guardandoli negli occhi, si può avere tutti la stessa fiducia e speranza che anche loro, un giorno, avranno la possibilità di fare lo stesso con i loro figli, se mai ne avranno, mentre dentro, nell’animo, ci sentiamo annullati ogni giorno di più…?

L’ho sempre pensato: l’arroganza di sapere e l’ignoranza di non saper ascoltare, sono i peggiori difetti che un uomo possa avere.