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“SCOPRIRSI” NELL’ERA DEI SOCIAL


Svestirsi, vale a dire ciò che di più facile viene da fare nella società delle immagini, è un gesto che non confina esclusivamente nella fisicità, ma anche nella mentalità, nel modo in cui ci abituiamo ad esibire i nostri pensieri, i più e i meno intimi. Nell’era dei social infatti tale comportamento è ampiamente dimostrabile, praticato, e più o meno implicitamente riconosciuto e accettato dalla maggior parte di noi.
Mettere in piazza i propri pensieri equivale a spogliarsi.

Si è molto parlato del video/esperimento (poi emulato, riprodotto in serie ovunque nel mondo) nel quale si vede una ragazza vestita con un jeans e una maglietta neri che passeggia per le strade di New York ricevendo un centinaio fra commenti e complimenti da parte di uomini. Il video, chiaramente di stampo razzista, è un girato di 10 ore riassunte in nemmeno 2 minuti, nei quali si vedono soltanto uomini di origini africane rivolgere le loro attenzioni nei confronti della ragazza, come a voler indirettamente documentare che di questi bisogna diffidare, dal momento che di tale evidenza non si fa alcun cenno alla fine del video, che i media non hanno perso tempo a titolare “molestie subìte da”, come non si fa cenno della fine che hanno fatto le altre 9 ore 58 minuti. L’autore lascia quindi al pubblico, velatamente già consigliato durante la visione del video, il compito di aggiungere e fare la somma, sollevandosi così di ogni responsabilità. E il risultato è un susseguirsi di altri commenti, prolificati in seguito alla sua condivisone – in Rete come in Tv –, che in poco o nulla differenziano da quelli ricevuti dalla protagonista del video, mescolando così altra confusione a quella già presente.

Prendiamo come esempio Facebook, spazio più che appropriato per osservare il diffondersi di pensieri contrastanti, data l’infinita mole di immagini, video e pensieri che gli iscritti offrono alla platea.

Cattiveria, ignoranza e depravazione si possono trovare nei commenti sotto una foto innocua pubblicata sul proprio profilo, ma anche in quelli sotto un “pensiero” dato in pasto al pubblico. L’errore più comune che facciamo in certi casi sta nel non considerare che spesso giudichiamo chi ci giudica, entrando così in un circolo vizioso dal quale non se ne esce. Ci è difficile accettare osservazioni o critiche contrastanti con il nostro modo di vedere, fondamentalmente perché disorientati, oltre che condizionati, dagli altri inesauribili modi di vedere. Il selfie, ad esempio, entrato prepotentemente a far parte del nostro linguaggio espressivo ormai sempre più scarno, riprodotto in serie in maniera esasperata ed esasperante tanto da sentirsi a volte circondati dal nulla, è l’emblema di quel che siamo diventati e stiamo vivendo. Un comportamento che nel giro di un anno ci ha contagiati come fa un virus, grazie a quella gran cassa di risonanza che sono i media e i loro fruitori, per primi i personaggi celebri (o celebrati, personaggi politici inclusi), sempre pronti in prima linea quando si tratta di lanciare prodotti o modi di fare o di pensare, e che può trovare ragioni solo nella totale dipendenza alla quale siamo asserviti, nella stessa misura in cui un tossicodipendente è asservito alla sua droga.

Ed è così allora che i “mi piace” accrescono un’autostima fittizia, al contrario dei “mi piaccio”, che avvalorerebbero quella autentica. Quando infatti i “mi piace” non convalidano quella autentica, ecco che disimpariamo a conoscerci, ad ascoltare quel che di più intimo abbiamo nelle nostre profondità, a lasciarci soggiogare, poiché sempre più complessi da osteggiare, dai sempre più travolgenti condizionamenti provenienti dall’esterno. Se dalle contraddizioni siamo circondati, se viviamo in un mondo dove ogni elemento che lo compone trova il suo nemico pronto ad affermare una verità opposta altrettanto supportata, come uscirne? In mezzo al caos, di conseguenza, sempre più spesso preferiamo rinnegare, piuttosto che rivendicare con sensatezza; oppure l’esatto contrario: pretendiamo con un’esasperata irrazionalità d’aver ragioni. Vedi chi pubblica pensieri omofobi, razzisti, o foto nelle quali impugnano un’arma, e che solo dopo “si accorgono” d’esser stati vittima dell’impulso ritornando maldestramente sui loro passi. Ma c’è anche chi ovviamente reclama con vigore cadendo spesso nel ridicolo.

L’impulso a denudarsi, a render pubblica la nostra ricchezza intima, a confessarsi costantemente sul proprio profilo social o in quello altrui, rappresenta l’ostentazione frustrata del narcisismo. Preferiamo appunto i “mi piace” ai “mi piaccio”, e lasciamo che siano altri a dire “chi” e “come” dovremmo essere.
Non c’è dubbio: siamo tutti personaggi pubblici, nelle mani di un pubblico che ci conosce ancor meno di noi.
E’ vero, siamo liberi di tornare sui nostri passi quando sbagliamo. Ma qual è il metro di giudizio del quale ci serviamo per stabilirlo? E quanta libertà c’è in un comportamento che si avvicina sempre più a una catena di montaggio?

Se questa è l’Italia…


Soffriamo tutti di un grave disturbo bipolare, di uno sdoppiamento della personalità che in confronto il Dr. Jekyll sembra avere un lieve sbalzo d’umore. Siamo bugiardi, dentro, incalliti, che quando diciamo una bugia sappiamo di dover convincere prima noi stessi per convincere poi gli altri, e sono bugie così vere da essere ormai diventate verità, normalità. Siamo tutti impazziti, da rinchiudere in un manicomio criminale, nessuno escluso, per marcirci dentro a vita. Oggi sì, domani no, poi sì, poi dinuovo no…! Che fine ha fatto la vergogna? E la dignità?

E finalmente si è capito che anche il M5S non è altro che uno specchietto per le allodole, un contenitore dentro il quale rinchiudere ogni forma di protesta che rischiava di sfociare nella violenza, un bottone in più sul telecomando a disposizione — come un placebo — del popolo su cui sintonizzarsi, per chi volesse somatizzare, reprimere e frustrarsi ancor di più per tutto il marciume che nel frattempo la politica italiana ed estera stanno spargendo nelle postazioni di controllo democratico. O in quel che ne è rimasto. È oggi ancor più chiaro che il disegno politico italiano, insieme con quello globale, è di addormentare le ultime coscienze rimaste sveglie, anche le più insonni, per svendere così in libertà quel che è rimasto della cosa pubblica, di proprietà dei cittadini, e lasciar così campo libero all’invasione capitalista neoliberista che sta mietendo vittime ovunque nel mondo. Il M5S dopo le elezioni europee non poteva far altro che gettare la maschera e mostrarsi palesemente per quel che è: un piccolo gruppo di persone intellettualmente corrotte (vedremo a questo punto in seguito se la corruzione si fermerà qui), incapaci di ribellarsi ai “capi”, convinte anch’esse che per governare il tanto sbandierato “popolo” ci sia bisogno di una guida, di un guru che lo indirizzi a suo piacimento (quello dei poteri finanziari) lungo un percorso prestabilito fuori da ogni logica di valore vicina al bene comune, alla con-vivenza, all’uguaglianza dei popoli e ai Diritti di ogni essere umano. Certo che il popolo ha bisogno di una guida, di essere indirizzato, e ci mancherebbe!, ma è mai possibile che questa debba andare sempre nella direzione sbagliata, cinicamente a sfavore di qualcun altro e mai che intraprenda la strada per il bene comune, lontano dalle discriminazioni che si fanno sfacciatamente sempre più profonde? Appannare la riflessione, anziché stimolarne l’uso, sembra essere l’unico scopo che chi conquista un po’ di potere vuole raggiungere.

Non ci si poteva credere, e in molti ci sono cascati dentro con tutta la testa, me compreso, convinti che dall’Italia potesse iniziare a germogliare qualcosa di grande, di meraviglioso, di finalmente onesto in grado di cambiare la concezione sociale del mondo di oggi e di esportarlo altrove. Siamo (eravamo?) l’Italia, abbiamo fatto la storia dell’uomo, non sarebbe stata poi tanto campata in aria come prospettiva. E invece eccolo lì, il M5S. Da sempre contro ogni forma di condizionamento mediatico delle coscienze, delle opinioni, almeno a parole, e poi grande manovratore di consensi quando si tratta di fare alleanze con partiti xenofobi-razzisti che non guardano in faccia nessuno se si devono salvaguardare i propri confini a danno di coloro che ne sono fuori. Da sempre schierato in difesa dei Diritti Umani, paladino della Giustizia e degli Ultimi, quelli lasciati nell’oblio dai media e quindi dallo Stato, il M5S non ci pensa due volte a organizzare alleanze con chi quei Diritti, quegli Ultimi, preferisce lasciarli lontani dal cuore, e anzi si diverte cinicamente a schernirli e a ricordargli quanta poca considerazione ha di essi e quanto poco contino in una società allo sbaraglio come questa, intento, come altri, nel perseguire un modello economico-sociale fondato e fossilizzato sul profitto e sullo sfruttamento delle risorse materiali e umane a discapito di quelle popolazione che a causa di ciò vengono lasciati in miseria. Il M5S era (avrebbe dovuto essere) quella compagine di cittadini che si dichiarava lontana dalle logiche mediatiche del consenso, dal marketing politico, dall’influenza e dalle limitazioni di scelta, salvo poi escludere a priori i Verdi dalle “votazioni online”, dichiaratamente indirizzate a colpi di post pro-Farage, scelto anticipatamente dai sempre più ingombranti e incomprensibilmente — fino a prima delle elezioni europee — confusionari Grillo e Casaleggio come l’unico con il quale fare alleanza. Sdegnare fino al giorno prima le nomine fatte dai partiti e poi nominare spudoratamente un personaggio come Farage elevandolo a “bene assoluto” è stata la mossa più ridicola che il Movimento potesse immaginare di fare per venire allo scoperto. Le alternative, che prima delle elezioni europee sembravano essere la vera bandiera dei 5Stelle, si sono ridotte così anch’esse al classico “non ci sono alternative” come da tradizione thatcheriana, la stessa in cui del resto è cresciuto e si è formato Farage (e da cui tutto il sistema politico occidentale attuale ha preso spunto), l’etichettato “simpatico signore” da Grillo. Il M5S è dunque un altro partito, l’ennesimo, né peggio né meglio di altri, con la evidente funzione sociale di incanalare le frustrazioni del popolo per fare da “rete” di sicurezza, come quelle che nei circhi stanno sotto ai trapezisti e ai funamboli pronte a salvare non solo chi ha paura di cadere, chi ancora crede ci possa essere qualcosa di buono, “sotto”, verso cui riporre fiducia e speranze così da continuare a rischiare, che tanto, mal che vada, c’è la Rete, ma anche per lasciare pressoché indisturbati chi da “lassù” rischia con la nostra pelle, lasciando al popolo, o a una parte di esso, la falsa speranza di una salvezza dal quel marciume che ci impregna fin nel DNA. Quella “Rete”, metafora mai così azzeccata, che appunto finge (nota bene: non “funge”) da protezione, ma che in realtà scientemente accoglie tutti coloro che conservano — o credono di conservare — un senso critico, autonomo, immune dalle dipendenze del pensiero autoritario, assolutistico, egemone, ipocritamente autarchico, per indirizzarli, una volta di più, come se non bastasse quello che già offre la società, e con maggiore sottigliezza, pertanto con ancor più disprezzo, verso un percorso già segnato, o una fossa già scavata che si fa solo finta di voler ricoprire. Un perfetto gioco delle parti, dove il poliziotto buono, a seconda dei punti di vista, diventa il poliziotto cattivo e viceversa, cosicché chi si trova in mezzo è costretto a subire, suo malgrado, le falsità che si rimpallano e che gli vengono scaricate addosso.

Siamo ormai alla pura follia. In un paese “normale”, la psichiatria avrebbe di che occuparsi 28 ore al giorno della nostra classe dirigente anziché degli omicidi efferati che ogni dì ci frantumano quei due neuroni rimastici. Altro che riempire talk-show di politicanti, pseudo-filosofi, politologi, opinionisti, giornalisti e compagnia cantante; farei riempire gli studi televisivi di scienziati per analizzare la classe dirigente italiana, tutta. Siamo al festival dei ripensamenti, al Sanremo delle bugie, ai Nobel per la sfrontatezza. Come diavolo fai a fidarti di gente così? Va bene pensarla diversamente, è giusto avere preferenze politiche, ideali diversi, eccetera, bla bla bla, ma qui c’è qualcosa che non va… Qui sta accadendo qualcosa di seriamente inquietante.

Se questa è l’Italia, quella degli omicidi efferati, dei plastici di Porta a Porta, dei corrotti e corruttori, degli sprechi, degli appalti ai soliti noti, delle emergenze, delle grandi opere infinite dai costi infiniti, dei politici latitanti e di quelli che li aiutano a latitare, delle stragi irrisolte, dei mafiosi alla guida di grandi partiti nazionali che decidono le sorti del Paese e della Costituzione, dei Comuni sciolti per mafia, del Presidente della Repubblica al secondo mandato, delle slide, di quelli che dicono che le elezioni europee non sono un referendum sul Governo ma che poi il 40,8% legittima a eliminare il minimo cenno di dissenso come nelle peggiori dittature, degli 80€ che a forza di ripeterli vogliono diventare 800, delle nuove tasse aggiunte in silenzio, dei brogli elettorali sì, brogli no e degli ebetini manovrati dai poteri finanziari con cui mai e poi mai dialogare ma che poi due chiacchiere forse è meglio farcele, dei regali ai signori del gioco d’azzardo, degli interminabili e inconcludenti talk-show, della politica mediatica, dei giornali di partito indebitati, dei giornalisti indebitati coi partiti, dei razzisti leghisti, dei nazisti di Forza Nuova, dei diti medi dei Fassino, delle Santanché, dei Gasparri, di Equitalia, dei senza tetto per pignoramento costretti a dormire in macchina o sotto i ponti, delle famiglie sfrattate dagli alloggi occupati abusivamente senza pensare a una loro sistemazione dopo, delle migliaia di imprese fallite al mese, dei suicidi, delle banche usuraie, dei favori alle banche, dei centri di accoglienza stracolmi, delle carceri al collasso, della Sanità pubblica distrutta e sempre più indebitata, delle scuole che cadono a pezzi, dei bambini delle elementari che ripongo, cantando canzoncine, il loro “futuro nelle mani dell’amato Presidente”, delle alluvioni che bloccano intere città e distruggono interi paesi, delle frane, dei terremotati eternamente senza casa e dei moduli abitativi lasciati marcire in emarginazione, delle “baby prostitute” e delle igieniste dentali, dei marò che sono sempre in India e che presto torneranno in Italia e chissenefrega dei poveri pescatori indiani uccisi e delle loro famiglie che avrebbero pur diritto, anche loro, a conoscere chi e perché li ha uccisi (fossero stati italiani?); se questa è l’Italia… delle partite di calcio decise a tavolino, dei tifosi che si ammazzano e dei “Jenny ‘a Carogna” che sedano le rivolte, dei G8 di Genova, dei Cucchi, degli Uva e degli “Speziale libero”, dei preti pedofili, dei fondi neri dello IOR, delle maestre degli asili nido che picchiano i bambini, dei centri di Igiene mentale dove i pazienti vengono picchiati, delle discariche abusive, delle fabbriche inquinanti, dei morti per tumore a causa dell’inquinamento e dei morti per un lavoro che non garantisce sicurezza, dei senza lavoro, dei senza diritti, delle pensioni d’oro e di quelle da fame, dei tagli alla cultura, dei cervelli in fuga, degli oroscopi di Branco e di Paolo Fox, delle D’Urso che si dichiarano giornaliste e delle De Filippi che si ergono a “welfare”, dei tweet prematuri del ministro Alfano e di quelli sempre puntuali del presidente del Consiglio Renzi, del tutti contro tutti, che tanto nessuno ci capisce più un emerito nulla… se questa è l’Italia, allora siamo fritti.

Conflitto d’interessi: Tv e internet a confronto nell’era dell’informazione “libera”


Ci sono illustri commentatori e opinionisti che considerano internet un potente mezzo di condizionamento delle masse. Diffondono il loro verbo molto spesso per screditare o ridimensionare il fenomeno dell’informazione libera che questo strumento potenzialmente offre, ma che di certo, va detto, non garantisce. Al di là delle ideologie, oggettivamente la rete è un vastissimo spazio dentro il quale è possibile trovare ogni genere di cose che genericamente, in via estrema, possono essere concentrate in due principali categorie: bugie e verità. Collocare ciò che troviamo nella giusta categoria, è una questione non di poco conto e che riguarda la sfera culturale soggettiva.
Assunto ciò, i mezzi che i suddetti chiosatori utilizzano prevalentemente per “trasmettere” il loro messaggio, sono Tv e stampa. Ovvero i medium che più di ogni altro di tutta la storia dell’umanità hanno controllato, indirizzato, influenzato, adattato, contaminato, limitato, suggestionato, sottomesso, sbaragliato, annientato, corrotto, snaturato, manipolato l’opinione pubblica. E senza il benché minimo diritto di replica: i mass media hanno da sempre presentato un pensiero a senso unico, unilaterale: io parlo, tu ascolti. Non hanno mai offerto reali alternative men che meno una diretta interazione. Non vi è dubbio che il compito di verificare la veridicità di quanto trasmesso, anche in questo caso, appartiene al soggetto-spettatore, ma non vi è altrettanto dubbio del fatto che un rapporto di reciproca dipendenza crea un terreno (più “e” meno fertile) sul quale è ancora più possibile coltivare una riflessione.
Forse, e qui il dubbio è più che fondato, c’è un leggero conflitto di interessi nel momento in cui lorsignori si prodigano saccentemente per propagandare il loro messaggio, o meglio, il personaggio che interpretano.

La libertà dà a se stessa la possibilità di un dialogo interiore


Nell’era della comunicazione digitale siamo diventati tutti cacciatori di notizie, o meglio “pescatori“, dal momento che la rete ha più la consistenza strutturale di un oceano che di un luogo definito e limitato come lo è una riserva di caccia. Andiamo a pesca di notizie di ogni razza, misura e peso, esigenza e gusto, e brandiamo le nostre prede come trofei sulle nostre bacheche esposte al pubblico per dimostrare e rafforzare le nostre idee, il nostro “status di appartenenza“: «Ecco! Hai visto che avevo ragione!?»

Cerchiamo continue conferme nel mare della rete.

Gettiamo continuamente le nostre reti nella rete per pescare il pesce più grosso da esibire al pubblico e confermare così a noi stessi e agli altri le nostre ragioni e rafforzare le nostre convinzioni. Da insicuri quali siamo sentiamo l’esigenza di aver qualcuno accanto, al di fuori di noi stessi, che rafforzi e confermi la nostra autostima. E nell’infinita vastità della rete possiamo trovare con facilità tutte le conferme di cui abbiamo bisogno a sostegno delle nostre ragioni. E la pesca, essendo sempre aperta e infinitamente ricca, è “felice”, esaltante, interessante, stimolante, poiché ogni qualvolta gettiamo la rete in mare non capita mai di tirarla su vuota, e quel che ci troviamo impigliato riesce sempre a mantenere alti sia il nostro senso di soddisfazione che di insoddisfazione: la sera non torniamo mai a casa con la cambusa vuota, e se ci applichiamo un po’ possiamo pescare pesci sempre più grossi, ma al tempo stesso il giorno dopo ci sentiamo ugualmente vuoti, come se quello precedente non avessimo portato a casa niente.
È un circolo vizioso che può ripetersi all’infinito.

Quello che non riusciamo più a fare, però, è esprimere la nostra opinione individuale formata attraverso un percorso culturale individuale.

Conferme.
Abbiamo bisogno sempre più di conferme poiché il bombardamento di informazioni continuo mette in crisi le nostre percezioni e convinzioni, perciò andiamo alla ricerca di articoli e notizie già confezionati e pronti all’uso.
Ma l’essere umano, per sua natura, non è colui che “dice no“, e neppure colui che “dice sì“, bensì colui che domanda “perché?“. E sembra che oggi, nell’era del digital sharing, questo approccio cognitivo nei confronti del mondo che ci circonda sia stato messo prevalentemente – inconsciamente – da parte. In effetti, come mi hanno fatto osservare, possiamo affermare con semplicità che oggi più di ieri “è più facile non pensare che farlo“. In particolare in un mondo dove i comfort, materiali e psicologici, sono imposti come meta principale dell’esistenza dal modello sociale imperante, che ci riconosce un posto “rispettabile” solo quando abbiamo imparato a limitare, o a rassegnare, o a deporre i nostri “perché?“, e ad accontentarci di quel che gli scaffali della vita – essendo ormai essa diventata un grande centro commerciale – espongono-propongono-offrono-vendono. Naturalmente, a chi non può permettersi di acquistare la subcultura disposta sugli scaffali illuminati dai neon, viene negato quel posto.

È ormai una condizione preponderante, sempre più estesa: l’uomo moderno deriva le proprie convinzioni, i propri giudizi, da fattori esterni alla propria volontà. L’eteronomia è uno stato esistenziale endemico nella nostra società.

Nella società mediatica, dove le informazioni vengono recepite/percepite attraverso i media e non attraverso un percorso evolutivo culturale individuale, soggettivo, l’uomo “sceglie” ciò che la figura mediatica predominante gli offre. Non approfondisce, ma si fida ciecamente di ciò che ascolta, e non di ciò che elabora attraverso percorsi individuali che gli consentirebbero di trascendere, di uscire da quel centro commerciale illuminato per affrontare l’oscurità, il lato notturno della vita umana.

Kant diceva che “le cose non stanno nella mente, ma esse vengono riconosciute e formate nella mente“, e quando le nostre basi culturali individuali sono carenti, e dall’esterno veniamo continuamente bombardati da informazioni ognuna in aperta contraddizione con l’altra, già in conflitto tra loro, in noi, nel nostro modo soggettivo di percepire tali informazioni si verificano corti circuiti che non siamo più in grado di dominare e razionalizzare. Da qui nascono le nostre insicurezze. Non abbiamo più certezze, e ci abbandoniamo passivamente a quel conflitto più o meno sistematico a cui assistiamo, e allora l’unica cosa che ci sentiamo in grado (e in dovere) di fare è quella di accendere i motori e navigare in mare aperto a caccia di pesci già confezionati e pronti all’uso, pronti da esibire e da mangiare. Solo che non riusciamo a capire “perché?” la nostra fame e il nostro desiderio di esibire i trofei non trovano mai soddisfazione.

Non dialoghiamo più con noi stessi, ma lo facciamo solo attraverso gli altri. È una bella gatta da pelare. È una brutta rassegnazione.