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La povertà, tra indifferenza, diffidenza e superficialità


Ho, purtroppo, modo di interloquire sempre più spesso con persone che considerano la condizione di povertà l’effetto di un’incapacità esclusivamente personale, una caratteristica di quelle persone che non riescono, giacché non vogliono, a trovare una posizione sociale e quindi a realizzare una vita come quella di tutti gli altri che, invece, riescono a concretizzare perché ne hanno la volontà. Costoro pensano che il mondo sia costituito per una parte da predatori, sciacalli, imbroglioni, astuti, ingegnosi, volenterosi e interessati, di conseguenza immaginano che l’altra sia fatta di ingenui, sprovveduti, imbranati, sfaticati, oziosi, privi di interesse, lamentosi e parassiti. Plagiati quotidianamente da stereotipi, luoghi comuni, banalità e quant’altro capiti di ascoltare o leggere attraverso i media, come dargli torto. E dal momento che “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, il propagarsi di tali preconcetti è inesorabile. A dispetto quindi di quel che conseguentemente una crisi — che nessuno ha voluto — produce, ovvero povertà e degrado sociale, gli indigenti sono tuttavia elaborati come degli incapaci.

È, molto spesso, il povero stesso a ritenersi incapace, non all’altezza delle situazioni e dei problemi che è suo malgrado costretto a fronteggiare. Ed è anche il motivo principale che trascina un individuo alla depressione, e nei casi più estremi anche al suicidio, senza contare le umiliazioni con le quali si scontra ogni giorno e le frustrazioni che ne conseguono. E le umiliazioni sono proprio gli sguardi e i preconcetti di coloro che li considerano degli inetti, per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili nei confronti di chi versa in condizioni di miseria, facendo lo sforzo di comprendere che le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità.

Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in conto alcuni aspetti che una crisi come quella che stiamo vivendo genera: il terreno sul quale camminiamo che si fa sempre più fragile, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali inevitabilmente ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora e che non a tutti riesce facile governare, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e dunque tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche che diventano sempre più difficili da curare a causa della mancanza di risorse economiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.

Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità individuali per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha l’attitudine di diventare predatori, sciacalli, egoisti, astuti a nostra volta. Una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli “attrezzati”. Pensarlo equivale a essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo altezzosamente il resto del mondo. Coprire gli occhi, tappare le orecchie e turare il naso, durante la nostra corsa sfrenata verso il “successo”, poiché vedere, ascoltare i lamenti e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, non serve a nessuno, se non ad alimentare un egoismo e un’inconsapevolezza sempre più diffusi.

Il problema è che non siamo disposti e disponibili a vedere, ascoltare e sentire; l’uomo non è un essere incline a misurarsi con il “brutto”, con la bassezza umana, ma solo con il bello. È ininterrottamente esortato, sollecitato a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, “silenziosi”, e dunque sempre più irraggiungibili, convinto che ciò possa rendere bella, pulita e silenziosa anche la sua coscienza, tranquillo, sicuro di non aver colpe per le disgrazie altrui con il suo comportamento.

Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto ci si possa spruzzare di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare, classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”.

E poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei “loro” confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, ci vengono allora in aiuto espedienti in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà. Primo fra tutti è il metodo più semplice da adottare e anche il più efficace (non in termini di solidarietà; efficace per placare egoisticamente la nostra coscienza): quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione” si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato, inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.

Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere (vedi violenze e reati diffusi); più il numero dei malati di cancro aumenta, più saremo costretti a non vedere, non ascoltare, e a non sentire l’odore. L’indifferenza, la diffidenza e la superficialità dilaganti con le quali affrontiamo certi argomenti, e con le quali mi scontro ogni giorno, lo attestano chiaramente. E quanto vorrei sbagliarmi…

(Ultima Parte) Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner.


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª, qui la 4ª)

Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare perché abbiamo bisogno di qualcuno a cui attribuire la colpa per la nostra abominevole e intollerabile condizione, così come per le sconfitte che patiamo allorché tentiamo di migliorare tale condizione e renderla più sicura. Abbiamo bisogno di quel qualcuno per scaricare (e in questo modo eventualmente mitigare) il senso devastante della nostra stessa inadeguatezza. Affinché questo scaricamento abbia successo, c’è comunque bisogno che l’intera operazione nasconda ogni traccia di vendetta personale. L’ultimo legame tra la percezione del carattere disgustoso e odioso dell’obiettivo prescelto e la nostra frustrazione in cerca di uno sfogo deve rimanere segreto. In qualunque maniera sia stato concepito, tenderemo dunque a giustificare la presenza dell’odio, degli altri che ci sono intorno e a noi stessi, con il nostro desiderio di difendere quelle cose buone e nobili che loro, quegli individui maligni e spregevoli, denigrano e contro cui cospirano. Lotteremo per dimostrare che il nostro odio, la nostra determinazione a sbarazzarci di loro, trovano ragione (e giustificazione) nel desiderio che abbiamo che possa sopravvivere una società ordinata e civile. Insisteremo nel sostenere che li odiamo perché vogliamo un mondo libero dall’odio.
Forse non si accorda con la logica delle cosec ma si accorda bene con la logica delle emozioni il fatto che “die unterklasse” (la sottoclasse) e altri come loro – rifugiati senza casa, sradicati, “non apparenti“, richiedenti asilo che non lo ottengono, sans papiers (senza documenti) – tendono ad attirare il nostro risentimento e la nostra avversione. Sembra che tutta questa gente sia stata creata a misura delle nostre paure. Sono disegni animati su cui i nostri incubi incidono incidono le didascalie. Sono tracce viventi (sedimenti, segni, incarnazioni) di tutte quelle forze misteriose, comunemente chiamate “globalizzazione“, a cui attribuiamo la responsabilità per il timore che abbiamo di venire forzatamente strappati dal luogo che amiamo (dal paese o dalla società) e di finire per strada senza alcuna indicazione stradale e senza conoscere la destinazione. Summa summarium, sono adatti, perfino ideali per il ruolo di una effige su cui, anche solo per procura, bruciate quelle forze che non riusciamo a domare e che sono al di là della nostra portata.
Il “leitmotiv” introdotto da da Wozzeck con le parole wie arme Leute (noi povera gente) segnala l’incapacità dei personaggi dell’Opera di trascendere la loro situazione: un’incapacità che i personaggi sulla scena condividono con la folla che assiste alla rappresentazione. Gli artisti romantici vollero vedere l’universo in una goccia d’acqua. I detrattori di Wozzeck, come lui stesso, non potrebbero essere che delle gocce d’acqua, ma, se tentassimo, vedremmo in loro, se non l’Universo, sicuramente la nostra “Lebenswelt” (mondo vitale, il nostro universo, la nostra comunità, società).
Fine.

(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª, qui la 4ª)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (4ª Parte)


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª)

Dennis Smith offre una definizione attuale del termine “umiliazione“:
“Un atto è umiliante se calpesta o contraddice in modo coercitivo la rivendicazione che determinate persone […] sostengono relativamente a chi sono e alle condizioni in cui possono affermare la propria identità. In altre parole, se all’individuo, implicitamente o esplicitamente, è negato il riconoscimento che lui/lei si aspetta per la persona che lui/lei è e per il tipo di vita che lui/lei fa; e se a lui/lei vengono rifiutati quei diritti che gli/le sarebbero stati concessi o che avrebbe continuato a vedere soddisfatti in seguito a quel riconoscimento. Una persona che si sente umiliata quando le viene brutalmente mostrato, con parole, azioni, eventi, che non le è concesso essere ciò che pensa di essere […]. L’umiliazione è l’esperienza di essere sottomessi, repressi, trattenuti o espulsi ingiustamente, irragionevolmente o contro la propria volontà”.

È una sensazione che genera risentimento. Nelle società di individui come le nostre, la sofferenza, il fastidio e il rancore di essere stati umiliati sono probabilmente le forme di risentimento più amare e implacabili che si possono provare, e le più comuni e prolifiche ragioni di conflitto, dissenso e sete di vendetta. Il diniego del riconoscimento, il rifiuto del rispetto e la minaccia dell’esclusione hanno sostituito lo sfruttamento e la discriminazione come formule più comunemente usate per spiegare e giustificare il rancore che gli individui potrebbero provare verso la società, o verso parti o aspetti della società a cui sono direttamente esposti (personalmente o attraverso i media) e di cui dunque hanno esperienza (di prima o di seconda mano). La vergogna dell’umiliazione genera disprezzo e odio verso di sé, un odio che tende a sopraffarci una volta che realizziamo quanto siamo deboli, e decisamente impotenti quando tentiamo di essere coerenti con l’identità delle nostre scelte, quando ci sforziamo di mantenere il nostro posto nella comunità che rispettiamo e che abbiamo a cuore, e di attenerci al tipo di vita che desideriamo fervidamente fosse la nostra e che rimanesse tale per un lungo periodo; ogni volta che scopriamo quanto sia fragile la nostra identità, quanto siano vulnerabili e poco salde le nostre passate conquiste, e quanto incerto debba essere il nostro futuro in vista dell’enormità delle sfide che affrontiamo quotidianamente. Questa vergogna, e così anche l’odio verso di sé, cresce come prova della nostra impotenza accumulata, e come risultato il senso di umiliazione diventa più profondo.

L’odio verso se stessi produce comunque uno stato straziante, intollerabile da vivere e da sopportare: ha bisogno di uno sfogo, e lo cerca disperatamente; deve essere incanalato lontano dal sé più intimo, che altrimenti potrebbe danneggiare seriamente o perfino distruggere. La catena che porta dall’incertezza, attraverso il sentimento di impotenza, vergogna e umiliazione, al disgusto verso se stessi, all’avversione e all’odio di sé, finisce dunque nella ricerca del colpevole “lì fuori“, nel mondo; nella ricerca di qualcuno, ancora sconosciuto e senza nome, invisibile o camuffato, che cospira contro la mia (la nostra) dignità e il mio benessere, e mi (ci) fa patire quest’atroce sofferenza dell’umiliazione. È dunque terribilmente necessario scoprire e smascherare questo qualcuno, poiché abbiamo bisogno di un bersaglio sul quale sia possibile scaricare la rabbia repressa. Le sofferenze devono essere vendicate, anche se non è per nulla chiaro contro chi. Esplodendo, l’odio verso se stessi colpisce i suoi bersagli a casaccio, proprio come ha fatto Wozzeck, e colpisce soprattutto quelli più alla mano, anche se non sono necessariamente quelli con maggiori responsabilità per la caduta, l’umiliazione e la miseria.

(Continua…)-(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª) (Leggi l’Ultima Parte)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (3ª parte)


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte)

Come quello di Wozzeck, oggi il Destino si trova in un vagabondaggio ancora più sfacciato, colpisce a casaccio, e con effetti ancora più devastanti rispetto a quel che sembrava facesse nel periodo successivo alla Guerra mondiale, che si credeva fosse “la guerra che mette fine a tutte le guerre” (e che presto ha dimostrato di esserlo per un tempo tristemente breve), che annunciava tempi di pace, di maggiore benessere, di maggiori opportunità e meno miseria per tutti. Le generazioni passate hanno vissuto con il sogno e la speranza di un’imminente sicurezza esistenziale, mentre quelle di oggi vivono con la convinzione di un’insicurezza duratura, che li accompagnerà lungo tutto il corso della vita, che sarà permanente e forse irrimediabile. Oggi infatti il Destino sembra essere stato individualizzato. Il suo itinerario non è meno irregolare di quanto lo fosse prima, ma la frequenza dei colpi sferrati sembra essere regolare quanto mai prima (monotona, perfino una routine). Come nel “Grande Fratello“, che viene descritto ufficialmente e che comunemente si crede sia un “reality” show, in cui capita che uno dei protagonisti, o anche più di uno, ogni settimana deve essere escluso dal gruppo (buttato fuori con il voto), e in cui la sola cosa che rimane incerta e sconosciuta è chi sarà la persona a cui toccherà, questa o la settimana successiva. L’esclusione è nella natura delle cose, è un elemento inseparabile dell’essere nel mondo, è, per modo di dire, “una legge di natura“, per questo non ha senso ribellarsi a essa. La sola questione su cui valga la pena ragionare, e anche intensamente, è come evitare la prospettiva che “sia io” l’escluso del prossimo giro di eliminazioni servendomi di qualsiasi mezzo di cui dispongo; anche i più meschini.
Nessuno può dichiararsi immune nei confronti del vagabondaggio del Destino. Nessuno può sentirsi realmente garantito nei confronti della minaccia di essere escluso. La maggior parte di noi o ha già sperimentato l’amarezza dell’esclusione, oppure ha avuto il sospetto che in un futuro segreto potrebbe provarla. Sono veramente pochi quelli che potrebbero giurare di essere immuni dal Destino, e ci è concesso sospettare che alla fine molti di quei pochi dimostreranno di aver sbagliato. Soltanto pochi individui possono sperare che non impareranno mai la sensazione che si prova quando si vive un’esperienza simile, in particolare quando si viene disprezzati e umiliati.
Bisogna dire, comunque, che da quando è stata composta l’opera di Berg il significato e la causa principale dell’umiliazione sono cambiati. Oggi la posta in gioco della spietata competizione individuale, inclusa la lotteria dell’esclusione, non è più la sopravvivenza fisica (almeno non nella parte agiata del pianeta, per ora e “fino al prossimo avviso”), non è la soddisfazione dei bisogni biologici primari richiesta dall’istinto di sopravvivenza. E non è neanche il diritto di prendere decisioni, di stabilire da sé i propri obiettivi e di decidere che tipo di vita si preferirebbe fare, poiché, al contrario, oggi si presume che esercitare questi diritti sia un dovere dell’individuo. Inoltre, è diventato un assioma che qualunque cosa accada all’individuo non possa che essere la conseguenza dell’esercizio di tali diritti, del fallimento esecrabile o del colpevole rifiuto di esercitarli: qualunque cosa accada (sia le avversità che i successi) sarà interpretata retrospettivamente come un’ulteriore conferma dell’esclusiva e inalienabile responsabilità degli individui per le loro condizioni individuali.
Resi individui dalla storia, veniamo incoraggiati a ricercare attivamente il “riconoscimento sociale” per delle cose che sono già state pre-interpretate come una nostra scelta individuale: propriamente, quelle forme di vita che noi individui stiamo usando (sia per scelta deliberata che per caso). “Riconoscimento sociale” significa dunque accettazione, da parte degli “altri che contano”, che la forma di vita usata da un particolare individuo è degna e decente, e che su questa base l’individuo in questione merita il rispetto dovuto e generalmente concesso a tutte le persone meritevoli, degne e decenti.
L’alternativa al riconoscimento sociale è la negazione della dignità: l’umiliazione; praticata attraverso la riduzione e la rinegoziazione dei diritti fondamentali di ogni essere umano. E in un mondo in cui i poveri aumentano, le sicurezze traballano, i rapporti si rompono e le responsabilità individuali crescono senza sosta, niente e nessuno può assicurare che il diritto a una vita dignitosa sia garantito in futuro.

(Continua…)-(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte) (Vai alla 4ª Parte)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (2ª parte)


Quel che risulta tanto terrificante nella “povera gente” è il Destino di cui sono, così evidentemente, delle vittime. Destino è il nome che attribuiamo agli avvenimenti che non possiamo né prevedere né prevenire: eventi che non desideriamo né causiamo. Il nome di qualcosa che ‘ci capita’, ma che non è riconducibile alla nostra volontà, e tanto meno alle nostre azioni; il nome dei cambiamenti di fortuna che ci piombano addosso che il proverbiale fulmine a ciel sereno. Il Destino ci spaventa precisamente per il fatto che è imprevedibile e inevitabile. Ci ricorda che esistono limiti a quel che possiamo fare per decidere delle nostre vite come vorremmo che fossero; limiti che non possiamo superare, cose che non possiamo controllare, per quanto affannosamente provassimo a farlo. Destino è la vera epitome dell’Ignoto, di qualcosa che non possiamo né spiegare né comprendere, ed è per questo che ci spaventa così tanto. Per citare Wittgeinstein, “comprendere” significa “sapere come andare avanti“; allo stesso modo, se accade qualcosa che non comprendiamo, non sappiamo cosa fare, e allora ci sentiamo sfortunati e vulnerabili, indifesi. Essere sfortunati è sempre umiliante, ma mai così tanto come nei casi in cui il Destino ci colpisce “individualmente“: quando sono “io stesso” quello che viene toccato, mentre gli “altri attorno a me” vengono oltrepassati dal disastro e continuano a procedere come se niente fosse accaduto. Altre persone sembrano essere riuscite a uscirne illese e senza conseguenze, mentre io ho fallito in modo esecrabile, dunque ci deve essere stato qualcosa di sbagliato in me, qualcosa che ha ‘invitato’ la catastrofe, che ha orientato il disastro nella mia direzione mentre altra gente, ovviamente più abile, perspicace e ingegnosa di quanto non sia io, l’ha evitata. Il sentimento di umiliazione erode sempre l’autostima e il senso di sicurezza di coloro che vengono umiliati, ma mai così profondamente come quando l’umiliazione viene sofferta in solitudine; in questi casi infatti all’ingiuria si aggiunge la beffa, l’insulto: si suppone che ci sia un’unità connessione tra il duro destino e i fallimenti individuali della vittima.

È per questo che Wozzeck cerca disperatamente di ‘de-individualizzare‘ sia la sua miseria che la sua inettitudine. E di riformularle semplicemente con un caso di sofferenza comune alla moltitudine della “povera gente“. Quelli che lo puniscono e lo deridono cercano al contrario di ‘individualizzare’ la sua indolenza. Non vorrebbero sentir parlare di “povera gente” e di destino comune. E cercano di addossare la colpa sulle spalle, personali, di Wozzeck, così come lui cerca disperatamente di de-individualizzare la sua sfortuna. Wozzeck, insistono rumorosamente costoro sperando di ridurre al silenzio la propria ansia, ha attirato la cattiva sorte su di sé. Con le sue azioni o con la sua inazione ha scelto il proprio destino. Noi invece, i suoi denigratori, scegliamo un diverso tipo di vita, e in questo modo non può capitarci la stessa miseria che è capitata a Wozzeck. In modo simile, recentemente un miliardario di Londra ha cercato di convincere duo curiosi giornalisti che la disparità tra il suo benessere e la povertà degli altri fosse dovuta interamente a ragioni di ordine morale:
“Parecchia gente ha lavorato bene perché voleva avere successo, e molta gente non l’ha fatto perché non lo voleva”.
Proprio così: chi vuol fare bene, lo fa, e chi non lo vuol fare, non lo fa.
Dubbi, premonizioni, sensazioni di ansia, tutto questo genere di cose, di qualunque tipo esse siano, vengono placate, almeno per un certo periodo: come le sconfitte di quanto falliscono sono dovute interamente ai loro difetti di volontà, così i miei successi sono dovuti interamente alla mia volontà e alla mia determinazione. Come Wozzeck deve nascondersi dietro il destino della “povera gente” per mettere in salvo quel che è rimasto della sua autostima, così il Capitano e il Dottore devono ricondurre il destino di Wozzeck alle nude ragioni dei suoi fallimenti individuale per mettere in salvo quel che è rimasto della loro sicurezza di sé.

Come ha sottolineato Aristotele quasi due millenni e mezzo fa, non si può essere umani, e se lo si è non si può sopravvivere, al di fuori di una ‘polis’; e ha aggiunto che solo gli angeli e le bestie possono esistere al di fuori di una ‘polis‘. Scorate deve essere stato della stessa opinione, dal momento che, non essendo né un angelo né una bestia, ha preferito una ciotola di cicuta all’esilio da Atene.

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