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OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

Siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere


A tutti coloro che non perdono mai occasione di schierarsi con le unghie e con i denti, e nemmeno quella di tacere.

Non è mai stato facile per nussuno fare l’educatore. Bisognerebbe andare a scavare fino alla settima generazione di ognuno per capire di chi è la colpa. Un ragazzo fa una rapina, e allora la colpa è dei genitori che non sono stati in grado di educarlo, e per lo stesso principio a loro volta hanno avuto padri e madri che li trascuravano, che di conseguenza hanno avuto la stessa sfortuna, perché altrimenti i loro figli non avrebbero trasmesso ai discendenti le loro lacune. E così via, fino alla preistoria.

Comprendere che i mali della nostra società arrivano da lontano è fondamentale, ma circoscrivere alle singole famiglie le colpe di un degrado diffuso è profondamente insufficiente come riflessione. E allora mi chiedo perché dovrebbero esistere uno Stato, una Costituzione, delle Leggi, un Sistema Formativo? A cosa dovrebbe servire una Istituzione del genere se poi, alla fine, la colpa del degrado è da imputarsi sempre agli individui e mai alla debolezza del Sistema nella sua complessità?

Allora se uno Stato schiacciasse dalle tasse il proprio popolo verrebbe facile pensare che quel popolo, pur di non farsi schiacciare, evaderà le tasse creando le basi per la corruzione. Il concetto è che se i reati e il degrado aumentano può solo significare che lo Stato non è in grado di funzionare come dovrebbe. Non è in grado di educare il proprio popolo.

Scaricare la colpa sul singolo individuo (che pure ha colpe, ma non lui soltanto), e concentrare l’attenzione giudicando la singola azione significa sollevare di ogni responsabilità un Sistema che avrebbe dovuto per primo evitare l’evolversi del degrado, che si manifesta soprattutto attraverso episodi come quelli che la cronaca racconta ogni giorno.

Siamo tutti bravi dare giudizi, ma siamo meno bravi in un’infinita di altra roba. Soprattutto siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere.

2015: NON SARÀ UNA BUONA ANNATA…


In controtendenza, rispetto ai tradizionali auspici, in opposizione ai più affezionati fan dei più fidati oroscopi, infischiandomene dei folcloristici auguri di buon anno, delle ottimistiche previsioni che fantasticano su di un futuro ignorando il presente, voglio qui di seguito stendere due righe di realtà, che pur essendo spiacevole, problematica, spesso antipatica, molesta e intollerante, merita d’esser presa in considerazione.

Di giorno in giorno si susseguono notizie che mostrano tendenze negative in materia di uguaglianza. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha calcolato che tre miliardi di persone vivono oggi sotto il livello della povertà, fissato in 2 dollari di reddito al giorno. Sappiamo che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti, mentre il 20 per cento più povero consuma l’1 per cento. Si stima inoltre che il 40 per cento della ricchezza mondiale è posseduto dall’1 per cento della popolazione totale del mondo, mentre le 20 persone più ricche del mondo hanno risorse pari a quelle del miliardo di persone più povere. Nel 1998 nello Human Development Report delle Nazioni Unite si documentava che il 20 per cento della popolazione mondiale si accaparrava l’86 per cento di tutti i beni e i servizi prodotti nel mondo, mentre il 20 per cento più povero ne consumava solo l’1,3 per cento.
Se negli anni ’60 la retribuzione netta media dei Dirigenti era di 12 volte rispetto a quella media dei lavoratori, vent’anni dopo era di 42 volte, nel 1990 raddoppia a 84 volte, nel 1999 schizza a 400 e nel 2000 a 531 volte.

Tavola 1
Evidentemente qualcosa non va.

Raccogliamo, estremizzandole, quindi le idee di chi indirizza – o di chi crede di fare il bene indirizzandolo così – il mondo e la sua economia in questo senso.

Viviamo in una società che si regge sui consumi, nella quale, quindi, le persone sono vincolate (per non valersi di termini più adatti come “costrette” o “obbligate”) ad essi affinché la sua “organizzazione” non ne soffra e non rifletta conseguenze evidenti. Conseguenze che possono essere appunto più o meno visibili, giacché l’impulso a consumare, penetrato negli anni fra le vocazioni umane sfrattando dai primi posti ogni altra, è sostenuto massicciamente esercitando un’infinità di forme promozionali; è, di conseguenza, sempre più difficile riuscire a vedere quel che si nasconde dietro i cartelloni pubblicitari, dove a caratteri cubitali dominano inesauribili soluzioni ad inesauribili problemi indotti. Questa è infatti la verità indiscussa e indiscutibile sulla quale sta affannosamente tenendosi in equilibrio la nostra economia. Un paradosso, considerato l’enorme squilibrio sociale generato finora.
Tutto ciò ha un nome, una definizione ormai (è il caso di dirlo) celebre e celebrata come indispensabile, come il solo processo di sviluppo possibile per il futuro dell’umanità, smerciato ad essa come una casa di distribuzione discografica schiera sugli scaffali in bella vista, davanti a tutti gli altri, un qualsiasi vincitore di Talent Show spacciandolo proprio per talento:

Neoliberismo.

I Neoliberisti sono degli individualisti convinti, vale a dire: è al singolo individuo che spetta il compito di collocarsi nella società, di realizzare in essa la propria vita con le proprie forze e capacità, escludendo di fatto tutti coloro che non sono all’altezza di sbrogliarsela nell’arzigogolato groviglio realizzato nel tempo attraverso la commercializzazione selvaggia dell’esistenza stessa. È compito, dunque, degli individui cercare fra le soluzioni ingegnosamente disposte sugli scaffali le più adatte a dare risposte a domande tanto più stimolate quanto più infondate, ma necessarie a tenere in piedi il modello economico corrente. In poche parole: competerebbe alla maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, lasciarsi abbindolare da quanto viene offerto e fare del nostro meglio per sostenere l’attività economica. Pena l’esclusione, l’emarginazione da quel che è divenuto un meccanismo comportamentale vizioso, nel quale l’individuo si sentirà un estraneo e sarà considerato tale dalla società, asociale, perciò suscitando la stigmatizzazione del resto del gruppo che lo escluderà ancora di più.
Ancora:
“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire”, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Abbiamo detto che i consumi sono l’anima della nostra economia, ed è implicito che così indirizzata rimpolpa i soli conti in banca di chi produce beni di consumo, siano questi effimeri o necessari alla sopravvivenza. Chi produce ha interesse a minimizzare i costi di produzione massimizzando i profitti, dunque riducendo la manodopera e aumentando la meccanizzazione del lavoro i risultati possono essere sorprendenti… agli occhi di coloro che non perdono occasione di abusarne. E chi ne abusa sono gli avidi e gli avari.
L’avidità e l’avarizia sono due nozioni che hanno significati diversi, ma che se associati fanno assumere, a chi ne è conquistato, connotati più o meno consapevolmente perversi. Ed è attraverso la pubblicità, propinata collettivamente come un’esca per farci desiderare sempre qualcosa di più, che accettiamo l’avidità come modo di essere.

Non è vero quindi che chi produce e si arricchisce crea nuovi posti di lavoro.

Se ancora non basta, avviandoci alla conclusione di questo post, e di questo anno, rendiamo tutto più negativo prendendo in esame l’ultimo Rapporto dell’ILO (International Labour Organization):
“Ai ritmi attuali – si legge nel Rapporto –, da qui al 2018 saranno creati 200 milioni di posti di lavoro supplementari. Questo dato è inferiore al livello necessario per assorbire il numero crescente di nuovi ingressi nel mercato del lavoro”. […] “Il numero dei disoccupati a livello globale è salito di 5 milioni nel 2013, raggiungendo quota 202 milioni, che equivale ad un tasso di disoccupazione mondiale del 6%.
Nel 2013, circa 23 milioni di lavoratori hanno abbandonato il mercato del lavoro.
Entro il 2018 ci si aspetta un aumento di oltre 13 milioni di persone in cerca di lavoro.
Nel 2013, circa 74,5 milioni di persone tra i 15 e i 24 anni erano disoccupate, che equivale ad un tasso di disoccupazione giovanile del 13,1%.
Nel 2013, le persone che vivevano con meno di 2 dollari al giorno erano circa 839 milioni.
Nel 2013, circa 375 milioni di lavoratori vivevano con le loro famiglie con meno di 1,25 dollari al giorno.

La disoccupazione giovanile resta la principale preoccupazione.

Il rapporto sottolinea l’urgenza pressante di integrare i giovani nella forza lavoro. Attualmente, sono 74,5 milioni le donne e gli uomini disoccupati sotto i 25 anni, un tasso di disoccupazione giovanile che ha superato il 13%, ovvero più del doppio del tasso di disoccupazione generale a livello globale.

Nei paesi in via di sviluppo, il lavoro informale resta diffuso e il percorso verso un miglioramento della qualità dell’occupazione sta rallentando. Ciò significa che meno lavoratori riusciranno ad uscire dalla condizione di povertà da lavoro. Nel 2013, il numero di lavoratori in povertà estrema — che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno — è sceso solo del 2,7% a livello globale, uno dei tassi più bassi degli ultimi 10 anni, fatta eccezione degli anni immediatamente successivi alla crisi”.
[…] “La qualità del lavoro nella maggior parte dei paesi della regione (europea) è peggiorata a causa dell’ulteriore aumento dell’incidenza del lavoro temporaneo involontario e part-time, della povertà da lavoro, del lavoro informale, della polarizzazione del lavoro e dei salari, e delle disuguaglianze di reddito.
La ripresa fragile è in parte dovuta al perseguimento delle politiche di austerità nella regione.
Esiste il rischio che le politiche monetarie e fiscali continuino a non essere coordinate in quanto l’austerità fiscale è perseguita con la creazione di liquidità non convenzionale e accomodante da parte delle banche centrali degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone. […] «Con 23 milioni di persone che hanno abbandonato la ricerca di un impiego, è imperativo che le politiche attive del mercato del lavoro siano attuate con maggiore vigore al fine di contrastare l’inattività e il mismatch (condizione di disequilibrio) tra domanda e offerta di competenze», ha dichiarato Ernst, Direttore dell’Unità sulle tendenze globali dell’occupazione del Dipartimento di ricerca dell’ILO.
Una virata verso politiche più favorevoli all’occupazione e un incremento dei redditi da lavoro rafforzerebbe la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, sottolinea il rapporto. Nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, è cruciale rafforzare i sistemi di protezione sociale di base e promuovere transizioni verso l’occupazione formale. Anche questo contribuirebbe a sostenere la domanda aggregata e la crescita globale”.
(Qui il Rapporto completo)

Allora auguro a tutti noi, di cuore, un anno di consapevolezza in più, certo di felicità, e mi auguro non accettiate mai come giuste, cercando di approfondirle, le condizioni umilianti di chi non ha la possibilità materiale e la forza spirituale di lottare contro chi gli ripete che “volere è potere”, che si può tutto nonostante condizioni sociali sempre più avverse. Non è vero. Non credeteci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale.
BUON ANNO!

🙂
Cristiano

Come si fa a volare con le ali spezzate?


Allora, se siamo nell’era delle post-ideologie, perché continuare a parlare di sogni? Che senso ha parlare di sogni quando sistematicamente a questi vengono spezzate le ali prima che riescano spiccare il volo? Con il termine “Post-ideologia” si indica chi ha superato le ideologie, chi, quindi, arranca nel presente nel disperato tentativo di mantenere lo status quo raggiunto. Non c’è un disegno, un’idea del futuro, né una visione storica della cultura dell’umanità nel suo complesso, che invece dovrebbe da sola costituire e costruire un’immagine del futuro ben definita. Tutti brandiscono il futuro, ma nessuno spiega quale, nessuno ne descrive i contenuti, e allora è come mostrare un quadro con la tela bianca, dove a ognuno, a proprio piacimento, ma senza pennelli e colori, è concesso di disegnarci sopra. Grazie.

La politica – la “polis” – a questo storicamente serviva, quando ancora nel praticarla con onore se ne rispettava l’etimologia, anziché annichilirla con disonore dedicandosi alla semasiologia (studio del mutamento del significato delle parole), come è avvenuto invece negli ultimi decenni facendola diventare la metafora di se stessa. Rispettare, e difendere, la storicità di un termine non equivale a una stagnazione, tutt’altro, vuol dire mantener vivi valori etici e morali che per migliaia d’anni hanno fatto la storia e la cultura dell’uomo.
Oggi il termine “politica” ha perso tutto il suo significato originale, la sua vocazione storica; non richiama più concetti come “il raggiungimento di determinati fini”, se non ormai soltanto “fini” a se stessi, ovvero la garanzia di un futuro roseo da parte di chi la esercita, il politicante, e non di chi la subisce, l’elettorato. Pensiamo a quante volte sono cambiate le società nella storia dell’uomo, e quante ideologie, quanti modelli sociali, giusti e sbagliati, si sono susseguiti. I mutamenti sono da sempre parte della natura umana, e il fatto che negli ultimi centenni, dall’inizio della Prima Rivoluzione Industriale e l’avvento del Capitalismo, ci sia stato un assestamento, un adagiarsi sugli allori e un innegabile arroccamento, non può non farci riflettere sulle cause e sulle conseguenze. La crescita indefinita e illimitata dove, in quali e a quali condizioni ci sta facendo vivere e ci farà vivere in futuro? È inconcepibile constatare come la politica non riesca più a vedere oltre il mantenimento dei propri privilegi e di coloro che nel modello di crescita infinita si arricchiscono sempre più. È inutile ricordarlo ancora una volta, ma necessario, come in questa crisi economico/culturale (l’ennesima) i ricchi si siano arricchiti in maniera esponenziale nella stessa misura in cui i poveri si sono impoveriti drasticamente. La politica è ormai pienamente collusa con chi in questa crisi sta arricchendosi.

Siamo dentro un sistema di mobilità verticale, di competizione, un sistema nel quale lo status di élite è il premio di una lotta senza regole.
La competizione è simile ad una gara sportiva, nella quale molti sono i concorrenti e pochi i premi, e la manipolazione delle regole per arrivare a tagliare per primi il traguardo individuale è vista come una qualità ammirevole. Non si tiene conto delle differenze fisiche degli atleti: apparentemente tutti partono in condizioni di parità, senza però curarsi minimamente della muscolatura, delle abilità fisiche e mentali dei concorrenti. È come se giocassimo tutti ai massimi livelli, indistintamente dalle capacità di ognuno, così diventa una sfida senza regole e senza i dovuti riconoscimenti delle differenze.

Per ciò la corruzione dilaga.

È un problema di portata globale, non certamente solo italiano, anche se il nostro Belpaese “vanta” i primi posti nella classifica dei paesi più corrotti a livello mondiale, non soltanto europei. Il numero dei parlamentari e il costo per il loro mantenimento li conosciamo tutti.

Il problema, di ognuno di noi, è che raggiunto il benessere – individuale – non si ha più il desiderio di cambiare (che dovrebbe invece essere un istinto e un pregio connaturato nell’uomo), di migliorarsi, ma pensiamo solo a godere il successo raggiunto, fregandocene altamente della comunità, del resto del mondo.

La nostra è una crescita verticale, non orizzontale, come invece dovrebbe essere. È infatti il benessere individuale, presunto, effimero, a rendere tutto stabilmente instabile.

Oggi nessuno si scandalizza più veramente, ormai siamo abituati a tutto. Nessuno più si indigna nell’animo per le tragedie che si consumano ad un ritmo vertiginoso; ci si stizzisce, ripetutamente, in piena sintonia con l’era post-ideologica, o meglio “liquida“, come Bauman ci insegna. Sentiamo di tragedie e proviamo sdegno ma, alla fine, finisce lì, giriamo pagina, cambiamo canale, andiamo per vetrine, e tutto sembra scorrere normalmente, quando invece, nell’ormai impercettibile reale realtà, c’è un mondo sul piede di guerra, che combatte, si ammazza e soffre per la mancanza di sensibilità umana, che ci convinciamo essere una mancanza che non ci appartiene, che “è sempre di qualcun altro“, mai la nostra, completamente alienati come siamo.

La metafora tanto in voga che paragona la vita a un film non è più appropriata. Siamo semmai i protagonisti degli spot pubblicitari che si susseguono tra una scena e l’altra del film drammatico della vita, se proprio vogliamo conservare la metafora.

La vita viene ormai vissuta tra una scena e l’altra.

Siamo circondati dalle distrazioni, e ci va bene così: fino a che quella “disumanità” non ci raggiunge perché mai dovremmo preoccuparci? Meglio godersi la vita finché si è in tempo. E andiamo avanti così mentre il mondo affoga nell’apatia, nell’egoismo, nell’avidità. Termini, questi, talmente d’uso comune che non fanno più alcun effetto.
Insomma, non ci siamo dentro fino al collo, ma fin sopra gli occhi.

Oggi nessuno crede più negli ideali.

Nessuno ci crede più per il fatto che negli ultimi decenni sono state tradite tutte le promesse. Ostinarsi a volerne parlare a che serve? È come pretendere di tenere in piedi un uomo con le gambe spezzate: è sadico.

Meno chiacchiere e più fatti aiuterebbero, certamente, ma si deve anche dire quale modello sociale vogliamo. Nessuno ne ha in mente uno definito, e nessuno parla pubblicamente dei problemi endemici di questa società, riconoscibili non soltanto attraverso le esperienze passate, ma anche dalla realtà che ci circonda. Di fatto, la lungimiranza, che dovrebbe essere la prima qualità di un politico, non esiste più.

Non ammettere gli errori del passato non può che servire a mantenere un potere finanziario riservato a pochi prescelti, ad arroccarsi per mantenere privilegi individuali, e non comunitari. Non esistono altre spiegazioni razionali. Quando siamo malati tutti andiamo dal dottore, o in ogni caso tutti andiamo in cerca di una cura; è il nostro istinto di sopravvivenza che ci spinge a farlo. Lo stesso dovrebbe valere nel caso di una società malata, eppure così non accade. E fino a che la politica dibatterà su come tamponare, aggiustare, correggere, anziché su come rivoluzionare, cambiare, stravolgere, questo modello sociale consumistico, nulla potrà mai cambiare, ma solo peggiorare. Fino a che non ci sarà coerenza fra ideologia e azione, e fino a quando non ci sarà qualcuno con la volontà di dare il buon esempio, tutto peggiorerà. Ce lo insegna la storia.

Fino a che nessuno parlerà e spiegherà la radice dei problemi, è inutile parlare di sogni. È questo atteggiamento che ci ha fatti sprofondare nell’era post-ideologica. Iniziamo a parlare dei veri problemi, e dopo si potrà anche tornare a parlare di sogni, a esprimere pensieri autentici, anziché di convenienza individuale. Lasciamo perdere le semantiche ideologiche, che sono espressioni della recitazione di un ruolo. Oggi non abbiamo bisogno di questo, ma di tornare alla realtà, di ricostruire delle basi solide sulle quali poggiare i sogni di un futuro possibile, e non di basi sempre più instabili dove i sogni annegano nell’oblio ancor prima di avere una speranza di realizzazione. Medichiamo le ali ai sogni, e poi torniamo a volare… Non ostiniamoci a fare il contrario, perché le cadute stanno facendo sempre più male, e sempre più vittime.

Stato individualista


Thomas Frank (citato da Neal Lowson in “Dare more democracy”, 2005):
Qui Lowson:
«Il governo si è ridotto ad ancella dell’economia globale».
Qui Frank:
«Liberando ulteriormente il mercato e consentendo a esso di estendersi e di inglobare sempre più il settore pubblico, il governo è costretto a pagare il conto del fallimento del mercato, delle esternalità che il mercato rifiuta di conoscere, e deve fungere da rete di sicurezza per gli inevitabili sconfitti dalle forze del mercato».
Bisogna aggiungere, però, che i “fallimenti” occasionali del mercato non sono i soli a stilare la classifica delle priorità di governo. La mancanza di regole alle forze del mercato e la resa dello Stato alla globalizzazione di queste (la globalizzazione degli affari, del crimine o del terrorismo, ma non quella delle istituzioni politiche e giuridiche in grado di controllarli. Ad esempio una legislazione mirata a combattere le mafie è presente in particolare in Italia, ma nel resto del mondo ancora si sta facendo poco o nulla per adeguarsi, quando invece sappiamo bene, come ha affermato in più occasioni il Procuratore aggiunto Nicola Grattieri, che le mafie operano a livello globale: sono laureati e vestono in giacca e cravatta, gestiscono in prima persona, alla luce del sole, i mercati finanziari, della droga, delle armi e del commercio globale), dev’essere pagata, “quotidianamente”, con il disordine e la distruzione sociale: con una fragilità senza precedenti dei legami umani, con la fugacità delle fedeltà collettive e con la deresponsabilizzazione degli impegni e della solidarietà.

I mercati, com’è noto, operano per scopi diversi da quelli dello stato sociale: non hanno interesse affinché si operi a favore della riduzione delle disuguaglianze sociali, e agiscono esclusivamente su un principio di profitto economico “individuale”: ad essi non importa “chi” e “quanti” possono permettersi un posto nella società, ma “quanto” e “quante volte” quei pochi siano invece disposti a mettere le mani nel portafogli.

Woody Allen in “The complete prose of Woody Allen”, con la sua solita ironia pungente afferma che «Più che in ogni altra epoca della storia l’umanità è a un bivio. Una via porta alla disperazione e alla completa assenza di speranze. L’altra porta alla totale estinzione. Preghiamo affinché abbiamo la saggezza di scegliere correttamente […]».

Le politiche dei governi sono sempre più corrotte dai mercati globali.
Non esistono, e non possono esistere, soluzioni locali a problemi che sono di natura globale. Così come non possono esistere soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Le politiche locali agiscono invece per mascherare e compiacere quelle globali. I problemi di natura globale vanno (e devono e possono essere solo) affrontati globalmente. Ciò che invece avviene è l’esatto contrario. L’attenzione alle carenze dello Stato sociale, evidente e palese, si sposta verso quella individuale. Le frustrazioni e le incapacità individuali, che trovano il loro carburante nelle inefficienze dello Stato, sono state dichiarate ormai un problema solo ed esclusivamente di natura individuale. Il “destino”, ovvero il futuro, l’ignoto, che ci hanno esortati a coltivare con cura maniacale affinché possiamo spianarci la strada per una vita migliore, viene “quotidianamente” ridimensionato a dilemma personale, soggettivo, sradicando in noi l’idea che la collettività, la comunità, invece svolge un ruolo fondamentale affinché l’individuo possa trovare terreno fertile sul quale coltivare le proprie aspirazioni e costruire in base ad esse quel “futuro rigoglioso” che invece siamo sollecitati (dai mercati) a cercare scegliendo fra le infinità di prodotti e gadget offerti dal mercato. A noi solo l’imbarazzo della scelta (individuale).
Tanto più si ha la tendenza ad individualizzare problemi di natura sociale quanto più lo Stato sociale è assente.
Oggi infatti siamo convinti che gli altri siano guidati da simili motivazioni egoistiche, dunque non riusciamo ad attenderci da essi più compatimento disinteressato e solidarietà di quanto siamo indotti, allenati e disposti a offrire. In una società che poggia su queste fragili basi, la comunità tende ad essere percepita come un territorio disseminato di trappole e imboscate. A sua volta questa percezione, come in un circolo vizioso, accentua la fragilità cronica dei legami umani che così si autoalimenta.
Uno Stato non può definirsi tale quando opera, legifera, e sostiene pubblicamente teorie individualiste. Siamo davvero a un bivio; oggi più che mai.
Infine, quando la popolazione è frustrata, senza comprendere razionalmente le ragioni effettive della sua frustrazione, a causa dei messaggi contraddittori che assorbe attraverso i mass media (fonti principali di “cultura”, in particolare nel nostro Paese), è conseguenza inevitabile che si verifichino espressioni di violenza, che per loro natura trovano alimento in tali irrazionalità, vendute ovviamente dal mercato.