La concezione ottimistica del mondo è il trionfo della menzogna


La prova della forza di una concezione del mondo non sta nelle risposte che ci vengono date e assimiliamo o che crediamo già di avere, ma nelle domande che non ci lasciamo soffocare. Oggi, ancor prima che ci venga l’idea di farci domande sul peggio, le risposte ottimistiche ci tappano la bocca. Si ha la convinzione che pensare al peggio equivalga a tralasciare il meglio, che più ci inabissiamo nelle tragedie del mondo più queste ci inghiottano facendoci affogare. Ma inabissarsi non significa necessariamente, dispregiativamente, soffocare. Gli abissi nascondono mondi, realtà, esistenze inimmaginabili, che solo chiedendosele hanno almeno una possibilità di essere contemplate e magari comprese. Non è escludendole che scompaiono, non è alzando muri ai confini che si eclissano, non è rimanendo noi sulla superficie che esse affogano.

Sono invece le domande quelle cui stiamo togliendo ossigeno ogni giorno di più.

Soffocare, è quel che stiamo facendo al peggio, solo che il peggio non soffoca… al massimo si espande, si fa sempre più vicino, e quando ce lo troviamo davanti è sempre troppo tardi per farci delle domande. È come una menzogna: prima o poi viene a galla. Non possiamo pensare di inquinare gli oceani sperando poi di non trovare pesci morti a galla solo perché non consideriamo gli abissi.
Le menzogne non diventano migliori per il fatto che chi si lascia ingannare le scambia per verità, magari in piena buona fede; anzi è proprio questo il vero fine e quindi il trionfo della menzogna. Oggi a trionfare su tutto e tutti è la menzogna.

L’ottimismo è quindi prevalentemente quell’idea che abbiamo del mondo dentro la quale non desideriamo considerare il peggio; ovverosia è il meglio nella sua forma più artificiosa, fittizia.

Il modo scandaloso, infatti, in cui è trattata la dignità umana è deprimente, nonostante l’ottimismo ti costringa a pensare che a prevalere sia l’inverso, solo appunto per il fatto di pensarlo.

Si potrebbe allora obbiettare che in tutta la storia dell’umanità, mai la dignità riservatagli è stata meglio di questa.

L’abuso che si fa oggi del potere non è certo minore di quello di una volta, è vero. Non si capisce, però, perché l’indignazione per l’abuso odierno dovrebbe essere meno violenta e meno giustificata di quella per l’abuso di un tempo; anzi, questo comportamento dimostra invece quanto poco sia riuscita ad imparare l’umanità dalla sua storia.

L’ottimismo dovrebbe essere l’idea di un futuro migliore del passato, ormai troppo abbandonato a se stesso, dimenticato dal presente, sopraffatto dalle immediate soddisfazioni effimere che ci circondano offuscando gli orizzonti. In altre parole, affinché l’ottimismo sia sano, genuino, e possa questo trionfare, si deve esser prima pessimisti e lavorarci sopra, anziché etichettare questi ultimi come degli esseri incapaci di vedere il bel tempo… nonostante le sempre più frequenti catastrofi, che di naturale hanno ormai ben poco.

Manifestazioni di dissenso: ecco perché, “grazie ai media”, sono ininfluenti


Ruberie, soprusi, discriminazioni, disuguaglianze e povertà sono in costante crescita in Italia e nel mondo, eppure il popolo sembra aver perso la capacità di ribellarsi, o quantomeno di manifestare disgusto verso una
classe dirigente sempre più incapace, attenta solo a salvaguardare i propri interessi personali e quelli di chi finanzia le loro perenni campagne elettorali. Il dio denaro, sempre lui, abbatte tutto e tutti, comprese le manifestazioni di protesta che hanno da sempre evidenziato il carattere umano, solidale e comunitario delle società nei momenti di maggior sofferenza. Ma da solo il denaro non basta. Bisogna disporre anche dei giusti strumenti (che il denaro ovviamente compra) in grado di corrompere e compromettere la struttura psicologia e percettiva degli eventi cui il popolo viene a conoscenza ogni giorno. Ecco allora che i mezzi di comunicazione di massa, compresi i nuovi media, svolgono un ruolo fondamentale a tal fine.

Un tempo l’uomo si riuniva attorno a un fuoco e più tardi a una tavola imbandita dove assieme con altri consumava i pasti discutendo degli accadimenti passati, quotidiani e di quelli futuri; oggi il fuoco non ha più quell’utilità e i pasti, nell’era dei “fast food”, vengono consumati in tutta fretta e dove capita, magari chiusi ognuno nella propria stanza davanti al proprio televisore sintonizzati sul proprio programma preferito. Si è soli, teoricamente in compagnia di altri individui soli come noi, tuttavia ciò non ha la prerogativa di renderci meno soli. Anzi.

La Tv in particolare, oltre ad essere una fabbrica di stereotipi e di spettacolo, ha la funzione primaria di dare al pubblico spettatore ciò che la fantasia riesce a produrre, ovverosia offre una valvola di sfogo fittizia, priva di reale consistenza capace di placare sul nascere ogni forma di espressione costituita individualmente. Con l’avvento dei talent-show ad esempio — a sostegno di quella che non è certo una teoria — il numero di persone sedotte da essi che aspirano a diventare ballerini, cantanti, attori, scrittori, eccetera, è aumentato smisuratamente. I nuovi media a tal proposito, grazie al prezioso contributo dei social network, amplificano, esaltano e sviluppano ancor di più tutto il materiale che la Tv produce — anche se in alcuni casi può verificarsi l’inverso ottenendo comunque lo stesso risultato —, interagendo fra loro come una protesi fa con chi la indossa.

“Diventare famosi!”, di fatto, è il feticcio cui gran parte della società delle apparenze ambisce. «Essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere i protagonisti delle prime pagine di migliaia di riviste ed essere presenti su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone.

La nostra fantasia produce empiricamente i suoi frutti, ovvero elabora desideri che gli giungono ai sensi attraverso l’esperienza dei fenomeni e degli accadimenti. E in un mondo, come afferma Germaine Greer, in cui “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, ciò che giunge ai sensi è accuratamente selezionato per essi dal mondo dei mass media.

L’aspirazione dell’umanità è sempre stata, utopisticamente, quella di raggiungere la “bellezza” della perfezione — o “la perfezione della bellezza” — e i modelli offerti dai media volgono dispoticamente verso quella che dal modello sociale dominante è spacciata per tale. Ma, come acutamente ci illumina Baudrillard, “la perfezione è sempre stata punita: la punizione della perfezione è la riproduzione”. Perfezione, pertanto, alla quale noi tutti siamo sottomessi indefessamente, cui noi tutti dobbiamo obbedire, sopportare e ambire di riprodurre, imitare per tentare di realizzare le nostre fantasie istigate dalla perfezione stessa dalla quale sono accerchiati.

Ci troviamo così di fronte a un’esibizione criminogena della perfezione, a una produzione di fantasie e aspirazioni bramose, ma l’elemento ancor più preoccupante è la convinzione che si insinua fraudolentemente negli individui, che è quella di fargli credere di star facendo qualcosa che in realtà non fanno; di essere qualcuno che in realtà non sono, e di possedere delle qualità che in realtà non hanno. Possiamo rilevare ciò registrando il tempo che trascorrono sui palcoscenici le miriadi di presunti nuovi talenti smerciati per tali al grande pubblico dalle case discografiche o dagli improbabili talent-scout, che appunto vendono persone come pane fresco, le loro facce, le loro voci, i loro corpi, il loro modo di (farsi) vestire, come fossero ognuno migliore dell’altro, proprio come un prodotto sullo scaffale di un supermercato sulla cui confezione campeggiano frasi come “il migliore in assoluto”, oppure “eletto prodotto dell’anno”. Di facile seduzione per il pubblico, ma anche di seria frustrazione quando chi apre la confezione si rende conto (ma senza prenderne realmente coscienza) che poco differisce dagli altri prodotti, o quando “il talento” stesso si accorge di essere stato rimpiazzato da quello successivo.

Naturalmente il pubblico fatica ad accorgersi di siffatti rimpiazzi poiché tenuto in perenne suspense ed eccitazione dall’annunciato prossimo fenomeno, e quand’anche se ne accorgesse non sarebbe rilevante dacché gli individui cui si rivolge il mercato non sono interessati, anzi, non percepiscono nemmeno certe strategie di marketing. Ma le subiscono; motivo per il quale ambiscono a diventare prodotti loro stessi, convinti di dare alla “perfezione” il proprio contributo, giacché persuasi di esserne portatori.

Ed è in questa riproduzione indefinita di prodotti da consumare che ci smarriamo, che ci consumiamo, e dalla quale usciamo vinti combattendo una battaglia che non siamo noi a chiedere di combattere, ma che ci depreda delle forze e della concentrazione necessarie per affrontare quelle di una vita sempre più avversa, che andrebbero invece osteggiate con impegno e costanza.

Generare un’aspettativa è il vero nocciolo di tutta la questione fin qui trattata. Una società che regge la propria economia grazie ai consumatori, infatti, cresce rigogliosa (gonfiando le sole tasche di chi produce selvaggiamente) finché riesce a rendere perpetua l’insoddisfazione dei suoi membri. In ogni aspetto della vita sociale. Per sostenerla, l’impulso a cercare le soluzioni ai nostri problemi, alle nostre ansie e dolori nei prodotti (o persone) pubblicizzati, non solo è incoraggiato esplicitamente, ma è un comportamento che provoca assuefazione verso l’insoddisfazione e la delusione, diventando abitudine priva di alternativa. Se la soddisfazione fosse definitiva nessuno venderebbe più soluzioni.

Mantenere il consumatore in persistente tensione è la strategia madre di tutte le strategie di vendita adottate dal mercato. Per vendere un prodotto, una persona, un’idea, una riforma, non c’è necessità che questi siano ciò che per cui sono spacciati. Devono rispondere semplicemente all’esigenza di un pubblico che chiede e desidera quanto gli è stato imbeccato di desiderare, di conseguenza, se chiede una rivoluzione basterà piazzare sugli scaffali qualcuno con su scritto sulla maglietta “rivoluzione in corso” per dargli l’impressione di trovarcisi nel bel mezzo; se chiede un talento basterà mandare in scena qualcuno spacciato per tale; se chiede che i suoi sogni possano essere realizzati basterà presentargli qualcuno cui (a tale scopo) sono stati realizzati; se chiede una riforma basterà annunciare qualcosa come tale; se chiede giustizia basterà fare la telecronaca degli arresti eseguiti; se chiede un colpevole basterà indicarglielo; se chiede la fine della fame nel mondo basterà allestire un’Expo; se chiede salari più alti sarà sufficiente fargli credere di avere 80€ in più in busta paga; e via di seguito. Allora è una delusione continua, che genera frustrazione continua, che reprime la rabbia e che ci convince di essere sempre più impotenti di fronte alle infinite complessità che ci vengono rappresentate quotidianamente, ininterrottamente, e alle quali, nonostante tutti i nostri sforzi, non troviamo soluzioni definitive. Del resto ansia da prestazione, eiaculazione precoce e orgasmi simulati sono peculiarità di una società esigente e “fast” come la nostra, insieme ad un consumo sempre più massiccio di antidepressivi.

Thomas Hylland Eriksen spiega perfettamente la società confusa nella quale viviamo:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(“Tempo tiranno”, p. 139 – 144)

Non essendoci narrazione logica, tantomeno percezione di quel che accade attorno a noi, ne consegue che preferiamo astenerci e lasciar fare agli altri, convinti, in senso lato, di dare lo stesso il nostro contributo poiché apparentemente ci sentiamo al centro del dibattito, quale che sia. In fondo, crediamo tutti di essere dei talenti e di poter cambiare il nostro microcosmo, nonostante il sempre più degradato macrocosmo che ci avvolge, e non viceversa, come invece dovrebbe essere.

“Volere è potere”…?


È il concetto forse più diffuso nel mondo: volere è potere. Bene, vediamo quanta verità c’è in tutto ciò.

Considerando questa una società fondata sul reddito, ovvero sui salari, il lavoro, che è fonte di reddito, permette agli individui che ne fanno parte di trovare e ottenere una collocazione, un ruolo in essa. Il lavoro è il principale strumento messo a disposizione degli individui, per garantire loro un’esistenza, d’essere riconosciuti, di avere un’identità (l'”etica del lavoro“, storicamente, è stata fondata su questo genere di postulati), essendo questo appunto un modello sociale strutturato su di esso. Stabilito quanto appena detto, dobbiamo far lo sforzo di inquadrare l’attuale crisi economica (come quelle che l’hanno preceduta) come l’espressione di un problema ben più profondo di quel che immaginano o siamo portati a credere. È come la febbre: indica una “malattia in corso“, una malattia che è causa di ben più vittime di quante ne abbiamo percezione.

Facciamoci dunque qualche domanda.

“Questa società è una società sana?”
La consapevolezza gioca un ruolo fondamentale quando cerchiamo di rispondere a questa domanda. La coscienza è uno stato che si può raggiungere soltanto attraverso la comprensione dei problemi che ci circondano, e mai con il “pre-giudizio“. La società, e la convivenza “in e con essa“, peggiora proprio a causa della carenza di consapevolezza. Sovrastati come siamo di notizie, tutte in contraddizione fra loro, non siamo più in grado di definire ed identificare i problemi che ci circondano, poiché inconsapevolmente ci asteniamo dall’affrontare un’analisi più approfondita. Lasciamo che siano altri a sbrigarsela. Ci sono così tante verità, che non siamo in grado di valutare coscienziosamente cosa è più giusto per la comunità (quindi per noi stessi) e cosa invece non lo è; inversamente non ci troveremmo in questa situazione.

“Volere è potere”.
La “volontà” è un concetto fideistico, astratto, metafisico, indipendente dalla ragione, mentre il “potere“, di contro (semanticamente), significa “avere la possibilità“, “il diritto”, “il permesso”, e deve essere “possibile”, “consentito”, “lecito”, “probabile”, pertanto chi ne fa uso deve disporre dei mezzi affinché “possa esprimerlo“, concretizzarlo. Perfino il Papa (oggettivamente il più sociologo di tutti i Papi) chiama fuori la fede nel caso dell’esclusione sociale, ovvero quella condizione che esclude tutti coloro che non hanno le possibilità materiali e spirituali adatte ad esercitare un potere. Il potere oggi è inteso perlopiù come espressione di comando, di supremazia, di controllo (su di sé e su quanto gira intorno), di sopraffazione psicologica e materiale, perciò siamo esortati a pensare che “volere è potere”. È un’astrazione ambiziosa, e gli esseri umani – strano ma vero – non sono tutti ambiziosi, seppur oggi siamo condizionati ostinatamente (efficacemente) a concepire il contrario. La società è (dovrebbe essere) fatta di individui uguali, con eguali diritti e doveri, ma con diversità interiori, intime, riconosciute e accettate da tutte, e il fatto che oggi l’individualità (che noi confondiamo ormai con l'”individualismo” egoistico) sia continuamente schiacciata dagli stereotipi, non legittima a pensare che non esista. È un’opinione irrazionale, radicalmente errata: fa acqua da tutte le parti.
Il “potere“, inoltre, è oggi sempre più un concetto che concerne al materialismo, al positivismo (che in filosofia sono intesi come tutto ciò che concerne ai problemi “pratici della vita”), al meccanicismo (la vita intesa come movimento spaziale dei corpi, in senso materialistico-meccanico, ovvero il predominio della materia sullo spirito), nonché all’ambizione, alla pre-supponenza, alla presuntuosità. I due termini, “volere” e “potere” non vanno necessariamente d’accordo. “Volere è potere” è una locuzione che esclude implicitamente tutti coloro che non ci riescono.

“Quali sono quindi le conseguenze?”
Gli individui sono spesso portavoce inconsapevoli delle istituzioni, delle influenze, degli interessi incorporati al tessuto economico-sociale. E secondo questo modello sociale, fondato appunto su interessi economici, essi sono esortati a pensare che ognuno debba provvedere per sé, acquistando le soluzioni ai loro problemi da chi li crea, e promette di risolverglieli. Chi non ha reddito, e non può procurarselo poiché non ci sono le condizioni materiali sociali, viene automaticamente escluso dal “cerchio magico” delle soluzioni esposte e pubblicizzate in ogni dove e quando, pertanto ragionevolmente non potrà che esprime frustrazioni; proprio per il fatto che intimamente si considera incapace, di conseguenza tende a somatizzare tali frustrazioni attraverso atti di violenza, psicopatie, disturbi del comportamento in generale, astio e repulsione nei confronti delle istituzioni che «mi hanno abbandonato». L’astensione elettorale dovrebbe far riflettere molti, “riflettere” però in modo più approfondito. I problemi individuali odierni derivano dalla società che ci circonda, e non viceversa: non sono gli individui ad affrontare male la società, ma è la società, così indirizzata, e governata da interessi privati, a mettere a disposizione dei cittadini scelte sbagliate affinché se ne tragga il maggior profitto economico possibile. Ma appunto, sono scelte sbagliate.

Oggi c’è un rimedio a tutto, e tutti consigliano “come si deve essere“, e “cosa si deve fare” per “star meglio“. Ognuno provvede per sé, dimenticando un fatto imprescindibile: viviamo in una comunità, e che le nostre distrazioni, le nostre scelte, e le nostre ambizioni personali, escludono di fatto gli altri membri, ossia coloro che non hanno ambizioni, che non si riconoscono in una società nella quale si è considerati solo se si consuma, se si ha un reddito da spendere e se si ha una marcata attitudine alla competizione, appunto alle ambizioni e alla realizzazione (costi quel che costi) di esse .

“Non bisogna deprimersi, abbattersi, e non dobbiamo utilizzare come alibi il malfunzionamento della società”.

Proviamo a metterci nei panni di chi “vorrebbe“, ma non può.
L’esclusione sociale è una cosa seria, come lo è la depressione. Chi ci è entrato sa quanto si è fragili, e soprattutto inconsapevoli delle proprie potenzialità, quando si è depressi. Di fatto, i suicidi dall’inizio dell’anno sono stati centinaia. Il suicidio è uno dei termometri più efficaci per misurare la febbre a una società. Gli altri sono, nell’ordine, l’occupazione, dunque il livello di povertà, la qualità dell’esistenza pertanto i salari e le disposizioni materiali rispetto al costo di una vita degna, l’inquinamento, lo sfruttamento delle risorse, l’astensione elettorale, e la salute, che è la somma conseguente di tutti i succitati fattori. In un modello economico come questo si riesce a vivere solo se si ha un reddito. Se non si dispone di un salario, conseguentemente anche la vita viene vissuta male, indegnamente.

La società ha una struttura molto più complessa rispetto alle semplificazioni e le generalizzazioni stereotipate che recepiamo attraverso i mezzi di comunicazione. E purtroppo crediamo tutti che le questioni siano o bianche o nere, senza sfumature. Allora, noi siamo tutti uguali quando ci dicono che “volere è potere”, mentre le istituzioni si giustificano dichiarando che non hanno scelta, che “vorrebbero ma non possono”, che “non ci sono alternative” (metodo TINA, escamotage politico utilizzato pesantemente dalla Tatcher in poi: “There Is No Alternative“). Noi, individualmente, “se vogliamo possiamo“, mentre le istituzioni “vorrebbero ma non possono“. Appare almeno un po’ contraddittorio?

Eppure dovrebbe esser facile pensare che la medesima situazione alcuni la vivono in un modo, mentre altri in maniera diversa. Come dovrebbe esser facile sapere che i mali della società derivano da scelte politiche; scelte fondate indubbiamente sul profitto economico. Ma evidentemente non lo è, e io non me la sento di dar la colpa a chi non riesce a comprenderlo, a metterlo a fuoco. Non sono nessuno per giudicare, ma uno sforzo dobbiamo cercare di farlo tutti, insieme, per dare il giusto significato a quanto ci circonda. Guardiamo la società nel suo complesso, dove “non ci è possibile” individualizzare, scaricare sul singolo individuo tutti i suoi mali. Non avrebbe (e non lo ha) alcun senso. In ogni caso, tutti i più grandi studiosi dei fenomeni sociali indicano questo modello di società come un qualcosa di malato, di perverso. Forse allora sbagliano? Se sì, dove e perché? Perché se sbagliano, oggi dovremmo vivere tutti in un paradiso.