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Siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere


A tutti coloro che non perdono mai occasione di schierarsi con le unghie e con i denti, e nemmeno quella di tacere.

Non è mai stato facile per nussuno fare l’educatore. Bisognerebbe andare a scavare fino alla settima generazione di ognuno per capire di chi è la colpa. Un ragazzo fa una rapina, e allora la colpa è dei genitori che non sono stati in grado di educarlo, e per lo stesso principio a loro volta hanno avuto padri e madri che li trascuravano, che di conseguenza hanno avuto la stessa sfortuna, perché altrimenti i loro figli non avrebbero trasmesso ai discendenti le loro lacune. E così via, fino alla preistoria.

Comprendere che i mali della nostra società arrivano da lontano è fondamentale, ma circoscrivere alle singole famiglie le colpe di un degrado diffuso è profondamente insufficiente come riflessione. E allora mi chiedo perché dovrebbero esistere uno Stato, una Costituzione, delle Leggi, un Sistema Formativo? A cosa dovrebbe servire una Istituzione del genere se poi, alla fine, la colpa del degrado è da imputarsi sempre agli individui e mai alla debolezza del Sistema nella sua complessità?

Allora se uno Stato schiacciasse dalle tasse il proprio popolo verrebbe facile pensare che quel popolo, pur di non farsi schiacciare, evaderà le tasse creando le basi per la corruzione. Il concetto è che se i reati e il degrado aumentano può solo significare che lo Stato non è in grado di funzionare come dovrebbe. Non è in grado di educare il proprio popolo.

Scaricare la colpa sul singolo individuo (che pure ha colpe, ma non lui soltanto), e concentrare l’attenzione giudicando la singola azione significa sollevare di ogni responsabilità un Sistema che avrebbe dovuto per primo evitare l’evolversi del degrado, che si manifesta soprattutto attraverso episodi come quelli che la cronaca racconta ogni giorno.

Siamo tutti bravi dare giudizi, ma siamo meno bravi in un’infinita di altra roba. Soprattutto siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere.

C’era una volta l’umanità… (Prima parte)


«Al mattino, a mezzogiorno, di sera, nei giorni feriali come nei fine settimana, durante le lezioni, all’ora di pranzo, mentre faceva i compiti o si lavava i denti».
Tremila sms in un solo mese, una media di cento messaggi al giorno, uno ogni dieci minuti. Questa l’ammissione di un’adolescente, come tantissimi altri. Se ne deduce che la ragazza non avesse quasi mai occasione di rimanere sola per più di dieci minuti; intendo dire sola con se stessa: con i propri pensieri, i propri sogni, le proprie preoccupazioni e le proprie speranze. Probabilmente si sarà dimenticata di come si fa a vivere (pensare, organizzarsi, ridere o piangere) da soli, senza la compagnia degli altri. O sarebbe forse più esatto dire che non ha mai avuto la possibilità di apprenderne l’arte. D’altronde non sarebbe sola nemmeno in questo…

«Al mattino, subito dopo colazione, durante il lavoro, a pranzo, subito dopo essermi lavato i denti, nel pomeriggio, a cena, la sera con gli amici fino a tardi, o prima di coricarmi».
Sessanta litri di bevande alcoliche al mese, una media di due litri al giorno, un “goccetto” ogni dieci minuti. Questa l’ammissione di un ragazzo inconsapevole del suo alcolismo, come tantissimi altri. La solitudine e le insicurezze che egli prova sono né più e né meno le stesse dell’adolescente.

Possiamo tranquillamente accomunare queste due storie, estreme, ma più frequenti di quel che immaginiamo, poiché tutte e due parlano d’una dipendenza, entrambe fisica e psicologica, ed entrambe pericolose, nei confronti di chi ne fa uso e di chi si viene a trovare sfortunatamente nei loro paraggi: si muore e si uccide per un incidente alla guida di un auto in stato di ebrezza, e si muore e si uccide per essersi distratti scrivendo un sms. Dal punto di vista psicologico sono ambedue evidentemente devastanti: creano dipendenza e assecondano l’isolamento.

È un fatto ormai riconosciuto: siamo assuefatti alla produzione e alla ricezione di segnali audio-visivi tramite schermi elettronici. I siti, le chat, i social network, rappresentano delle nuove, potenti droghe da cui siamo ormai dipendenti. Se un virus (o i genitori, o gli insegnanti, o una legge, o una catastrofe magnetica) ci impedisse di accedere a internet o mettesse fuori uso i nostri cellulari, rischieremmo una crisi di astinenza paragonabile a quelle che provocano strazianti tormenti in chi – più o meno giovane – interrompe l’assunzione di altri tipi di sostanze. Il “dispositivo tascabile” può essere equiparato alla “borraccia tascabile” dell’alcolizzato, o alla bustina di cocaina o eroina “pronta all’uso” del tossicomane. Ambedue le assuefazioni, prima di ogni altro aspetto, “hanno” il compito di colmare quel vuoto che non riusciamo ad affrontare in altro modo. Di fatto, nel nostro mondo imprevedibile, assiduamente inaspettato e ostinatamente enigmatico, l’eventualità di esser lasciati soli può generare un vero e proprio senso di terrore, e sono svariati i motivi che rendono la solitudine profondamente spiacevole, ostile e orribile. Ma c’è un errore che non dobbiamo fare, ossia quello di attribuire a questi apparecchi elettronici tutta la colpa di quanto sta accadendo a chi è nato, o a chi si è trovato a “mutare e adattare” le proprie abitudini in questo mondo dominato dalla “connettività”; sarebbe tanto ingiusto quanto insensato. Tali arnesi, infatti, rispondono a un’esigenza che non è stata creata dalle nuove generazioni, che se li ritrovano loro malgrado nelle mani; tutt’al più contribuiscono ad acutizzarla e a renderla più ossessiva, e questo perché i modi per assecondarla sono ormai irrefrenabilmente alla portata di tutti, e non richiedono altro sforzo che quello di premere qualche tasto.

Sappiamo che le strade pullulano di individui che si sentono soli e che detestano la propria solitudine, avvertendola come angosciosa e umiliante. Persone che non solo sono prive di compagnia, ma anche afflitte dalla sua assenza. Con i televisori che, piazzati in ogni stanza, prendevano il posto del focolare domestico dove si riuniva la famiglia, ciascuno di noi praticamente oggi vive intrappolato nel proprio bozzolo, lontano dal calore dei rapporti umani, senza i quali non sappiamo come riempire le ore, e i giorni.

Allora appare ancora più difficoltoso, oggi, districarsi nel groviglio della “rete” nella quale siamo impigliati, e anche solo l’idea di poter rimanere qualche ora (non “quale giorno”) “disconnessi” dal resto del mondo, provoca in noi il terrore non solo di venire esclusi, ma di doverci trovare faccia a faccia con noi stessi; cosa che ormai siamo abituati a non fare più. È infatti questo l’aspetto primario che ci terrorizza: non sapere più come si fa a dialogare con noi stessi. Abbiamo perso un po’ di questa “umanità”.