La tecnologia raggiungerà il suo pieno senso solo il giorno in cui non verrà più utilizzata dagli uomini per sostituire se stessi esclusivamente per diminuire i costi di produzione e ipnotizzare masse sempre più ampie con tecniche sempre più efficaci. Nel frattempo, prima che tutto ciò accada, lasciatemi dire che in larga parte Umberto Eco ha ragione.
Magari serve dirlo, affinché si raggiungano scopi diversi da quelli in corso d’opera. A questo ritmo nel 2050 (ma stime dicono molto prima) per sopperire alla produzione mondiale sarà necessaria solo il 20% della forza attualmente al lavoro. E non ci sono per il momento prove a dimostrare che il resto troverà occupazione in campo tecnologico. Gli uomini non sono tutti scienziati. Ci sono i contadini e gli artigiani per vocazione ancestrale. E i segnali dicono che questi sono schiacciati o, nel “migliore” dei casi, assorbiti dalla grossa produzione e distribuzione. Costringere l’umanità verso un percorso di esclusione non è il miglior approccio alla tecnologia. Eppure questo è quel che accade oggi. Lo stato occupazionale è diminuito in tutto il mondo, insieme ai salari, ai diritti e alle condizioni sociali, esclusi i paesi in via di sviluppo, che in ogni caso presto si ritroveranno nelle stesse condizioni. E a quel punto non ci saranno più terre da sfruttare, e il sud del mondo sarà soltanto un deserto arido bruciato da guerre combattute con i droni in nome dello sviluppo tecnologico imperante. Magari con qualche oasi “felice” qua e là.
La tecnologia, la tecnocrazia, il mondo congetturato unicamente alla tecnica esclude l’altra parte di mondo che non vuole esser concepita così, che vuole invece preservare migliaia di anni di storia dell’umanità, cancellata rapidamente e comodamente premendo bottoni. Il tecnicismo, questa rincorsa alla perfezione non porterà mai l’umanità a raggiungerla, poiché la perfezione non è una caratteristica costante di essa. Ogni individuo è unico per definizione e difetto; tralasciare questo aspetto significherebbe trascendere l’umanità degli uomini per far posto unicamente all’aspetto meccanico. È un’idiozia pensare di poter oltrepassare la natura umana, e questo squilibrio, che noi tutti possiamo osservare, provoca inevitabilmente conflitti con la coscienza, che pur cercando un dialogo con il calcolatore, evidentemente per il momento a soccombere è proprio lei.
Rivoluzionare la concezione del mondo attuale, ovvero far sì che all’uomo, pur lavorando di meno, sia assicurata una vita dignitosa, sarebbe un grande passo verso il futuro. Ma per adesso quel che possiamo attestare è essenzialmente un fatto: l’uomo non ha ancora imparato a convivere con se stesso. Al contrario, ha imparato a sfruttare la propria conoscenza per espandere e amplificare i margini di conquista attraverso il condizionamento, che passa più veloce attraverso la tecnologia. Le discriminazioni in aumento e la distribuzione delle risorse sempre più iniqua stanno lì a dimostrazione.
Forse un giorno tutto questo troverà il suo equilibrio, ma non prima di aver sfruttato e consumato e distrutto tutto il possibile. A partire dalle relazioni umane, che passano sempre più attraverso medium calcolatori di emozioni.
Ci sono aspetti “anche” positivi, ma non basta escludere dal dialogo la pena di morte per far sì che questa scompaia dalla faccia della terra, altrimenti non servirebbero neppure tutte le campagne di sensibilizzazione messe in atto “anche” grazie e attraverso strumenti tecnologici. Pensiamo alla piattaforma Change.org. Lasciare però che il mondo vada in una direzione senza mai avere il dubbio che forse è quella sbagliata, lascerebbe intendere agli uomini che appellarsi alla propria coscienza sia un esercizio del tutto inutile. E purtroppo, se vogliamo fare i tecnici fino in fondo, i dati ci dicono la coscienza è in via di estinzione.
Nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di morte. Possiamo avere il dubbio che ci siano relazioni con tutto ciò?
Non è mia intenzione demonizzare il progresso tecnologico, non c’è niente di più lontano da me. Ma fotografare lo stato attuale delle cose; quello sì. E la fotografia che ho davanti mi fa vedere quanto la tecnologia nelle mani degli uomini di oggi sia profondamente degenerativa.
Ecco cosa ha fotografato provocatoriamente Umberto Eco. E chi lo conosce almeno un poco lo ha capito. O quantomeno onestamente accettato. Ecco perché siamo imbecilli: non accettiamo che qualcuno metta in discussione una strumentazione che apparentemente ci regalala soddisfazioni immediate, tanto immediate quanto mediate, e che apparentemente ci mette a disposizione illimitate informazioni, tanto infinite quanto confuse e ancora sconosciute… e certamente mediate.
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Il vero progresso dell’umanità? La manipolazione di masse sempre più ampie
Parafrasando Baudrillard (“Il delitto perfetto”): tutte le forme di discriminazione maschilistica, razzistica, etnica, religiosa o culturale derivano dalla stessa disaffezione profonda e da un lutto collettivo: quello di una defunta consapevolezza.
L’aiuto umanitario preferiamo praticarlo sotto forma di vittime da soccorrere attraverso comode donazioni fatte da casa, motivate da compassionevoli campagne mediatiche che solleticano il senso caritatevole proprio della natura umana, o di quel che ne resta. Quando ciò non basta e quelle vittime, che prima abbiamo aiutato comodamente da lontano, ce le ritroviamo sotto casa potendo concretamente dar loro l’aiuto umanitario di cui hanno bisogno, ecco che viene fuori tutta la reale inconsapevole disumanità nella quale stiamo affogando. Non parlo dell’Italia, né degli italiani, neppure dell’Unione Europea, ma del mondo intero. Parlo dell’essere umano, dell’uomo, della specie umana che mai si è evoluta veramente. Sulla carta: come uno dei tanti contratti che non si rispettano; nelle dichiarazioni: come il peggiore dei bugiardi; nelle intenzioni: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
Siamo andati sulla Luna, stiamo andando su Marte, un giorno, forse, andremo a visitare nuove galassie… mentre sulla Terra guerre e carestie si espandono come un barile di petrolio riverso in mare che raggiunge le coste, e gli stomachi. Le vittime nere di quel petrolio nero sono il sacrificio necessario affinché la nostra ricchezza estetica possa prosperare, come a voler dimostrare alle generazioni future (se mai ci saranno) che l’essere umano in realtà è soltanto un controsenso, un paradosso, un essere (spregevole)–(che si crede) pensante in cerca di risposte alle ataviche domande sulla propria esistenza, ma che al tempo stesso non si preoccupa minimamente di salvaguardarla. Ecco cosa siamo in verità: dei miseri esseri autodistruttivi con una “falsa coscienza” che si autoconvincono ogni giorno di essere dei gran geni costruttivi, proprio per giustificare quel che ogni giorno distruggono. Un esercito di sonnambuli che difende il diritto incondizionato di calpestare se stesso.
Un paradosso che sta indubbiamente rendendo apatica l’umanità.
Ci piacciono i bei film e le belle canzoni, la bella arte e il mistero della scoperta, le storie commoventi e gli eroi, gli animali, le piante, i paesaggi da cartolina, i tramonti, contemplare un cielo stellato, ci affascinano i grandi della storia che hanno lasciato il segno e ripudiamo gli oppressori che hanno lasciato ferite ma, nonostante le esperienze esistenziali, non siamo riusciti a liberarci dalle contraddizioni che irragionevolmente oggi sono invece più accentuate. Cerchiamo l’altro sotto forma di male da combattere, senza renderci conto che stiamo combattendo contro noi stessi. Agitiamo slogan di libertà, uguaglianza e fratellanza mentre in realtà il Mondo è stracolmo di diseguaglianze.
Ma come si è arrivati a una frattura simile, a escludere l’altro, il debole, i discriminati della società, le minoranze, il diverso, e a tradire i valori della dignità umana? La risposta è molto semplice: in nome del diritto a un presunto progresso, di natura esclusivamente tecnologica. Non c’è progresso nel momento in cui la tecnologia è applicata per manipolare masse sempre ampie. Che senso ha prolungare le aspettative di vita, essere “connessi” l’uno con l’altro, avere accesso ad infinite informazioni, se quel che estendiamo è un’esistenza sottomessa e quel che condividiamo un sonno ipnotico?
È il fascino che l’uomo subisce nello scoprire il potere che ha di sottomettere i suoi simili a renderlo schiavo di se stesso.
Nevrosi e impulsi trasmessi attraverso i media mainstream hanno infettato la ragione, ovvero anziché trasmettere valori umani hanno di fatto mostrato (e stanno mostrando con sempre maggior efficacia) il lato peggiore dell’umanità, trascinandoci su una superficie dove scorrono copiosamente fiumi di parole e immagini che ci soffocano e che ci hanno resi incapaci (di prenderci il tempo) di pensare. Abbiamo creato una società ossessionata dal problema della sicurezza, chiusa, diffidente, privata della consapevolezza, nella quale l’altro, il diverso, è stato escluso proprio perché rappresenta la parte miserabile di noi stessi, quella che minaccia di bussare alle nostre porte, e che mai sceglieremmo di aprire per evitare il confronto con il nostro immenso vuoto interiore riempito con un immenso nulla.
Come raggiungere l’irraggiungibile, senza raggiungerlo
Oggi, siamo sempre meno capaci di sperimentare il mondo vissuto. L'”essere-nel-mondo” sembra aver lasciato spazio a l'”essere-nel-mondo-a-domicilio“.
Le nostre esperienze sensoriali si “limitano” ad interazioni effettuate attraverso strumenti collocati nelle nostre abitazioni: acquistiamo, operiamo, pratichiamo, diciamo, scriviamo, eleggiamo, creiamo, immaginiamo, organizziamo, viaggiamo, relazioniamo, tutto attraverso medium posti tra “noi e il mondo“.
Viaggiamo da un punto A ad uno B spediti come un pacco, facciamo esperienze prive di sorpresa, accompagnati dallo stesso comfort che gli elettrodomestici ci offrono. La nostra è un’interrotta attività consumistica che non si esaurisce, data la vastità infinita delle offerte e delle semplificazioni che l’industria dell’intrattenimento e del comfort mette a disposizione.
Pur rimanendo fissi davanti allo schermo, siamo comunque in qualche modo trasportati, o forse sarebbe meglio dire “trascinati”, in contesti diversi e distanti da quella che è la nostra localizzazione fisica, e andiamo così incontro ad una costante “duplice esistenza spaziale“. Ciò comporta un’inevitabile perdita di senso del luogo: lo spazio occupato fisicamente si fa evanescente fino a diventare quasi del tutto estraneo e privo di significato, a un individuo che si trova incessantemente “qui e altrove“, e in definitiva permanentemente in un “non-luogo“. Il nostro corpo rimane fisso in uno spazio limitato mentre la nostra mente oscilla nell’universo infinito di un “pieno effimero“, dandoci la sensazione di essere presenti ovunque nel flusso della banca dati. Possiamo quindi definire questa oscillazione tra il “qui e l’altrove” come una forma di schizofrenia artificialmente prodotta. Un conflitto interiore tra spazio, tempo e fisico, tra percezione e mobilità, che sovverte la conoscenza del mondo che ci circonda nella reale realtà; un effetto dislocante prodotto dall'”assunzione” mediatica che “neutralizza” ogni luogo. Siamo, infatti, sempre altrove e mai a casa, e anche contemporaneamente ovunque e sempre in casa, accompagnati come siamo dal continuo trasmettere artificiale.
Oltre a perdere il dominio della nostra sfera privata, per via della “domiciliarità” delle relazioni, perdiamo anche contatto con la sfera pubblica, dato che ormai ogni luogo viene associato alla realtà mediatica rappresentata con tenacia negli spazi domestici. Ne consegue un abbandono di interesse verso l’esperienza sensoriale diretta, divenuta superflua e soprattutto scomoda. Tale effetto “schizofrenico” lo andiamo addirittura ricercando, poiché assuefatti a questa ripetuta “doppia esistenza spaziale“, non più avvezzi come siamo ad adattarci ad un singolo spazio privo dell’influsso degli “strumenti di dispersione“. Ricercata è, appunto, la possibilità di immergerci nel flusso mediatico, proprio perché aneliamo d’evadere dalla nostra condizione domestica.
Viviamo e facciamo esperienza di un surrogato del mondo, che è così in grado di subentrare integralmente nel vissuto.
Siamo in presenza, dunque, di una forma di condizionamento assolutamente impercettibile, visto che lo strumento stesso di questo assoggettamento è fatto coincidere pragmaticamente con la realtà che sperimentiamo.
In effetti è per questo che soffriamo tutti di un’intima forma di “complesso d’inferiorità” nei confronti di un mondo che ci viene rappresentato sempre più irraggiungibile ma allo stesso tempo surrettiziamente a portata di mano, sempre a disposizione, pur essendo inarrivabile, impalpabile e inabitabile nella reale realtà. Siamo costretti, paradossalmente, a riformulare costantemente i nostri bisogni, nei confronti di prodotti sempre più distanti da quella che è la nostra natura antropologica culturale. Sentiamo di essere sempre dietro rispetto a quello che viene messo davanti, in evidenza, e che implicitamente si presenta come l'”unica realtà“. Un’inadeguatezza che ci spinge alla corsa per tentare di tenere il passo, accompagnati dalla paura costante d’inciampare e di rischiare così di rimanere indietro, esclusi da quel mondo di meraviglie che ci sembra essere sempre a portata di mano, ma allo stesso tempo irraggiungibile. Rincorriamo l’artificiale trasformando noi stessi in esseri artificiali, disumanizzati, e questo tentativo di adeguamento quasi ci costringe a pensare che il nostro corpo debba essere qualcosa che deve venir superato.
Di fatto, se ci pensiamo bene, i limiti del nostro corpo ci impediscono di essere ciò che vogliamo: rincorriamo tutti il sogno di diventare “qualcuno“, di trasformarci un giorno in “self made man” a tutti gli effetti. In definitiva, desideriamo non essere più inferiori al prodotto che siamo abituati a consumare, ma finalmente parte integrante di esso: prodotti noi stessi.
Può la tecnologia riscrivere la storia esistenziale dell’essere umano?
Quando l’uomo imparò a dominare il fuoco certo non poteva immaginare che un giorno quell’impresa sarebbe diventata uno dei simboli evolutivi della storia dell’esistenza. Così come quando inventò la ruota, o più recentemente ha imparato a dominare l’elettricità, a servirsi del vento, dell’acqua e del sole per produrla. Queste invenzioni, assieme alle infinite altre, hanno migliorato, o quantomeno semplificato la nostra vita. La tecnologia nasce anche dall’esigenza di ridurre la fatica di vivere, in ogni campo. Pensiamo alla lavorazione, alla produzione industriale e artigianale e alle applicazioni in campo medico. Sono miliardi le persone che ogni giorno riescono a curarsi e a migliorare la propria vita, ad allungarla, grazie alla tecnologia. Pensiamo al fornello a gas, ad esempio: ci ha consentito di guadagnare molto tempo da dedicare ad altre cose, oltre, ovviamente, ad aumentare la qualità della cottura del cibo eliminando gran parte delle sostanze dannose e cancerogene per il nostro organismo. Oppure alla macchina per le ecografie: ci permette di guardare all’interno del nostro corpo attraverso un monitor per individuare malattie che altrimenti degenererebbero nascoste. L’identificazione o la cura di tutte le malattie conosciute fino a oggi dall’uomo sono possibili grazie a strumenti tecnologici che permettono di studiare da vicino il mondo sub-microscopico che abita o invade il nostro corpo. Ci sono persone, come il grande scienziato Stephen Hawking, che avrebbero abbandonato da tempo le loro scoperte se la tecnologia non gli avesse fatto da protesi estensiva per interagire con l’ambiente circostante. Altre non potrebbero respirare, molti altri sarebbero già morti d’infarto, altri ancora non potrebbero parlare o sentire, e si morirebbe ancora per un comune raffreddore. Sono migliaia, milioni, infinite, le applicazioni in cui la tecnologia si è resa utile per migliorare e allungare la nostra esistenza. È vero, come in tutto ciò che esiste non c’è solo il buono. L’eccessivo sfruttamento delle risorse e la distruzione di interi territori, il consumismo, l’inquinamento, le tecnologie belliche, sono tutti fattori che derivano da un perfido utilizzo della tecnologia, ma che non per questo deve essere criminalizzata nella sua totalità. Oggi consideriamo la tecnologia come una minaccia che rompe gli schemi tradizionali dai quali attingevamo per ampliare la nostra conoscenza, il nostro sapere, ed è così, ma solo in parte. Ad esempio, personalmente, la Tv come è fatta oggi, e la funzione manipolatoria che ha, non mi piace, poiché brandisce smisuratamente, e senza alcun controllo, stereotipi dannosi come unico vocabolo di comunicazione, ma questo non basta a convincermi che debba essere tutta da criminalizzare. Un programma televisivo indegno non mi fa dimenticare quello più meritevole, o un film penoso non oblia quello migliore.
Poi c’è la rete, internet. Internet nasce per questioni belliche, e nessuno di quelli che hanno inventato e utilizzato all’inizio il linguaggio HTML si sarebbe mai immaginato che un giorno avrebbe messo in comunicazione miliardi di persone in tempo reale. Era inimmaginabile, come per Einstein, e per tutta la comunità scientifica, che la sua Relatività avrebbe rivoluzionato la concezione che fino a quel momento si aveva dello spazio e del tempo. La tecnologia è ciò che ha permesso ad Einstein di formulare la sua relatività e a noi di comunicare in massa. Ci si potrebbe chiedere a cosa servono realmente queste scoperte (e dobbiamo chiedercelo, ma per comprendere, non per sentenziare), ma in quel caso verrebbe da dire mancare di una visione filosofica, critica dell’esistenza. Possiamo postulare dunque che per noi esseri umani non è importante sapere quanto di buono c’è in quel che facciamo (che a giudicare dalle catastrofi provocate nel corso della storia, a fatica è possibile affermarlo), ma se quello che facciamo accresce la nostra conoscenza oppure no. La curiosità nella novità, nella scoperta, fa parte di un individuo con una personalità temeraria, aperta alle avventure, come solo la specie umana sa essere. Se c’è del buono o del cattivo sarà, come sempre, il tempo a stabilirlo, e lui soltanto, nonché la qualità che ognuno di noi, individualmente, mette nell’utilizzare gli strumenti a disposizione.
Se pensiamo che il “buono” di internet siano solo i social network, omettiamo di dire a noi stessi una verità che effettivamente non è perfettamente definibile e che si nasconde nel modo di comunicare. Mai nella sua storia l’uomo ha potuto comunicare così velocemente e contemporaneamente scambiandosi informazioni, pensieri, idee. Non siamo mai stati così vicini fra noi come oggi, però, contemporaneamente abbiamo la sensazione (giustificata) di essere così lontani dal contatto umano, dall’empatia che si crea solo con il contatto fisico. È vero, ma la rete non è soltanto uno strumento attraverso il quale scambiamo le nostre pseudo-emozioni; scambi che, oggettivamente, sono profondamente degradanti. La rete è soprattutto la più grande enciclopedia mai concepita dall’uomo, certamente molto disorganizzata, ma grazie alla quale è ci possibile scambiare informazioni alla stessa velocità con la quale viaggiano i neuroni nel nostro cervello. Se c’è qualcuno che la utilizza solo per guardare materiale pornografico non vuol dire che la sua funzione sia solo quella. Di sbagliato, nell’approccio che abbiamo alla rete, e come in moltissime altre cose che fanno parte della nostra vita, c’è l’assenza di cultura individuale, e anche la cattiva (o assente) educazione che riceviamo riguardo all’utilizzo della vastità infinita delle informazioni che contiene.
Se non sappiamo guidare la macchina e non conosciamo un minimo di codice della strada ma ci immergiamo a tutta velocità sull’asfalto del traffico cittadino, alla meglio commetteremo una lunga serie di infrazioni o, più probabilmente, causeremo un incidente. Quel che è certo è che a nessuno verrebbe in mente di prendersela con l’asfalto o con le altre macchine rimaste coinvolte nell’incidente.
Il vero problema delle tecnologie è il loro cattivo utilizzo. A causa di esse si stima che fra qualche anno la forza lavoro necessaria impiegata nella produzione sarà pari al 20% del totale; il restante 80% non troverà collocazione. Potrebbe essere questa l’occasione di riscrivere la funzione esistenziale dell’essere umano, indirizzato al lavoro forzato dall’inizio della Prima Rivoluzione Industriale? Può questo mutamento irreversibile occupazionale far sì che l’uomo possa dedicare il tempo a disposizione ad altre cose più vicine al suo essere? È una sfida che si profila all’orizzonte, visibile e già tangibile, che forse, vista l’ostinazione irrazionale a voler mantenere in uso un’etica del lavoro che non esiste più, e che forse non è mai davvero esistita, se non per esigenze capitalistiche egoiste, e che sta mietendo vittime ovunque attestando il proprio fallimento, sarebbe il caso di affrontare seriamente.
P.s. È certo che all’inizio a molti il fuoco incutesse paura, e che quindi lasciassero ad altri il compito di dominarlo. Non per questo abbiamo smesso di perfezionare l’utilizzo che ne facciamo.