
I social network, da quello che speravo diventassero nel giro di pochi anni: strumenti che avrebbero annientato i mezzi di comunicazione tradizionali, sono diventati semplicemente una bacheca dove appendere alla vista di tutto il mondo quel che facciamo e pensiamo in tempo reale in barba all’intima individualità, che così ha perso ogni barlume di mistero, e di curiosità nel prossimo nel volerla scoprire. “Sto respirando”, “sto mangiano”, “sto evacuando”, “rimettendo”, “pisciando di traverso”, “ho schiacciato un brufolo”, “una piattola”, “sono andato lì”, “sono qui”, “domani vado là”, “ho cambiato acconciatura”, “mi sono fatta lo smalto”, “ho la colite”, “mi fa male l’ombelico”, “sono felice”, “triste”, “mi sto depilando”, “sto bevendo”, “ho le doppie punte”, “ho messo questo vestito”,”ho acquistato questo”, “ho l’unghia incarnita”, eccetera, eccetera, eccetera. Talmente banale che è persino banale dire che è banale. Non c’è più gusto a conoscersi perché ancor prima che ne sentiamo il desiderio il “social” lo ha già esaudito per noi, senza noi.
Avevo la speranza che Skype diventasse il mezzo di videocomunicazione più comune spazzando via gli oligarchi dello scatto alla risposta. Mi sono sbagliato. Credevo che Facebook avrebbe contribuito ad abbattere il degrado culturale attraverso lo scambio di riflessioni. Mi sono sbagliato. È tutto storto, al contrario. Se da una parte è un utile strumento di aggregazione, di legami comunicativi e di scambio di notizie, dall’altro è un superpotentissimo mezzo di disgregazione dei più elementari rapporti interpersonali. Se prima ancora resisteva, a fatica, una certa intimità, adesso è tutto esposto al pubblico, e più è pubblico quello che pensiamo e facciamo più ci sentiamo appagati. Come ad esempio gli album di famiglia, quelli che aprivi una volta l’anno in determinate occasioni e in presenza di determinate persone per farti un bagno di ricordi e di malinconia (che non è affatto una malattia degenerativa), sono diventati album pubblici alla mercé dei feticisti, nei quali chiunque voglia ha facoltà di immergersi. Rassicurati, però, dalla sezione “impostazioni sulla privacy”. Sembriamo spinti dall’esigenza di mercificare noi stessi, conformi, del resto, alla società dei consumatori nella quale viviamo. La cosa più importante è diventata per noi quella di gridare al mondo che esistiamo e che siamo fatti in questo o in quel determinato modo, poiché siamo convinti che altrimenti gli altri non si accorgano di noi, però lo gridiamo tutti alla stessa maniera senza distinzioni. Questo ci rende inconsapevolmente uguali, omogenei, conformati a un unico modo di essere e di esprimerci. E più “mi piace” riceviamo più ci sentiamo stimolati ad esteriorizzare quanto di più intimo abbiamo. E poiché inevitabilmente non si esaurirà mai l’infinita vastità interiore, difficilmente questo bisogno estremo di mercificare la nostra identità troverà appagamento. Così riduciamo tutto e tutti a strumenti di autoapprovazione, senza i quali ci sentiamo disarmati, inutili e invisibili. L’esigenza, poco allettante, di accettare la nostra autonomia e originalità e di rivendicare una propria intima identità, e di accettare l’altro in questi termini, è stata completamente eliminata, abbattuta, disintegrata dai social network, proprio perché abbiamo bisogno di approvazioni, e le vogliamo immediate, istantanee, in tempo reale. La socializzazione virtuale segue ormai gli schemi del marketing, del piacere superficiale e immediato della e nella finzione, e ci preoccupiamo prevalentemente di dimostrare che “facciamo qualcosa” e che la facciamo “così”; che “esistiamo” e che siamo “qui”.
Vorrei capire che differenza c’è tra Facebook e il Grande Fratello.
Ci sentiamo tanto in compagnia, parte di qualcosa o di qualcuno quanto più mettiamo in piazza la nostra intimità, quando invece, nella realtà, siamo più soli oggi di quanto non lo fossimo prima dell’avvento dei social. So che un giorno tutto questo si assesterà, che troverà un giusto equilibrio, ma sono altresì sicuro che avverrà solo dopo un brusco e drammatico scontro con la nostra coscienza e con il nostro modello di vita. Di sicuro non mi sarei mai immaginato che sarebbe stato questo il percorso. Abbiamo smesso di farci domande. Non ci chiediamo più perché ci comportiamo in una determinata maniera e siamo convinti che chiederselo equivalga ad ammettere insicurezza verso se stessi. D’altra parte, esporre le nostre debolezze rischierebbe di abbattere il muro di sicurezze artificiali che abbiamo innalzato tra noi e una società di predatori e approfittatori. E noi siamo sicuri? Farsi domande destabilizzerebbe quel che crediamo poggi su basi stabili, ma che nei fatti galleggia affannosamente su sabbie mobili che ad ogni ostacolo e ad ogni movimento brusco sprofonda là dove diventa sempre più difficile capire chi siamo e dove stiamo andando. Per ciò abbiamo un bisogno costante di certezze e le cerchiamo nel prossimo anziché in noi stessi.
Sembra non ci sia più spazio per la riflessione e che le bacheche di ogni profilo si siano ridotte ad essere semplicemente un mezzo per fare pubblicità a noi stessi per venderci al prossimo. È inquietante.
Per fortuna che ci sono i centri di benessere, così per un giorno o due abbiamo la possibilità di rilassarci, prima di riaffogare in questa inquietudine.
Cornelius Castoriadis alla domanda di uno dei suoi intervistatori:
«Ma allora lei cosa vuole? Cambiare l’umanità?»
Lui rispose:
«No, una cosa molto più modesta: voglio che l’umanità cambi, come ha già fatto due o tre volte».
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