Riprendendo il filo da dove avevo lasciato, come già detto, finita la Seconda Guerra mondiale dopo la Liberazione rientrarono nelle case, 20 mesi più tardi, 200.000 partigiani e circa 500.000 italiani nascosti o fuggiti all’estero nonché 1 milione e 360.000 di prigionieri sparsi in tutto il mondo, senza contare quelli che non sono mai più tornati, fondando e radicando comunità in ogni angolo del pianeta. Inevitabilmente fu un esodo di massa, che però non riusciamo neppure a paragonare con quello che sta avvenendo oggi nei paesi schiacciati dalle guerre. Perché? Eppure le affinità ci sono tutte: dittatori che opprimono e schiavizzano le popolazioni ai loro voleri per soddisfare una personalissima concezione del mondo che si erge sulla supremazia come pure sugli interessi economici. Non c’è la “razza ariana” a fare da capro espiatorio, ma c’è quel comune impulso avido a controllare e annullare gli Altri, considerati unicamente come strumenti per raggiungere i propri scopi, atti ad affermare un vantaggio competitivo in un mondo che fa del dominio e della competizione le sue ragioni d’esistenza.
Quando le Guerre si conclusero, l’Europa fu liberata, ma non finirono i disagi e le violenze da un giorno all’altro. Era tutto distrutto; c’era tutto da ricostruire. La produzione industriale italiana era bassissima: se 100 era quella del 1938, nel 1942 scese a 89, nel 1943 a 69, e alla fine della guerra era piombata a 29. C’era una diffusa indigenza: con la tessera alimentare si arrivava ad appena 900 calorie al giorno, gli altri saltavano i pasti o erano costretti trovare il modo di arrangiarsi. Iniziava in questo clima “la grande avventura della ricostruzione”, non solo materiale ed economica, ma anche dei valori, spirituale. Possiamo oggi dire di esserci riusciti?
Prendiamo il Sud. Era la parte del paese che più aveva risentito dalla guerra. Oltre ai danni provocati dalle bombe, l’economia era al tracollo, le regioni del sud si trovavano in serie difficoltà, isolate dal resto del paese, e questo non aiutava la popolazione ad avere fiducia.
Nel ’50, tra disagi e rivolte popolari (contro i latifondisti) generate dopo varata l’inefficace riforma agraria, meglio nota come Riforma Segni, fu creata la Cassa del Mezzogiorno, con l’intento di istituire un’ente autonomo in grado di garantire la realizzazione di strutture e attività economiche nel meridione, ma che finì per trasformarsi in un ente politicizzato che dipendeva intrinsecamente dalle direttive delle diverse coalizioni politiche che si alternavano al governo. Così, invece di incentivare la crescita delle regioni del Sud, contribuì a incrementare il mercato per le imprese del Nord favorendo la crescita del reddito e dell’occupazione nelle zone meno disastrate. Quanto è cambiato da allora?
L’Italia dunque, da paese aggressore e oppressore, riscattatasi alla fine della guerra, divenne nuovamente preda dell’avidità istituitasi attraverso interessi economico-politico-strategici. A chi poteva permetterselo non rimaneva che emigrare, non solo verso l’Italia settentrionale, ma anche verso la Svizzera, la Germania, il Canada, le americhe, l’Australia, eccetera. Gli italiani sono numerosi e ovunque nel mondo.
È inoltre doveroso ricordare, per comprendere le allora condizioni, che insieme alla fame e alla grande miseria, alla fine della guerra furono molte le donne costrette a prostituirsi, ed erano costretti a vendersi per 2 o 3 dollari (300 lire) anche ragazzini e ragazzine di 10 anni, che venivano valutati a palpeggi prima di essere sceglierli. Costava molto di più un chilo di carne che una ragazza o un ragazzino.
C’era una dignità da ricostruire ma l’indigenza, le ruberie delle amministrazioni e le discriminazioni rendevano tutto più difficile; certo è che le emigrazioni non si arrestavano.
Tuttavia, il sentimento di solidarietà e umanità non si estinse, ma era più diffuso fra gli italiani emigrati all’estero che non fra coloro rimasti sul territorio. Nella storia dell’emigrazione italiana hanno prevalso a lungo sentimenti di appartenenza locale, generati dalla sostanziale assenza dello Stato nei confronti dei propri emigranti ma anche di quella dello stato che li ospitava. Più o meno è quanto accade fra gli immigrati stranieri presenti in Italia e altrove: escluse le necessarie cure di primo soccorso, di fatto gli stranieri fuggiti dalle guerre e richiedenti aiuto sono prevalentemente lasciati a se stessi, senza alcuna struttura che si occupi minimamente della loro integrazione (le strutture di accoglienza sono sempre più simili a lager). Accade allora che pur di sopravvivere c’è chi è costretto a delinquere, chi a mendicare, chi a fare lo schiavo di qualche padroncino in cambio di un pasto, chi cerca in tutti i modi di raggiungere parenti sparsi in Europa, ma ognuno di loro è sostanzialmente lasciato allo sbando. Per fare un paradosso (neanche tanto), in Brasile, che ospiterà i prossimi Mondiali di calcio, le prostitute (la prostituzione è legale in Brasile) stanno recandosi in massa a studiare l’inglese (gratuitamente nelle strutture preposte sul territorio), in modo tale da essere pronte a fronteggiare l’invasione dei turisti provenienti da ogni parte del globo per seguire la competizione (ma anche per riuscire a comunicare meglio evitando di trovarsi in situazioni pericolose – che certo non mancheranno lo stesso, ma non per questo debbono essere abbandonate a se stesse). I Mondiali di calcio non sono un evento che si può interrompere, come non si può reprimere la prostituzione, come pure gli esodi di massa generati dalle guerre, e giacché non c’è la volontà di fermare nessuna di queste “contingenze”, l’unica via intelligentemente, razionalmente e umanamente praticabile è quella dell’integrazione: predisporre servizi di assistenza e tutela sul piano culturale ed educativo è sempre meglio che reprimere. La consapevolizzazione e l’istruzione hanno sempre aiutato la gestione di situazioni che altrimenti sarebbero lasciate totalmente in mano alla criminalità, come del resto avviene quando le istituzioni vengono a mancare. Basta vedere le condizioni in cui versa l’Italia.
Ad ogni modo, fosse per me i mondiali di calcio non si farebbero, almeno non in mezzo a sprechi colossali che portano solo violenza e dividono il popolo, ma non ho il potere di cancellarli, e in ogni caso il calcio è uno sport che piace, evidentemente così com’è; per alcuni la prostituzione è da condannare senza appello, per altri andrebbe legalizzata, ma nessuno ha il potere di eliminare le prostitute, anche se i fatti di cronaca a volte fanno supporre il contrario; e così vale per la guerra: per alcuni va fatta, è un’esigenza, un’urgenza, una fatalità (?), mentre per altri è inservibile, corrotta, indecente, disumana, immonda, ma nessuno — tantomeno noi italiani — può arrogarsi del potere di decidere “chi” e “se” deve essere aiutato quando da essa scappa. Gli animali in moltissimi casi hanno dimostrato di essere migliori di noi. Ma il punto centrale è che i fattori più importanti, il “come” e il “perché”, non sfiorano alcuno, introiettati di paura come siamo che ci portino via le risorse vitali da un momento all’altro. La stessa paura verso gli immigrati italiani ce l’avevano in molti, ma i governi li facevano entrare poiché servivano a sviluppare le economie infrastrutturali dei paesi stranieri che li accoglievano, non certo per una questione di solidarietà umana, che esisteva solo endemicamente per le ragioni sopra dette. Infatti le condizioni lavorative erano paragonabili alla quelle della schiavitù. L’emarginazione sociale gli italiani all’estero l’hanno sperimentata, e chi l’ha vissuta sa quanto sia da condannare, ma chi si atteggia come coloro che quando non ci sono problemi sono tutti fratelli e allora è giusto darsi una mano, però se ce ne sono “sparisci dalla mia vista”, è ancora più deprecabile, specie se il “sermone” arriva da chi si diverte a elogiare figure come quella di Gandhi, incarnazione della non-violenza e dei Diritti umani, o di Gino Strada, il fondatore di Emergency, l’associazione umanitaria fatta da volontari che si occupa di portare assistenza sanitaria nei paesi distrutti dalle guerre, e che ogni giorno rischiano la loro vita per salvarne altre, innocenti.
La responsabilità che abbiamo nel ricordare certi momenti storici, non si deve limitare ai soli confini nazionali o familiari, ma si deve estendere in tutto quel senso di solidarietà che dobbiamo coltivare per impedire che appassisca definitivamente.
Pur essendo inconsapevoli abbiamo comunque delle responsabilità.
Ci consideriamo in grado di decidere chi deve morire e chi invece vivere, giustificandoci con argomenti impraticabili — ma efficaci — come la mancanza di risorse… in un mondo che produce tre volte tanto quello che consuma, così tanto che sarebbe più che abbastanza per tutti. Non è assecondando queste politiche che si risolvono certe questioni sociali.
Quali sono stati dunque gli eventi e i comportamenti che hanno favorito la nascita del sentimento di paura che gran parte dei cittadini europei ha nei confronti di queste povere persone incolpevoli? Sappiamo ormai perché si fanno le guerre, e allora perché non riusciamo ad andare oltre la propaganda mediatica capace solo di infondere odio, paura, persino invidia verso chi fugge da esse? È chiaro che la realtà mediatica prevale su quella effettiva, ma la storia deve pur averci insegnato qualcosa. Già alla fine dell’800 le comunità italiane all’estero erano importanti, proviamo allora a immaginare come avrebbero potuto sentirsi i nostri avi difronte a un eventuale respingimento: sarebbero stati costretti a rimanere in patria a subire le violenze e le ingiustizie, abbandonati a se stessi e ai loro problemi, senza ricevere il minimo aiuto da parte di nessuno. Se un bambino innocente ci tende una mano in cerca di aiuto è difficile girarsi dall’altra parte e far finta di niente, eppure è quello che vogliamo fare, che stiamo chiedendo di poter fare. Qualcuno ha dichiarato che per affrontare certi problemi “bisogna avere più cervello e meno cuore”… come se le due cose, a prescindere, non fossero capaci di esistere parallelamente in comune accordo, eppure gli esempi che dimostrano che se si ha la volontà possono coesistere tranquillamente ce ne sono e sono formidabili, autorevoli, come quelli su citati, anche se i loro lasciti oggi sembrano essere più in mano alle multinazionali che ne hanno fatto dei brand. È rispettoso nei loro confronti? E verso chi crede nei valori che hanno lasciato?
Così come quando c’era il fascismo il sentimento di rivalsa nazionalistica era ben amplificato dalla propaganda di regime, allo stesso modo il moderno regime mediatico instilla nelle menti più deboli e sottomesse un senso di egoismo distogliendo la loro attenzione dalle vere cause generatrici di tanto caos sociale e dai valori centrali che tengono insieme una società fatta di comunità che vivono l’una in simbiosi con l’altra. I sentimenti pseudo-anti-straniero e le misure di respingimento degli immigrati “nemici” che ci accingiamo ad avallare vanno contro ogni principio di convivenza fra i popoli per i quali dovremmo batterci pacificamente. L’unico terreno di guerra sul quale dobbiamo combattere contro le ingiustizie si trova nelle nostre menti e nei nostri cuori, in parti uguali. I Diritti Umani sono di tutti. Tutti. Non facciamoci condizionare dalla propaganda di regime. Chi detiene l’informazione sono gli stessi che hanno interesse a mantenere bassa la consapevolezza verso certe questioni poiché chiaramente li colpiscono da vicino. Chi ha pozzi di petrolio in Niger siede nei consigli di amministrazione dei più grandi conglomerati mediatici (questi sì con un gran senso di comunità), come ci siede chi è nel tessile, nel minerario, nel settore alimentare e via di seguito. Essere consapevoli del fatto che lo sfruttamento di tali risorse distrugge e inquina interi territori lasciando le popolazioni nell’indigenza che noi tutti siamo abituati a vedere solo in foto, come potrebbe farci scegliere le politiche di respingimento? Essere consapevoli del fatto che consumiamo più di quanto ne abbiamo necessità, come potrebbe farci pensare che le risorse non possono non bastare per tutti lasciando entrare chi ci chiede aiuto? Ancora una volta: sosteniamo di essere contro la vivisezione, gli stupri, la pedofilia, gli omicidi, i femminicidi, i genocidi, ma siamo pronti a girarci dall’altra parte davanti alla prova dei fatti. E questo dimostra quanto siamo bravi a parole. Solo a parole. Di atavico ci è stato espropriato tutto, in compenso abbiamo acquisito il linguaggio, la personalità, il carattere comunicativo e apprensivo dei media. Dovremmo esserne fieri? Le amministrazioni hanno sempre rubato, in particolare quelle italiane, ma non è questo un buon motivo per continuare ad essere i loro sottoposti inconsapevoli. Anzi, forse questo è il momento giusto per smettere.
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