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OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

In fondo che ci frega? A Natale siamo tutti più buoni


L’amore, che è l’unico antidoto contro il narcisismo, il primo a lanciare allarmi quando c’è da demolire la falsità delle pretese alle quali cerchiamo di tenere aggrappata la nostra autostima, oggi impallidisce davanti all’esuberanza e all’eccitazione, ma anche all’ansia, spesso all’angoscia e alle frustrazioni che scaturiscono da un senso di inadeguatezza sempre più marcato, nei confronti di emozioni e impulsi primordiali sempre più indecifrabili, ma obbligati a manifestarsi a comando poiché fissati sul calendario. Ed è così che, in questo enorme vortice di partecipazioni prescritte, capita che si avverta il bisogno di raccogliere le idee per dar vita all’indignazione. E’ da quest’ultima che emerge la necessità di adoperarsi per dare (anzi ridare) “un senso al senso”.

L’amore appunto, declassato a sottoprodotto di quel che erano nostri più intimi e antichi sentimenti, è impiegato oggi come un’efficace espediente per commercializzare quella che somiglia sempre più a una fiera delle ostentazioni. Il boom elettronico, i favolosi profitti ammassati dalla vendita di strumenti capaci di obbedire a qualsivoglia volontà del padrone, offre un vasto assortimento dal quale attingere l’esperienza della meraviglia. E non ha rilevanza alcuna che sia essa artificiosa o autentica, simulata o sincera, purché sia in grado di accomunarci tutti, di regalarci quel senso di appartenenza cui tanto aspiriamo, più o meno dichiaratamente, più e meno consapevolmente. Perché è dalla solitudine prodotta dai nostri schermi portatili che nasce il nostro senso di aggregazione, non più, quindi, dalla solitudine esistenziale di natura amletica, o filosofica che dir si voglia. Non desideriamo avere dubbi: desideriamo e basta, e lo facciamo per decreto. Non ci interessa imparare ad amare, tanto meno porci domande: ci interessa l’esibizione dell’amore, affinché altri possano riconoscersi e riconoscerci, affinché noi ci riconosciamo in quella degli altri. Ma un senso di appartenenza filtrato, e in aggiunta provocato per decreto, potrà mai renderci consapevoli d’essere “qualcuno” e di far parte, di conseguenza, di “qualcun altro”? Se tutto muove e scivola sulla superficie ornamentale dell’esistenza, se rifiutiamo la comprensione, la consapevolezza e soprattutto l’esperienza, allora rifiutiamo l’amore.

Perché l’esibizione dell’amore, la costrizione a cui siamo implicitamente chiamati ad ubbidire per ragioni programmatiche e come già detto per supplire, o peggio ancora surrogare, a quel che è rimasto del nostro senso di appartenenza, è un’ostentazione fine a se stessa, che dietro al buonismo sentimentale di facciata nasconde in realtà inquietudini come agonismo, emulazione, insoddisfazioni, incomprensioni… che ci è permesso di lavar via in un determinato momento fissato sul calendario, compiendo determinati gesti fissati sugli schermi, dai quali sfilano infinite immagini che richiamano (si voglia o no, o lo si creda o meno) la nostra attenzione convincendoci ad entrare a far parte di “qualcuno filtrato”, e attraverso i quali facciamo gran parte delle esperienze della vita, e dunque dell’amore. Ora, è vero che il mondo è un mondo spietato, che sfrutta, inganna e mente, e che noi siamo la massima espressione di quest’inganno, di cui a volte ci adoperiamo per conoscere le cause, non per farvi fronte e ritrovare la verità dei nostri sogni, della nostra vita, del nostro senso di appartenenza… dell’amore; ma per adattarci e ingannare, e ingannarci, a nostra volta, perché in fondo che ci frega? A Natale siamo tutti più buoni.

L’autocelebrazione


L’autocelebrazione inganna l’autostima; è l’ammirazione verso il contenitore alienato dal contenuto. È il comportamento artificioso con cui il narcisismo esprime se stesso; è specchiarsi per guardarsi intorno agli occhi. È l’autoscatto degenerato in selfie. È la perversione del sé. È la convinzione di essere speciali emulando un mondo di replicanti. È pretendere il riconoscimento egemone della propria diversità escludendo l’uguaglianza; è rivendicare la propria diversità a svantaggio delle varietà. L’autocelebrazione non è analisi ma sintesi. È voler scrivere un capitolo di un libro che non si è letto. È ambire ad esser conosciuti, non a conoscere; è fare pubblicità a se stessi, è annuncio, propaganda, è la mercificazione dell’Io che diventa un articolo su uno scaffale: è il soggetto che diviene oggetto. L’autocelebrazione è in eterna competizione per aggiudicarsi il primo posto, perché arriva sempre al secondo.
“Nulla è più terribile dell’ignoranza attiva”.

Johann Wolfgang von Goethe

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Manifestazioni di dissenso: ecco perché, “grazie ai media”, sono ininfluenti


Ruberie, soprusi, discriminazioni, disuguaglianze e povertà sono in costante crescita in Italia e nel mondo, eppure il popolo sembra aver perso la capacità di ribellarsi, o quantomeno di manifestare disgusto verso una
classe dirigente sempre più incapace, attenta solo a salvaguardare i propri interessi personali e quelli di chi finanzia le loro perenni campagne elettorali. Il dio denaro, sempre lui, abbatte tutto e tutti, comprese le manifestazioni di protesta che hanno da sempre evidenziato il carattere umano, solidale e comunitario delle società nei momenti di maggior sofferenza. Ma da solo il denaro non basta. Bisogna disporre anche dei giusti strumenti (che il denaro ovviamente compra) in grado di corrompere e compromettere la struttura psicologia e percettiva degli eventi cui il popolo viene a conoscenza ogni giorno. Ecco allora che i mezzi di comunicazione di massa, compresi i nuovi media, svolgono un ruolo fondamentale a tal fine.

Un tempo l’uomo si riuniva attorno a un fuoco e più tardi a una tavola imbandita dove assieme con altri consumava i pasti discutendo degli accadimenti passati, quotidiani e di quelli futuri; oggi il fuoco non ha più quell’utilità e i pasti, nell’era dei “fast food”, vengono consumati in tutta fretta e dove capita, magari chiusi ognuno nella propria stanza davanti al proprio televisore sintonizzati sul proprio programma preferito. Si è soli, teoricamente in compagnia di altri individui soli come noi, tuttavia ciò non ha la prerogativa di renderci meno soli. Anzi.

La Tv in particolare, oltre ad essere una fabbrica di stereotipi e di spettacolo, ha la funzione primaria di dare al pubblico spettatore ciò che la fantasia riesce a produrre, ovverosia offre una valvola di sfogo fittizia, priva di reale consistenza capace di placare sul nascere ogni forma di espressione costituita individualmente. Con l’avvento dei talent-show ad esempio — a sostegno di quella che non è certo una teoria — il numero di persone sedotte da essi che aspirano a diventare ballerini, cantanti, attori, scrittori, eccetera, è aumentato smisuratamente. I nuovi media a tal proposito, grazie al prezioso contributo dei social network, amplificano, esaltano e sviluppano ancor di più tutto il materiale che la Tv produce — anche se in alcuni casi può verificarsi l’inverso ottenendo comunque lo stesso risultato —, interagendo fra loro come una protesi fa con chi la indossa.

“Diventare famosi!”, di fatto, è il feticcio cui gran parte della società delle apparenze ambisce. «Essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere i protagonisti delle prime pagine di migliaia di riviste ed essere presenti su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone.

La nostra fantasia produce empiricamente i suoi frutti, ovvero elabora desideri che gli giungono ai sensi attraverso l’esperienza dei fenomeni e degli accadimenti. E in un mondo, come afferma Germaine Greer, in cui “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, ciò che giunge ai sensi è accuratamente selezionato per essi dal mondo dei mass media.

L’aspirazione dell’umanità è sempre stata, utopisticamente, quella di raggiungere la “bellezza” della perfezione — o “la perfezione della bellezza” — e i modelli offerti dai media volgono dispoticamente verso quella che dal modello sociale dominante è spacciata per tale. Ma, come acutamente ci illumina Baudrillard, “la perfezione è sempre stata punita: la punizione della perfezione è la riproduzione”. Perfezione, pertanto, alla quale noi tutti siamo sottomessi indefessamente, cui noi tutti dobbiamo obbedire, sopportare e ambire di riprodurre, imitare per tentare di realizzare le nostre fantasie istigate dalla perfezione stessa dalla quale sono accerchiati.

Ci troviamo così di fronte a un’esibizione criminogena della perfezione, a una produzione di fantasie e aspirazioni bramose, ma l’elemento ancor più preoccupante è la convinzione che si insinua fraudolentemente negli individui, che è quella di fargli credere di star facendo qualcosa che in realtà non fanno; di essere qualcuno che in realtà non sono, e di possedere delle qualità che in realtà non hanno. Possiamo rilevare ciò registrando il tempo che trascorrono sui palcoscenici le miriadi di presunti nuovi talenti smerciati per tali al grande pubblico dalle case discografiche o dagli improbabili talent-scout, che appunto vendono persone come pane fresco, le loro facce, le loro voci, i loro corpi, il loro modo di (farsi) vestire, come fossero ognuno migliore dell’altro, proprio come un prodotto sullo scaffale di un supermercato sulla cui confezione campeggiano frasi come “il migliore in assoluto”, oppure “eletto prodotto dell’anno”. Di facile seduzione per il pubblico, ma anche di seria frustrazione quando chi apre la confezione si rende conto (ma senza prenderne realmente coscienza) che poco differisce dagli altri prodotti, o quando “il talento” stesso si accorge di essere stato rimpiazzato da quello successivo.

Naturalmente il pubblico fatica ad accorgersi di siffatti rimpiazzi poiché tenuto in perenne suspense ed eccitazione dall’annunciato prossimo fenomeno, e quand’anche se ne accorgesse non sarebbe rilevante dacché gli individui cui si rivolge il mercato non sono interessati, anzi, non percepiscono nemmeno certe strategie di marketing. Ma le subiscono; motivo per il quale ambiscono a diventare prodotti loro stessi, convinti di dare alla “perfezione” il proprio contributo, giacché persuasi di esserne portatori.

Ed è in questa riproduzione indefinita di prodotti da consumare che ci smarriamo, che ci consumiamo, e dalla quale usciamo vinti combattendo una battaglia che non siamo noi a chiedere di combattere, ma che ci depreda delle forze e della concentrazione necessarie per affrontare quelle di una vita sempre più avversa, che andrebbero invece osteggiate con impegno e costanza.

Generare un’aspettativa è il vero nocciolo di tutta la questione fin qui trattata. Una società che regge la propria economia grazie ai consumatori, infatti, cresce rigogliosa (gonfiando le sole tasche di chi produce selvaggiamente) finché riesce a rendere perpetua l’insoddisfazione dei suoi membri. In ogni aspetto della vita sociale. Per sostenerla, l’impulso a cercare le soluzioni ai nostri problemi, alle nostre ansie e dolori nei prodotti (o persone) pubblicizzati, non solo è incoraggiato esplicitamente, ma è un comportamento che provoca assuefazione verso l’insoddisfazione e la delusione, diventando abitudine priva di alternativa. Se la soddisfazione fosse definitiva nessuno venderebbe più soluzioni.

Mantenere il consumatore in persistente tensione è la strategia madre di tutte le strategie di vendita adottate dal mercato. Per vendere un prodotto, una persona, un’idea, una riforma, non c’è necessità che questi siano ciò che per cui sono spacciati. Devono rispondere semplicemente all’esigenza di un pubblico che chiede e desidera quanto gli è stato imbeccato di desiderare, di conseguenza, se chiede una rivoluzione basterà piazzare sugli scaffali qualcuno con su scritto sulla maglietta “rivoluzione in corso” per dargli l’impressione di trovarcisi nel bel mezzo; se chiede un talento basterà mandare in scena qualcuno spacciato per tale; se chiede che i suoi sogni possano essere realizzati basterà presentargli qualcuno cui (a tale scopo) sono stati realizzati; se chiede una riforma basterà annunciare qualcosa come tale; se chiede giustizia basterà fare la telecronaca degli arresti eseguiti; se chiede un colpevole basterà indicarglielo; se chiede la fine della fame nel mondo basterà allestire un’Expo; se chiede salari più alti sarà sufficiente fargli credere di avere 80€ in più in busta paga; e via di seguito. Allora è una delusione continua, che genera frustrazione continua, che reprime la rabbia e che ci convince di essere sempre più impotenti di fronte alle infinite complessità che ci vengono rappresentate quotidianamente, ininterrottamente, e alle quali, nonostante tutti i nostri sforzi, non troviamo soluzioni definitive. Del resto ansia da prestazione, eiaculazione precoce e orgasmi simulati sono peculiarità di una società esigente e “fast” come la nostra, insieme ad un consumo sempre più massiccio di antidepressivi.

Thomas Hylland Eriksen spiega perfettamente la società confusa nella quale viviamo:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(“Tempo tiranno”, p. 139 – 144)

Non essendoci narrazione logica, tantomeno percezione di quel che accade attorno a noi, ne consegue che preferiamo astenerci e lasciar fare agli altri, convinti, in senso lato, di dare lo stesso il nostro contributo poiché apparentemente ci sentiamo al centro del dibattito, quale che sia. In fondo, crediamo tutti di essere dei talenti e di poter cambiare il nostro microcosmo, nonostante il sempre più degradato macrocosmo che ci avvolge, e non viceversa, come invece dovrebbe essere.

Linguaggio abbreviato: sbagliando s’impara a sbagliare


Il linguaggio abbreviato accorcia la vita alla ragione.

Scrivere non è l’unica forma di linguaggio espressivo che abbiamo, è vero, ma sforzarsi di farlo meglio, se non bene, in ogni circostanza, non solo rafforza l’efficacia, l’incisività di quel che vogliamo comunicare, ma anche preserva, aiuta a custodire uno dei beni più preziosi di cui gode l’essere umano; un bene conquistato attraverso un processo evolutivo lungo e complesso che ci portiamo dentro e che tramandiamo di generazione in generazione; è parte di noi: ci fa contenenti, non soltanto contenitori.

Quel che è certo, è che con l’avvento delle nuove tecnologie questa forma espressiva sta andando sempre più sciupandosi, storpiandosi, deformandosi, spogliandosi, amputandosi, standardizzandosi a un modello sociale che, come spesso ripeto, esorta a tener conto della sola superficie anziché del contenuto. Esprimiamo perciò attraverso il linguaggio, affermiamo nel modo di parlare, la nostra disumanizzazione. Il linguaggio di oggi si “articola” in modo tale che venga utilizzato un significato abbreviato che blocca lo sviluppo del contenuto, e che ci spinge ad accettarlo come l’unica forma da apprezzare.

Il linguaggio abbreviato, e ripetuto assiduamente, fissa l’analisi abbreviata nella nostra mente e in quella del destinatario. Riducendo il linguaggio costringiamo il pensiero in uno spazio limitato. Oggi pensiamo e ci esprimiamo attraverso slogan che “scarnificano” l’analisi. La politica per prima si esprime utilizzando slogan persuasivi e noi, costretti ad ascoltarli poiché meticolosamente ripetuti, li approviamo e avvaloriamo erigendoli a metodo, giusti, sinceri, verità.

Nelle chat dei social network, oppure quando inviamo un messaggio dal cellulare, la tendenza è quella di tagliare le parole, riassumere concetti, sintetizzare frasi quanto più è possibile, di “onomatopeizzarle” per renderle ancor più brevi.

L’accorciamento della sintassi è la rovina del linguaggio espressivo: reprime lo sviluppo del significato, limita le capacità cognitive e pietrifica con concretezza sopraffattoria l’estensione della riflessione. Nel marketing l’immagine prevale sul contenuto, e lo slogan sull’analisi, di conseguenza una forma espressiva sprovvista di una corretta sintassi minimizza l’autorevolezza del contenuto. Ciò, oltre a rendere poco comprensibile ai nostri interlocutori quanto vogliamo comunicare, ci abitua a tralasciare sfumature che renderebbero più vigoroso, intenso e penetrante il linguaggio. Questo chiaramente vale anche per quel che concerne la punteggiatura, che pare non essere mai esistita. Una corretta punteggiatura dà il giusto tono alle nostre frasi, che altrimenti parrebbero atonali o stonate, senza sfumature anch’esse.

Oggi più che mai incombe la necessità di riprendere ad esprimerci come un tempo, di tornare ad apprezzare una qualità conquistata, ereditata, acquisita, avvalorata da grandi scrittori e oratori che hanno segnato profondamente l’esistenza umana, regalando alla storia opere d’arte senza tempo.

I gesti ripetuti diventano prassi, norma, senza che a nessuno venga imposto e nessuno imponga nulla esplicitamente, e se sono gesti sbagliati, ripetendoli non possiamo far altro che imparare a sbagliare, non a migliorare. Difendiamo la scrittura. Sempre. Non adattiamoci ai metodi persuasivi del marketing. Di sicuro c’è che a trarre vantaggio da questo modo di apprende ed esprimerci, non siamo noi.
“Errare humanum est, perseverare diabolicum”.

“Trip” e “bad trip”


In passato se si voleva fare un viaggio psichedelico ci si affidava a dosi di LSD o affini. Le percezioni si alteravano, le immagini prendevano forma e vita nella mente e la realtà veniva distorta, sostituita da una sintetica, immaginaria, inesistente, ma così vera da sembrare autentica. Negli ultimi anni però qualcosa è subdolamente e subliminalmente cambiato. Come in un processo di sublimazione infatti, la realtà è passata da uno stato solido a quello gassoso: impercettibile, inafferrabile, inconoscibile, ma respirabile, che come i gas di scarico dovuti al transito sfrenato e incontrollato dei mezzi di trasporto assumiamo forzatamente in dosi massicce ormai a qualunque ora e in qualsiasi luogo.

Subissati, e costantemente bombardati come siamo di messaggi subliminali, ci troviamo incessantemente in uno stato di subcoscienza, in un’assurdo assordante, frastornante, che s’impone, si propone e avanza come un paradosso sensato. Siamo collettivamente drogati, gettati in un’immensa Woodstock, con l’unica differenza che non aspiriamo a valori utopici quali fratellanza, uguaglianza, pace, e non andiamo alla scoperta di nuove emozioni sensoriali, alla ricerca del sé, tantomeno lo facciamo per senso artistico, nonostante aspiriamo tutti a diventare cantanti, attori, ballerini e scrittori. Lo facciamo, ma senza avere la volontà cosciente, la consapevolezza di farlo.

Oggi siamo immersi in un mondo in cui le follie assurgono a ragionevoli, le contraddizioni a coerenti e le utopie a concretezze che non si concretano mai, se non nelle nostre convinzioni derivate. Inseguiamo, senza mai raggiungere. Ingurgitiamo palinsesti televisivi, ci deconcentriamo sui cartelloni pubblicitari seminati ovunque, ci svaghiamo negli imperanti centri commerciali, ci rilassiamo nei magnifici e sontuosi centri benessere, brindiamo nei trionfi “happy hour”, esibiamo look firmati, acconciature, unghie finte, seni finti, labbra finte, zigomi finti, nasi finti, sederi finti, personalità finte, dacché non ne abbiamo più una nostra, mentre il mondo, quello vero intorno a noi, non esiste più, se non dentro un titolo di un telegiornale, che come una pillola eupeptica è buono a far digerire tutto e tutti. E allora, dalla realtà immateriale, ideale, spirituale, e al tempo stesso terribilmente materialistica, meccanicistica – coerentemente con le contraddizioni che la contraddistinguono – che ci viene offerta, guarnita di tutto punto, ci facciamo consigliare chi essere, quindi cosa indossare per esibirlo, cosa mangiare per conservarlo, quali medicine per difendere e scacciare via i mali che gli si mettono di traverso.

Oggi non siamo ciò che siamo e non pensiamo ciò che pensiamo: siamo ciò che ci dicono di essere, e pensiamo ciò che ci viene detto di pensare.

Viviamo in un mondo tradotto, parafrasato, interpretato, volgarizzato, che ci ha trasferiti in un altro mondo, parallelo, fiabesco, fittizio, illusorio, sognato, inventato, inesistente, drogato. Un mondo prescritto, disordinatamente ordinato, obbligatorio, stabilito e ormai più possibile da decifrare autonomamente, giacché autoritariamente eteronomi fin dalla nascita.

Immaginiamo però per un attimo un mondo senza Tv, senza pubblicità lungo le strade, nei paesi, nei centri cittadini, senza alcuna forma di indottrinamento e intrattenimento mediatico di massa: prima impazziremmo tutti dalla noia, e poi saremmo obbligati a guardarci dentro, e magari poi anche meglio intorno, in cerca di una personalità e di una realtà perdute, che ci si paleseranno come nuove, autentiche, originali, ingegnose, genuine, vere, e magari queste nelle quali siamo immersi finalmente ci appariranno perfettamente per quelle che sono: una riproduzione, un inganno, una brutta copia, la peggiore delle imitazioni cui l’uomo potesse aspirare.

Eppure gli allucinogeni dovrebbero essere illegali, banditi ormai da anni. Qui invece vengono distribuiti in dosi massicce alla massa, e gli effetti sono tali e quali a quelli indotti dall’LSD: alterazione della coscienza, euforia, perdita di consapevolezza e lucidità, riduzione dei riflessi psicofisici, alterazioni nella memoria a breve e lungo termine, impossibilità di concentrazione, difficoltà di elocuzione o elocuzione disordinata, sensazione di intensa beatitudine, cambio di stato d’animo con estrema facilità, amplificazioni sensoriali, distorsione della consapevolezza del tempo, dello spazio e del sé, percezione intensificata di suoni, colori, odori e sapori.

Ma i trip non sono solo “fiori e arcobaleni”, in particolare quando assunti in dosi eccessive e per lungo periodo, e così si verificano effetti indesiderati (o desiderati in base ai punti di vista), più propriamente detti “bad trip“, ovvero viaggi conditi da ansia e panico. E a determinare il “bad trip” e il “trip” sono proprio quegli elementi che in ambito vengono chiamati “set” (lo stato d’animo di chi assume l’acido) e il “setting” (l’ambiente in cui si trova chi assume l’acido). Ecco, set e setting negli ultimi decenni hanno raggiunto livelli di tale degrado che il nostro vivere è diventato la falsificazione mal riuscita di un ashram, con il solo fine d’ingrassare i portafogli dell’industria della soppressione dell’individuo.
E allora: buon viaggio.

Viaggio alle origini del male


C’è una storiella che parla di un ubriaco e di un bidone d’immondizia. Sembra che questo ubriaco fosse seduto sul marciapiede di fronte ad un bidone di spazzatura e che tentasse con molto impegno e con il massimo sforzo di abbracciarlo. Alla fine, dopo un certo numero di tentativi falliti, l’ubriaco riuscì a circondare con entrambe le mani il bidone di immondizie: sorrise con un ghigno di trionfo, ma immediatamente gli si dipinse in viso un’espressione di sgomento ed egli mormorò tra sé e sé: «Sono circondato!».

La società è l’esperienza che noi facciamo di altre persone intorno a noi: questa esperienza è con noi praticamente dal momento in cui vediamo la luce. È nostra madre la prima che ci chiama per nome e ci spiega la differenza tra un albero e un palo della luce. Questo va avanti per tutta la vita, sia che si tratti di nostra madre, o di altri individui o gruppi che siano. Noi continuiamo a cercare gli altri e gli altri continuano a cercare noi. La società è un’esperienza che dura tutta la vita, ed è anche una delle esperienze che più contano per noi. Essa poi è tutto questo molto prima che noi cominciamo a riflettere su di essa deliberatamente. La società è il nostro modello di riferimento fin dapprima di essere-nel-mondo. È un’esperienza con la quale non possiamo dialogare da subito, dapprima di subito. La società è tutto ciò che ci influenza e influenziamo noi stessi. La società è però una prospettiva che, se vogliamo, possiamo anche cambiare.

Fatta questa breve ma doverosa premessa, con lo scopo di chiarire il fatto che non siamo i soli responsabili, ma che allo stesso tempo tutti lo siamo, e che la miseria umana dalla quale siamo circondati è, che ci piaccia meno, che lo si creda o meno, o che lo si accetti o meno, “anche” una nostra responsabilità.

Un tempo “solidarietà” era sinonimo di “collettività”, e anche di “appartenenza”, un loro complemento, adesso invece è praticamente la succursale di un suo surrogato, ovvero un mezzo per scaricarci di dosso ogni responsabilità, per avere più tempo a disposizione da dedicare ai “nostri” interessi, alla “nostra” vita. La nostra è diventata ormai una “solidarietà delegata”, alienata. È come avere una vicina di casa anziana, sola, impedita, che ogni giorno per poter mangiare necessita di qualcuno che le vada a fare la spesa. Noi siamo a casa tutto il giorno e saremmo disponibilissimi, nonostante ciò, preferiamo chiamare un volontario che nemmeno conosciamo chiedendogli di farci il favore di fare il favore alla nostra vicina di casa di andarle a fare la spesa. È strano, tuttavia ogni giorno ci comportiamo (dai, non tutti) proprio così.

Come ci siamo arrivati?

Siamo “nel” mezzo e al contempo “il” mezzo a disposizione di chi genera povertà collettiva e ricchezza individuale. Noi, che siamo diventati operai (naturalmente mal pagati) nella fabbrica della povertà, in questo siamo certamente, seppur inconsciamente, e ovviamente “obbligati” a farlo, molto più solidali di quanto si riesca a immaginare; siamo una collettività di individui che lavorano uniti per conseguire un unico scopo: permettere a chi vuole arricchirsi sulle nostre spalle di raggiungere l’obiettivo.
Basti pensare che la ricchezza di 85 “paperoni” è pari a quella della metà più povera del pianeta: l’1% della popolazione mondiale detiene metà della ricchezza del pianeta. E il reddito di quest’1% dei più ricchi ammonta a 110.000 miliardi di dollari, ossia 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo: circa 1700 miliardi di dollari. È evidente che esiste un problema di confini, di limiti, di disuguaglianze, di ridistribuzione della ricchezza. E noi siamo coloro che con il nostro “surrogato di solidarietà” facciamo in modo che questa ricchezza si alimenti e consolidi ogni giorno di più. E devo dire che ce la stiamo mettendo davvero tutta. A me non piace parlare di euro, di tassi di scambio, di alta finanza, di numeri, tabelle, PIL, manovre economiche, borsa, e quant’altro serva a distogliere lo sguardo dal vero problema: il “consumismo“, che già il termine in sé mi fa rabbrividire. Preferirei parlare di educazione e di modelli educativi, di consapevolezza, di appartenenza, di cultura, ovvero degli unici fattori in grado di concorrere alla risoluzione dei nostri problemi. Le politiche, che oggi sono affidate al mondo finanziario, ossia a quella sfera che si occupa di interessi economici privati, hanno smesso di fare il mestiere per cui erano state (o avrebbero dovuto essere) chiamate ad operare dopo le due Guerre Mondiali, con tutto quello che c’è stato nel mezzo, come la Grande Depressione del ’29, che non sempre ricordiamo, e non certo per una questione anagrafica. Le politiche sociali, come le tragiche esperienze ci avevano insegnato, dovevano servire a ridurre le disuguaglianze fra i popoli e a ridistribuire la ricchezza, invece si sono ridotte ad essere uno strumento alle mercé di una élite che guarda solo al proprio interesse, che per raggiungere gli obiettivi preposti ha sfruttato (e continua a sfruttare) e alimentato (e continua ad alimentare) la nostra ignoranza, riuscendoci talmente bene che i risultati possono essere sotto gli occhi di tutti, se si ha la pazienza e la volontà di vederli, e soprattutto di ascoltarli. Oggi ci troviamo a fare i pezzi di un puzzle nelle mani di meno di un centinaio di persone che, metodicamente, usando tutta la tecnologia (mi passo il termine da solo) psicologica persuasiva che la ricerca ha messo a disposizione dell’umanità negli ultimi anni, ci incastrano assieme anche quando non coincidiamo per niente, a farci così assumere forme e disegni disordinati, scoordinati, che non hanno logica e forma, ma che a noi appaiono tutt’altro, istruiti e abituati ormai come siamo a guardare la cornice anziché il contenuto, o il singolo pezzo anziché l’insieme dei pezzi.

Cosa li spinge a farlo?

Il massimo che gli appartenenti all’élite dei potenti globali riescono a gestire rientra in un raggio che non va oltre i loro interessi. Se le cose si fanno troppo problematiche per potersi sentire a proprio agio, e lo spazio attorno a sé si dimostra troppo difficile da gestire, possono trasferirsi altrove; dispongono di un’opzione che il resto della popolazione non ha. L’opzione di trovare un’alternativa più piacevole ai fastidi della convivenza sociale gli altri se la possono solo sognare: è il lusso di un’altezzosa indifferenza che quegli altri non possono permettersi.

Come riescono a farlo?

Siamo esortati ogni giorno a compiere scelte che mai sentiremmo di dover fare se non fossimo costretti dagli esempi che ci circondano, e a nostra volta noi stessi siamo e diamo l’esempio. Come in un circolo vizioso, siamo ormai convinti, assuefatti dal fatto che se la maggioranza si comporta in un certo modo, allora ci sentiamo legittimati a fare altrettanto, a imitare comportamenti, copiare azioni, riprodurre suoni, parole, concetti, ragionamenti, in una sorta di simulazione che non sembra avere (e in definitiva non li ha) limiti e fini, tanto meno ragioni. Non è un caso che le politiche odierne effettuino tagli ai budget della ricerca, del sistema scolastico e a tutto ciò che riguarda la sfera culturale. Le chiamano politiche di austerità, o “austerity” che fa più figo, che è sinonimo di rigore, di severità, e che evoca una punizione per qualcosa di sbagliato che si è fatto. E se a sbagliare è stato un manipolo di finanzieri, poco importa, a pagare deve essere (sempre) il popolo, naturalmente quello più povero, che con le speculazioni finanziarie non ha nulla a che vedere… D’altronde non possono mica autopunirsi. Bisogna capirli.

Quali sono le conseguenze?

Non è un caso, dicevo, e anche in questo di caso: che ci piaccia meno, che lo si creda o meno, o che lo si accetti o meno.

È scientificamente provato che mantenere la popolazione sotto un certo livello culturale ne garantisce la governabilità da parte di chi desidera approfittarsene. È un dato oggettivo, essenziale, e non andrebbe mai trascurato. Un altro dato oggettivo è il fatto che questa élite non mette in conto le violenze che inevitabilmente scaturiscono dalla povertà: togli il pane da sotto i denti a qualcuno, e costui per sopravvivere si “dedicherà” a pratiche illegali, pur di sopravvivere. Dunque, con la povertà aumenta il tasso di delinquenza; è una conseguenza naturale, umana, endemica; purtroppo l’uomo è pieno di vizi, fra i quali la fastidiosissima inclinazione alla sopravvivenza.

E allora come fare per fronteggiare tutto ciò?

La risposta non è facile. Bisogna tener conto di un altro aspetto dell’uomo, anch’esso profondamente sottovalutato, ma fondamentale per comprendere la situazione in cui ci troviamo, ovvero l'”avidità“; difetto cresciuto esponenzialmente con la stessa velocità e la stessa grandezza con le quali sono cresciute le tecnologie e i comfort effimeri.
Essa, come tutti sappiamo, rende ciechi, non consente di trovare la volontà di risolvere i problemi alla loro radice, specie quando quei problemi sono causati da chi viene chiamato a risolverli, pertanto, le uniche misure in concessione/delega ai governi sono di natura repressiva, ovvero l’inasprimento delle pene, che a loro volta riempiono le carceri, che arrivate a un certo punto di sopportazione rischiano di far scoppiare in rivolta gli “ospiti”, perciò non rimangono che misure estreme, “emergenziali“, come indulti e amnistie. La repressione alimenta rabbia e frustrazioni, e indulti e amnistie insicurezze poiché si ha la percezione che ci siano più delinquenti in libertà, mentre la costruzione e la successiva eventuale gestione di nuove carceri comporterebbe un enorme esborso di denaro, e dal momento in cui non si ha intenzione di sovvenzionare le politiche sociali, per quale motivo si dovrebbero sostentare i delinquenti? L’insicurezza è anche una debolezza che viene sfruttata dalle politiche, e anche qui, non è un caso che le campagne elettorali vengano incentrate sempre più su questo aspetto.

Come ne usciamo, dunque?

La povertà è ingovernabile, e la storia è piena di esempi dimostrativi. Ostinarsi a continuare su questa strada può solo portare alla distruzione, a nuove guerre di proporzioni inimmaginabili.
Per me la risposta sta tutta nella cultura. Aumentare i finanziamenti all’istruzione, alla ricerca, alla cultura… Ma non basta. Bisogna capire, prendere coscienza del fatto che il vero problema, quello che sta alla radice, è il consumismo. Le nostre impulsività, i nostri acquisti irrazionali, non meditati; gli sprechi che ogni giorno ci lasciamo alle spalle non finiscono nel passato senza conseguenze sul futuro, e i residui di tutto quello che acquistiamo non finiscono nel bidone dell’immondizia e chi si è visto si è visto. Bisogna cambiare il nostro stile di vita, radicalmente, e fare la guerra alla pubblicità, al marketing sfrenato, e chiedere con prepotenza, attraverso le istituzioni, che i media inizino a farci capire quali sono le conseguenze di una società consumistica, che non riguardano solo l’ambiente, che da solo è comunque un buon motivo, ma anche il nostro equilibrio psicologico, di convivenza sociale, di appartenenza. Se veniamo definiti “consumatori”, dobbiamo opporci. Come facciamo ad accettare una definizione così stupida?
Dobbiamo rifiutare i modelli sbagliati, quelli che con molta leggerezza fanno passare il messaggio che tutto è scontato, ma sbagliatissimo, come colorarsi i capelli una volta la settimana, o avere due telefoni, centinaia di vestiti negli armadi, due macchine e nemmeno una bicicletta per percorrere brevi tragitti, il rubinetto aperto mentre ci si lava i denti, due docce al giorno, cercare di acquistare solo generi alimentari di provenienza locale e stagionale, e un’infinità di piccoli accorgimenti che messi insieme fanno un’enorme differenza. Se vogliamo limitare gli sprechi ma “non sappiamo come fare“, non è una giustificazione ammessa: basta cercare, basta volerlo. Sono piccole cose che tutti noi possiamo mettere in pratica, quotidianamente. Rifiutando il consumismo, credetemi, credeteci, i bambini che “vivono” (parola davvero inadeguata) dall’altra parte del mondo avranno più probabilità di mangiare che non donando “due euro con delega“, la signora anziana impedita vicina di casa, non sentirebbe nemmeno l’esigenza di chiedere un favore a qualcuno, perché la precederemmo sempre, senza volerlo, e inconsapevolmente saremmo tutti più solidali in prima persona, senza mai più deleghe.
In alternativa, se mai un giorno riuscissimo a ridurre i degradi generati da questa crisi, in futuro ce ne saranno altre, poiché il problema alla radice è la nostra abitudine impulsiva a consumare, e a pensare solo ai nostri interessi.

Qualcuno ha abbastanza anni per potersi ricordare come si viveva quando ancora non esistevano i telefonini? Non avevamo niente e ci pareva di avere tutto… compresi i rapporti umani.

Chi indossiamo oggi?


Come un fiume non riesce a dominare la sua acqua oltre gli argini durante un’abbondante alluvione, o va in secca nei periodi di siccità, così l’uomo si sovraespone o sottoespone, o sproporziona nel suo modo di essere e di mostrarsi quando viene meno la consapevolezza e il controllo del sé. Quando il commercio, anche umano, il consumismo ci sopraffà, siamo come gettati in un mondo che non ci appartiene e a cui sentiamo di non appartenere, e perciò non riusciamo a decifrare.

Chi non sa mai cosa indossare, ad esempio, esprime incapacità nel mostrare se stesso. Scegliere il vestito da mettere equivale a scegliere la parte di noi che vogliamo rappresentare agli altri, e anche a noi stessi. Quando siamo indecisi sull’abito da indossare, esprimiamo un conflitto con noi stessi. Non è un caso che chi pur avendo mille vestiti nell’armadio e ne acquisti sempre di nuovi senta insieme il costante bisogno di rinnovareanche se stesso, o la rappresentazione che vuol dare di se stesso. Il corpo non è solo una parte del mondo esteriore ma anche una parte del mondo interiore, così anche i vestiti non sono solo oggetti materiali, ma anche involucri personali. L’abito fa la persona: in questo consiste il loro significato sociale.
Il vestito copre, il vestito tradisce, il vestito contraffà.
Si può però anche dire che l’abito ci fa, poiché il suo significato antropologico non si esaurisce nel fatto che ci sentiamo osservati e giudicati dagli altri secondo ciò che indossiamo; noi lo sperimentiamo non solo come qualcosa che ci espone e che contemporaneamente ci protegge e ci nasconde dallo sguardo degli altri, ma anche come qualcosa che ci appartiene, nel quale ci sentiamo bene e liberi oppure a disagio ed oppressi, e inoltre come qualcosa che non solo ci portiamo, ma che anche ci porta, ci aiuta (di fronte a noi stessi e di fronte agli altri), ci ostacola, ci ingrandisce o restringe, e vela e nasconde a noi stessi il nostro corpo. D’altronde oltre alla nostra pelle cosa c’è più vicino a noi del vestito? Dobbiamo (dovremmo) fare però attenzione al fatto che spesso vestiamo la società più che noi stessi, dal momento che il marketing dell’apparire propone prepotentemente abiti alla moda che sono ormai uniformi anziché accessori individuali, personali, intimi. La moda dà in pasto degli short particolari e tutti si affrettano ad indossarli/desiderarli/possederli, così come stivali, gonne, e tutto ciò che la moda anno per anno decide di venderci (questo naturalmente è un aspetto che non riguarda solo la sfera femminile, o solo gli abiti). Anche (soprattutto) il colore viene imposto. Non siamo più noi a fare la moda, ma la moda a costruire noi. Dunque non rappresentiamo più noi stessi ma la firma che indossiamo. Dunque oggi la domanda che più spesso ci facciamo (inconsciamente) quando scegliamo un vestito da indossare è chi indossiamo oggi?, e che si tratti di noi o della marca è irrilevante in base ai nostri criteri di scelta. È a causa di questa interconflittualità, o interconnessione conflittuale tra l’interiorità e l’esteriorità, che a fatica riusciamo a incanalare fuori il dentro con equilibrio. Quando l’equilibrio è assente, quando gli argini si rompono, e l’interdipendenza tra il dentro e il fuori si fa confusa, disarmonica, si verifica una sovraesposizione di uno sull’altro. Resta, però, il fatto che oggi sempre meno sappiamo vestirci di noi stessi: tanto meno sappiamo indossare noi stessi, tanto più ci vestiamo di estranei.
Tutto questo, naturalmente, è in linea con il senso di alienazione che proviamo, e che è provocato dalla società dei consumi, dove tutto ha solo ed esclusivamente un valore commerciale fine a se stesso; dove tutto, personalità compresa, viene consumato. Un conflitto interiore, che si potrebbe definire alla moda.

Cambiare


Il mondo cambia, si trasforma, corre… Ma in che modo? E corre verso quale direzione? Badiamo bene che l’Italia è un paese tecnologicamente arretrato, oltre che culturalmente involuto, ma il cambiamento che ci propinano i “nuovi” sceneggiatori della politica siamo sicuri sia riferito a un cambiamento culturale, sociale e tecnologicamente evoluto, senza discriminazioni di alcun tipo, o è piuttosto a quel cambiamento che tutti gli Stati occidentalizzati e “occidentalizzandi” vanno rincorrendo, ossia la globalizzazione dei mercati finanziari, mediatici, il consumismo sfrenato, quindi culturalmente degradanti, a cui si fa riferimento? “Cambiamento” è un concetto-contenitore del tutto aperto, e ognuno è libero di riempirlo con quello che più desidera trovarci; racchiude in sé un’infinità di aspettative, che se dato in pasto all’elettorato addestrato efficacemente attraverso i mezzi di comunicazione a pensare che per cambiare sia necessario correre, inseguire, stare al passo, nel momento in cui arriva qualcuno che sembra avere tutte queste caratteristiche (che non sono necessariamente qualità), ecco che pensiamo di aver trovato il salvatore della patria. Il mondo corre, si trasforma, e non accenna rallentamenti o soste, perciò inseguirlo significherebbe non raggiungerlo mai. Un cambiamento richiede sopra ogni cosa “consapevolezza“, e noi siamo davvero certi di essere consapevoli del cambiamento del quale siamo sempre più spettatori passivi? Di che genere di cambiamento parliamo? Quando sentiamo dire che il mondo corre mentre noi rimaniamo indietro, che si vuol far intendere con ciò? Che anche noi dovremmo tenere il passo adattandoci alle regole dei mercati globali? Che anche noi dovremmo investire sfruttando al massimo il nostro territorio depredandolo di tutte le risorse di cui dispone per trarne il maggior profitto economico possibile? Che dovremmo deturpare anche noi il paesaggio poiché è questo il (giusto?) prezzo da pagare per il cambiamento e per rincorrere la globalizzazione? È una contraddizione in termini pedonalizzare un centro cittadino e allo stesso tempo agevolare le politiche dettate dal mondo finanziario, quello stesso mondo che ci ha immersi nella crisi economico/culturale che stiamo subendo. Questo andrebbe compreso.
Che genere di cambiamento abbiamo in mente quando pensiamo al cambiamento? Non si conosce il modo in cui le persone immaginano il “mondo-dopo il cambiamento“, né sappiamo se ne abbiano una visione chiara. Votare per il cambiamento significa scappare da qualcosa, ma questa fuga non ci dice molto sul dove vogliono andare, e ancora di meno sul dove correranno una volta che la febbre per il cambiamento si sarà abbassata e la realtà, vecchia e nuova, dovrà essere affrontata da zero. Ed è da qui che il compito degli amministratori si farà difficile, poiché impedire che le speranze degli elettori si trasformino in frustrazione sarà davvero un compito arduo. Forse mai come prima nella storia dell’umanità.
Per me il cambiamento è restare immobili in mezzo a un mondo che si deforma, degrada e consuma; per me il cambiamento è combattere contro chi, in nome della globalizzazione, priva gli esseri umani dei diritti fondamentali, di una vita dignitosa; per me il cambiamento è ritrovare nei valori del passato quei pregi e quel senso di comunità che abbiamo completamente dimenticato; per me il cambiamento è fare tesoro del passato per migliorare il presente e costruire un futuro per tutti senza discriminazioni; per me il cambiamento è riuscire a comprendere che questo mondo va a rotoli perché c’è chi vuol cambiare solo il suo conto in banca.
Dobbiamo prima cambiare il nostro stile di vita, il nostro approccio verso le informazioni e le pubblicità che ci investono, e recepire il mondo non come un pianeta sul quale correre e consumare terreno, ma come un paesaggio da ponderare e proteggere. Ricordandoci anche che non a tutti gli esseri umani piace correre, perciò lasciarli indietro, come del resto sta accadendo, è una enorme, profonda discriminazione. “Il mondo è bello perché è vario”, ma dobbiamo anche difenderle e rispettarle queste varietà.

A questo proposito rimando la riflessione a questo articolo.

Diventare famosi


«La mia mamma insegna in una scuola elementare», ha dichiarato Corinne Bailey Rae in una intervista, «e quando chiede a un bambino cosa vuole fare da grande, le risponde: “Diventare famoso!”. Allora lei chiede perché, e lui risponde “Boh, voglio solo diventare famoso”». In quei sogni «essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere sbandierati sulla prima pagina di migliaia di riviste e su milioni schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone…

Germaine Greer:
“La vita non è fatta solo di media, ma quasi”.