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Siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere


A tutti coloro che non perdono mai occasione di schierarsi con le unghie e con i denti, e nemmeno quella di tacere.

Non è mai stato facile per nussuno fare l’educatore. Bisognerebbe andare a scavare fino alla settima generazione di ognuno per capire di chi è la colpa. Un ragazzo fa una rapina, e allora la colpa è dei genitori che non sono stati in grado di educarlo, e per lo stesso principio a loro volta hanno avuto padri e madri che li trascuravano, che di conseguenza hanno avuto la stessa sfortuna, perché altrimenti i loro figli non avrebbero trasmesso ai discendenti le loro lacune. E così via, fino alla preistoria.

Comprendere che i mali della nostra società arrivano da lontano è fondamentale, ma circoscrivere alle singole famiglie le colpe di un degrado diffuso è profondamente insufficiente come riflessione. E allora mi chiedo perché dovrebbero esistere uno Stato, una Costituzione, delle Leggi, un Sistema Formativo? A cosa dovrebbe servire una Istituzione del genere se poi, alla fine, la colpa del degrado è da imputarsi sempre agli individui e mai alla debolezza del Sistema nella sua complessità?

Allora se uno Stato schiacciasse dalle tasse il proprio popolo verrebbe facile pensare che quel popolo, pur di non farsi schiacciare, evaderà le tasse creando le basi per la corruzione. Il concetto è che se i reati e il degrado aumentano può solo significare che lo Stato non è in grado di funzionare come dovrebbe. Non è in grado di educare il proprio popolo.

Scaricare la colpa sul singolo individuo (che pure ha colpe, ma non lui soltanto), e concentrare l’attenzione giudicando la singola azione significa sollevare di ogni responsabilità un Sistema che avrebbe dovuto per primo evitare l’evolversi del degrado, che si manifesta soprattutto attraverso episodi come quelli che la cronaca racconta ogni giorno.

Siamo tutti bravi dare giudizi, ma siamo meno bravi in un’infinita di altra roba. Soprattutto siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere.

C’era una volta l’umanità… (Seconda parte, con “obbligo di fermata”)


Oggi, grazie a internet, quel vuoto che ci assorbe quando siamo in solitudine, può essere ignorato o dissimulato; il dolore dell’assenza può essere quanto meno sedato. Se vogliamo compagnia non dobbiamo far altro che accendere i nostri schermi elettronici, non più varcare porte di legno. Oggi le porte sono “d’accesso“, digitali, analogiche, impalpabili, ideali, e ci permettono di sfuggire da quella tormentata solitudine che ancestralmente ci appartiene. Alcuni considerano questo nuovo tipo di rapporto un apprezzabile passo in avanti rispetto a quelli più “tradizionali” di tipo faccia-a-faccia, e sono proprio le nuove generazioni, che si trovano gettati-nel-mondo delle “connessioni virtuali“, ad apprezzarlo di più. Queste (ma non solo queste), non avendo mai appreso (fondamentalmente) le modalità che le interazioni faccia-a-faccia richiedono, avvertono e subiscono maggiormente – inconsapevolmente – la rivoluzione avvenuta nella sfera dei rapporti umani, ma al contempo accolgono con molto entusiasmo gli aspetti negativi che offrono le “connessioni virtuali”.

Infatti, Facebook, Twitter, Instagram, whatsapp, e gli altri social più gettonati, offrono quanto di meglio si possa desiderare, secondo coloro che provano un disperato bisogno di eludere la solitudine, ovvero secondo coloro che hanno bisogno di rapporti umani ma che hanno obliato il “come” e il “dove” cercarli. Molto spesso, di fatto, capita di sentirci a disagio, fuori luogo e infelici in compagnia, ma sono sentimenti che, là dove suscitassero una riflessione, trovano un “obbligo di fermata” in prossimità delle chat e dei social che il mondo virtuale offre. Così disimpariamo a dialogare con noi stessi per cercare di sentire o quantomeno intuire le ragioni del nostro disagio.

Non c’è più alcun bisogno di rimanere ancora da soli: in qualsiasi momento (ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana) basta premere un tasto per entrare in contatto con una vastità di individui soli come noi. Nel mondo virtuale nessuno si allontana mai e tutti sembrano sempre a disposizione. Inoltre, questi siti permettono di contattare gli altri senza doverci necessariamente introdurre in uno scambio che ci esporrebbe ad una conversazione poco gradita. I contatti possono essere sospesi o troncati non appena la comunicazione prende un verso sgradito; quindi non si corrono rischi, e non c’è neanche bisogno di cercare scuse o pretesti, o di mentire: basta un tocco delicato col dito, completamente protetto dallo schermo e indolore.

La minaccia di rimanere soli non sussiste più, e il rischio di doversi sottomettere al volere del prossimo, compiere sacrifici o compromessi, o fare qualcosa che non vogliamo soltanto perché altri lo desiderano, è scongiurato. E tutto ciò è possibile stando semplicemente seduti in una stanza, vuota ma affollata al contempo di persone, oppure mentre gironzoliamo in un centro commerciale o per strada, circondati da amici e passanti: in qualsiasi momento abbiamo la possibilità di “assentarci” per rimanere “da soli” e far capire a chi ci è accanto che intendiamo interrompere i contatti. Possiamo estraniarci dalla folla componendo un messaggio, entrando in un social, per comunicare con chi è “fisicamente assente” e quindi alienarci dal mondo reale che ci circonda.

Ecco, questa “alienazione” ricorrente è ciò di cui dovremmo avere maggior paura. Ma più di ogni altra cosa dovrebbe farci riflettere seriamente sull’eventualità di rimanere privi di questi strumenti di connessione virtuale. Proviamo un attimo ad immaginare seriamente come potremmo sentirci se di punto in bianco tutte le connessioni venissero interrotte, oppure, per chi come me ha abbastanza anni da ricordarlo, proviamo a tornare indietro di venti o trent’anni: ci sentiamo più, o meno umani?

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