Archivi tag: guerra

Spirito di contraddizione


La nostra è un’esistenza che contraddice se stessa, in preda all’ansia da prestazione, in perpetua aspettativa di un’occasione da non perdere, fra le infinite che il Paese delle Meraviglie ci destina.Aspettiamo di svegliarci per sognare e di sognare per vivere il mondo reale, che ci sia data la caccia per nasconderci o combattere, che il mondo ci si riversi contro per reagire alle sue ingiustizie, di soffrire per non dover soffrire più, di essere felici per ignorare le altrui sofferenze, di avere fede, quando in verità siamo tutti atei, che l’ambiente si risani, quando poi siamo i primi a rovinarlo, che la società torni ad essere una comunità, quando invece ognuno nei fatti pensa per sé. Amiamo fare la guerra per avere pace, fare beneficenza a patto che nessuno bussi alle nostre porte, e contemplare in solitudine paesaggi deserti non per sentirci parte di un tutto sterminato, ma perché intimamente non sopportiamo l’idea di condividerli. Non amiamo essere considerati razzisti, giacché gli esseri umani son tutti uguali: davanti alla Legge, alle Tasse, alla Dignità, alle Necessità, all’Esistenza, purché i figli dell’amata Patria abbiano la precedenza di fronte alle indigenze. Parliamo tutti d’amore, ma solo perché tutti ci odiamo. Ti amo, anzi no: ti odio. Non amiamo la polvere, la sporcizia, l’incuria e privilegiamo le cure alternative, perciò puliamo e lucidiamo, verniciamo e inceriamo, disinfettiamo e depuriamo, ma gli spazi in comune sono discariche a cielo aperto, assumiamo farmaci attraverso il cibo, ci imbottiamo di antidepressivi, antinfiammatori, analgesici e integratori dietetici. Non ci consideriamo superiori, però bisogna ammettere che da lassù c’è una vista migliore. Facciamo tutto alla luce del sole, non abbiamo bisogno di nasconderci, tuttavia la nostra privacy è sacra, salvo poi esporla sulla bacheca pubblica di un social, giacché sappiamo ben distinguere la vita reale da quella virtuale… Viviamo alla giornata, poiché il Futuro è un’incognita: nella vita, è cosa arcinota, non si può mai sapere… Però speriamo tutti in un futuro migliore, perché la speranza, quella no, non va mai perduta. Ma al tempo stesso il Destino va costruito, creato, agevolato, sollecitato, e allora siamo noi i Padroni del Nostro Destino, pur essendo l’unico elemento sul quale sappiamo di non esercitare alcun potere… anzi sì, perché sono le occasioni che cerchiamo e rincorriamo con ansia a costituirlo; anzi no, perché il futuro è un’incognita: una disgrazia, un intoppo inaspettato, un ostacolo non segnalato sul cammino e finisce tutto, pertanto bisogna vivere alla giornata; anzi sì, perché “volere è potere”; anzi no, perché chi s’accontenta gode; anzi sì, perché nella vita bisogna rischiare e aspirare sempre a qualcosa di più. Insomma, chi fa da sé fa per tre, ma insieme è meglio, però da soli lo è ancora di più, che sennò poi si deve tener conto anche delle esigenze degli altri… Però la solidarietà è cosa buona; anzi no, che poi se gli dai un dito si prendono tutto il braccio.

Oggi piove, anzi no, o forse sì, mah…, a dire il vero non saprei… Chi guarda il cielo e poi mi fa sapere?

Emergenza immigrati: smettiamola di intervenire sugli effetti e agiamo sulle cause


Capisco la rabbia e il significato di quel che si vuole esprimere quando affermiamo che “gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi”, ma detta così è fuorviante, ed è una forma razzista di esprimersi, poiché al sostantivo “immigrato” è stato attribuito nel tempo un significato dispregiativo giacché sovente associato a termini come “rubare”, “violenza”, e “lavoro”, “casa” e “sussidi”, ossia a quei costituenti essenziali in una società come la nostra.

Di fatto, quando un microfono si avvicina a un qualsiasi cittadino per chiedergli cosa ne pensa degli immigrati, la risposta “mandata in onda” è prevalentemente la stessa:

«Gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi!» – aggiungendo, generalmente – «Io non sono razzista, ma non è giusto che si dia aiuto prima a loro mentre noi italiani veniamo lasciati per ultimi. Che rimangano a casa loro!».

Attraverso questa forma di informazione manipolatoria, deviante, nell’opinione pubblica viene a radicarsi un sentimento di astio, d’invidia nei confronti di chi “viene nel nostro paese a privarci dei nostri diritti”. Allora siamo esortati a propendere verso chi promette di liberarci dal “male che ci invade” e “ci toglie risorse vitali”. Purtroppo è tutto sbagliato. Più propriamente, sono le politiche economiche internazionali (dettate dalle multinazionali), lo sfruttamento selvaggio delle risorse, a costringere queste persone ad abbandonare i loro paesi d’origine, massacrati da guerre che hanno lo scopo prevalente di aggiudicarsi o difendere tali risorse. Gli immigrati sono in cerca di un riparo da tutto questo, dal momento che non hanno altra possibilità che scegliere fra vivere la tortura della schiavitù, oppure la morte. Non portano con sé ambizioni di conquista, ma gridi dilaniati in cerca d’aiuto. L’aiuto che possiamo dar loro, se vogliamo davvero aiutare anche noi stessi e fare in modo che questo caos termini, è quello di comprendere a fondo i motivi per i quali sono costretti a fuggire.
Sono le politiche economiche a togliere lavoro, case e sussidi, a tutti, in Italia come in Europa, e in tutto il mondo “occidentalizzato” nel quale è stato esportato (e si sta esportando) questo modello economico-sociale.
Va compreso che un essere umano che scappa da una guerra è ben più disposto ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione salariale, pur di sopravvivere. Ciò contribuisce enormemente ad abbassare i costi di produzione, a ridurre i diritti umani di ognuno di noi, a far aumentare le disuguaglianze sociali e a diminuire il potere d’acquisto nel suo complesso.

Il sostantivo “immigrato”, diventato ormai un’appellativo dispregiativo, non dovrebbe neppure essere preso in considerazione quando vogliamo esprimere la nostra contrarietà a una situazione complessa e drammatica come quella che stiamo vivendo. Stiamo parlando di esseri umani come noi, né più e né meno.
Se pensiamo di risolvere i problemi che ci sovrastano, innalzare muri per non vedere né sentire, né sapere, cosa accade al di là, non risolve niente. Dobbiamo comprendere che i problemi nell’antartico riguardano e condizionano anche l’artico e viceversa. È il modello sociale consumistico nel quale viviamo, ad averci trascinati in questo disordine intellettivo, e che sempre più ci impedisce di razionalizzare il mondo che ci circonda.
Chi promette di “scacciare via gli immigrati”, lo fa sfruttando la nostra ignoranza rispetto a un problema ben più ampio, profondo e complesso. E non sarà un semplice muro che ci esonererà dall’affrontarlo. Il compito di una sana politica dovrebbe esser quello di interpretare nel modo giusto la rabbia della popolazione, anziché cavalcarla per raccogliere voti. Una popolazione che però è composta anche da queste povere persone in cerca di sopravvivenza per i motivi suddetti. Perché il popolo è colui che abita la Terra, una Terra che non ha più confini né identità culturale a causa del capitalismo selvaggio, alle politiche neoliberiste, non a causa di chi è in fuga da esse. Dobbiamo smetterla di giudicare gli effetti e intervenire su di essi, e agire finalmente sulle cause. Ecco poi dove si arriva.

Integrazione: siamo all’Era glaciale dei sentimenti


Viaggiamo, con la mente aperta alla ricerca di qualcosa di diverso, di luoghi diversi, di culture diverse, di facce diverse, di suoni diversi, di colori e odori diversi, per scappare dalla frenetica quotidianità cui siamo costretti, ma quando è il diverso a raggiungere la nostra “terra privata”, non siamo pronti né disposti ad accettarlo, poiché istruiti a decidere noi dove e quando incontrarlo, anche se coviamo spesso in silenzio un’altra vita, un nuovo inizio in terre meno deliranti. E allora dal rifiuto all’emarginazione del diverso è un passo, e ne basta un altro affinché da quest’ultima si elaborino i nostri spazi come terreni di battaglia sui quali combattere per assicurarsi la supremazia esistenziale, in un mondo proclamato sempre più angusto.

Capita inoltre che chi non ha viaggiato mai non sia preparato ad accettare il diverso, perché sperimentato soltanto attraverso i filtri di un documentario (anche se viaggiare non implica di per sé sensibilità, disponibilità, espansività, dato che sempre più frequentemente ci releghiamo in spazi dedicati al turista – specie per motivi di sicurezza – che a sua volta richiede servizi standardizzati), e lo considera quindi come una minaccia imminente, che priva di risorse – paventate insufficienti – la “nostra terra”.
Le politiche d’integrazione multiculturale poco sono prese in considerazione dai governi occidentali, ed è principalmente a causa della loro carenza che il diverso fatica ad essere compreso e accettato. Al contrario, perfettamente integrata nel tessuto sociale, nell’immaginario collettivo dei popoli occidentali, è la dottrina del PIL.

I governi occidentali infatti si spendono corruttivamente affinché beni e servizi transitino liberamente da una terra all’altra e siano ben presenti nelle nostre case, e ha poca importanza se è lo sfruttamento utilizzato per produrli a generare l’esodo di massa cui noi tutti stiamo assistendo. Poco spendono invece per insegnare il degrado sociale e culturale creato per inseguire il profitto, indirizzando furbescamente il sentimento collettivo verso dispotismi, egoismi, diffidenze, invidia, così chi è costretto a scappare da quelle realtà si ritrova a sbattere ancora contro la stessa insensibilità.
Perché è grazie ai potenti mezzi oggi a disposizione se siamo capaci di credere, come ingenui fanciulli incantati dalle favole, nella reale esistenza di Babbo Natale (un Salvini qualunque) e dell’Uomo Nero (un immigrato qualsiasi). E allora ti capita sovente di ascoltare in giro ragazzini che per offendersi si scambiano epiteti come «sei un marocchino», e ti accorgi di quanti passi è retrocessa l’umanità, e di quanti invece è avanzata la spietatezza.
Viviamo così nell’Era glaciale dei sentimenti, nel pieno di una catastrofe, e questo mondo somiglia sempre più a un mondo privo di umanità, e di comprensione, pietà, accoglienza, sostituita da marionette senz’anima, né calore né ombra. E non è un caso che in numero sempre maggiore l’uomo venga sostituito nei suoi compiti dalle macchine, come non lo è il fatto che ad un aumento del degrado corrisponda una diminuzione della coscienza.
Nessuno ha più responsabilità in questo carosello di scaricabarili, dove il colpevole si è fatto invisibile, attore di questa tragicommedia che è la vita, in cui svolge le sue attività solo su comando, e dove non è concesso, poiché non ne ha facoltà, domandare, avere dubbi, per non destabilizzare il fragile equilibrio economico da cui dipende la sua esistenza. L’oppressione della libertà di pensiero, della consapevolezza di un mondo alienato, dà origine a tensioni fra popoli che nulla hanno di opposto, e che anzi hanno in comune tutti la stessa oppressione e la stessa incolpevolezza. L’inciviltà verso la quale siamo diretti reprimerà quel po’ di empatia che ancora sopravvive educandoci a considerare la “nostra razza” superiore, e come l’unica degna di occupare terre. Ebbene sarà sempre guerra, una guerra stabilita dalla favola del PIL. Nel frattempo, quanto più il mercato è libero, tanto meno ci sentiamo sicuri. Ma è solo un caso.

“Combattere per la pace è come fare l’amore per la verginità”


Nella quotidiana e perpetua discussione mediatica, ora su quel provvedimento ora sull’altro, quel che non manca mai sono quegli elementi che rendono la vita politica del Paese ignobile, stantia, ripugnante, oltre che socialmente molesta, irritante, frustrante. Ogni giorno la classe dirigente finge di chiedersi quali sono i motivi che hanno trascinato i cittadini verso una disaffezione cronica nei confronti della realtà sociale e politica senza mai, naturalmente, provare a darsi una risposta definitiva e con questa, da questa, conseguentemente ripartire daccapo rimuovendoli per far sì che le proteste, espresse più che chiaramente col non-voto, siano finalmente ascoltate. Invece, l’imbroglio delle riforme in atto volute da chi istruisce l’abile racconta-novelle premier italiano, degno successore di Berlusconi, viene spacciato ingegnosamente come la volontà della maggioranza assoluta del popolo italiano che, va ricordato, si tratta invece del 40,8% di elettori che rappresentano un esiguo 23,7% della popolazione elettorale con diritto di voto. Un 23,7% dal quale trarre prepotentemente legittimità per appropriarsi indebitamente dei bisogni e delle richieste angosciate di coloro che non ce la fanno più a sopportare questo ridicolo e deleterio gioco psicologico delle parti, dove a chi dice il bianco viene contrapposto chi afferma il nero, con un rimpallo di responsabilità infinito, senza mai arrivare a niente, senza mai risolvere niente, se non a garantire l’inattaccabilità e la prosecuzione indisturbata degli affari e delle ambizioni dei singoli attori che prendono parte alla commedia drammatica che è diventata la politica e la società tutta.

Riforme che vengono confezionate e presentate al popolo consumatore di slogan come la più passionale delle rivoluzioni in atto dal dopoguerra ad oggi.

Perché le riforme si fanno in Tv e, si badi bene, non solo negli ormai classici e sempre più avvalorati talk-show, ma anche nelle fiction, nel cinema, nei social, nei blog, nei giornaletti di gossip, nel calcio, nei romanzi, nelle manifestazioni di ogni tipo, e in tutto il possibile da spremere e sfruttare come palcoscenico utile a narrare una riforma, non in atto, ma narrata, appunto. Solo narrata. A benedire la fedeltà, nonostante tutto, dei restanti (pochi) milioni di elettori del partito (e non solo quelli) che pretende di essere l’unico erede delle speranze rivoluzionarie.

Assistiamo così inermi alla cannibalizzazione degli spazi mediatici, e conseguentemente pubblici, e a un protagonismo che purtroppo ha dei precedenti e avrà dei seguiti sempre più esaltati ed esaltanti. E come in ogni circostanza, fatta diventare volutamente di grande impatto mediatico affinché s’intrattengano le attenzioni del pubblico, si deve offrire a quest’ultimo — che subisce — un capro espiatorio, che nella narrazione corrente è incarnato nel “gufo”, nel “pessimista”, nel “disfattista”, che viene incastrato come fosse lui l’assassino, cosicché ci si possa prendere il merito d’aver ispirato ottimismo e fiducia; e condannare nello stesso tempo implicitamente tutti coloro che hanno pensato si potesse trovarlo “finalmente” in un regime politico esperto solo nel salvaguardare interessi che non appartengono certo alla collettività. Un colpevole, o presunto tale, dunque, che anche se non fosse lui lo sarà comunque a vita nell’immaginario collettivo.

Perché ormai è così, dai “piani alti”, di qualunque settore si tratti, basta dire insistentemente che si sta facendo qualcosa affinché questo diventi virale, quindi reale, effettivo, e se qualcuno provasse a dire che così non è, basterà semplicemente ribadire che così invece è, e il gioco del contraddittorio continua indefinitamente, sulla pelle di coloro che di questo genere di intrattenimento social-mediatico, sponsorizzato e pagato profumatamente dalle aziende che nel frattempo devono vendere i loro prodotti di consumo, ne hanno piene le scatole. E che ne hanno piene le scatole lo esprimono da anni non esercitando il diritto di voto, poiché sa quanto sia diventato inutile, infruttuoso, esercitarlo, forte dei reiterati scandali e corruzioni che ogni giorno la magistratura scoperchia in ogni settore e anfratto della società, ma soprattutto ai piani alti, quelli dai quali si “amministra” il Paese.

Nel frattempo, mentre gli animali da palcoscenico, negli interminabili dibattiti, discutono su come affrontare i problemi causati dalla crisi, ma non su quelli che hanno causato quest’ultima, la guerra bussa alle nostre porte.

E sembra essere proprio questo il futuro che ci attende: mentre fuori, la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, ovvero le socializzazioni, le relazioni, le esperienze, le comunità, eccetera, si va sfaldando sempre più, e a noi non resterà altro da fare che aggrapparsi alla costruzione virtuale di essa, le potenze mondiali si stanno organizzando per guerreggiare contro il terrorismo, per l’ennesima volta. Terrorismo che oggi si chiama Isis, o per “i più ammaestrati” Islam, ieri Bin Laden, l’altro ieri di Saddam, e che è figlio dell’egemonia occidentale, del nostro modello di sviluppo economico, che invade, sfrutta e distrugge, ma ignora quando c’è da soccorrere e ricostruire dopo aver raso al suolo ed essersi accaparrato le risorse. Conosciamo i moventi della guerra, così come conosciamo le giustificazioni utilizzate per promuoverla. Ne abbiamo esperienza. Già più di tremila anni fa, nei testi sanscriti del 1200 a.C., il termine utilizzato per indicare la guerra, युद्ध yuddha, significava “desiderio di possedere più mucche”, e più recentemente le due guerre mondiali dovrebbero essere un esempio tanto eclatante da non poter lasciare spazio all’immaginazione circa i disagi post-bellici che costituiscono il terreno fertile per le ideologie estreme dei regimi totalitari. Eppure regolarmente, metodicamente, a vincere è lo scenario vagheggiato dell’invasione dei nostri territori, della nostra libertà, della nostra sicurezza, che solletica la nostra paura, che a sua volta ci convince ad accettare l’attacco armato per difendere tutto ciò.

La politica, la democrazia, che un tempo credevamo essere soluzioni, oggi si rivelano inefficaci, trappole, sabbie mobili nelle quali l’umanità organizzata sta sprofondando. E così guerre, barbarie, razzismo e follia sono il risultato dei fallimenti delle operazioni pseudo-democratiche che perseveriamo, il vero avanzo di questo inestricabile groviglio. Troppi si ostinano a pensare che la fuga da paesi in guerra sia un segno di rinuncia e di codardia; al contrario, dovrebbe suggerire l’esperienza, essa è l’impossibilità di reazione nei confronti d’un sistema troppo grande e troppo forte da poter essere combattuto, contrastato, controllato. E a tutto questo cumulo di menzogne, oggi si aggiunge l’incubo di un’imminente invasione dei terroristi a bordo dei barconi carichi di profughi. E allora facciamo l’ennesima guerra, che darà i natali all’ennesimo nemico che dovrà essere combattuto per l’ennesima volta, non prima, s’intende, d’aver guadagnato l’ennesimo bel gruzzoletto vendendogli l’ennesimo consistente arsenale bellico.

Il nostro modello di sviluppo economico-sociale, il nostro modello democratico, non garantisce a noi, che facciamo parte di questa porzione di mondo, il giusto progresso verso una vita dignitosa, ma anzi sfrutta e alimenta l’ignoranza attraverso tagli alla Cultura, all’Istruzione, e mettendo altresì in atto campagne mediatiche mascherate sotto il nome di “informazione”, ma che nei fatti fornisce un surplus di notizie contrastanti, contraddittorie fra loro, celando in questo modo, dietro la facciata apparentemente democratica, una squallida, totale e assoluta disinformazione. La trasmissione di notizie di oggi assomiglia sempre più a un perpetuo funerale che celebra la morte dell’individualità, della razionalità, e che sembra avere il solo fine di alimentare ignoranze e inconsapevolezza. È l’eccesso delle ragioni, infatti, ad uccidere la ragione stessa. Andiamo a combattere una guerra fuori, quando l’unica a dover esser combattuta è qui e si chiama “ignoranza”. Non siamo in grado noi di conquistare dignità, come possiamo pensare di esportarla altrove, e di farlo per giunta con dignità?

“Bisogna avere più cervello e meno cuore…”, perché siam bravi tutti a parole


Riprendendo il filo da dove avevo lasciato, come già detto, finita la Seconda Guerra mondiale dopo la Liberazione rientrarono nelle case, 20 mesi più tardi, 200.000 partigiani e circa 500.000 italiani nascosti o fuggiti all’estero nonché 1 milione e 360.000 di prigionieri sparsi in tutto il mondo, senza contare quelli che non sono mai più tornati, fondando e radicando comunità in ogni angolo del pianeta. Inevitabilmente fu un esodo di massa, che però non riusciamo neppure a paragonare con quello che sta avvenendo oggi nei paesi schiacciati dalle guerre. Perché? Eppure le affinità ci sono tutte: dittatori che opprimono e schiavizzano le popolazioni ai loro voleri per soddisfare una personalissima concezione del mondo che si erge sulla supremazia come pure sugli interessi economici. Non c’è la “razza ariana” a fare da capro espiatorio, ma c’è quel comune impulso avido a controllare e annullare gli Altri, considerati unicamente come strumenti per raggiungere i propri scopi, atti ad affermare un vantaggio competitivo in un mondo che fa del dominio e della competizione le sue ragioni d’esistenza.

Quando le Guerre si conclusero, l’Europa fu liberata, ma non finirono i disagi e le violenze da un giorno all’altro. Era tutto distrutto; c’era tutto da ricostruire. La produzione industriale italiana era bassissima: se 100 era quella del 1938, nel 1942 scese a 89, nel 1943 a 69, e alla fine della guerra era piombata a 29. C’era una diffusa indigenza: con la tessera alimentare si arrivava ad appena 900 calorie al giorno, gli altri saltavano i pasti o erano costretti trovare il modo di arrangiarsi. Iniziava in questo clima “la grande avventura della ricostruzione”, non solo materiale ed economica, ma anche dei valori, spirituale. Possiamo oggi dire di esserci riusciti?

Prendiamo il Sud. Era la parte del paese che più aveva risentito dalla guerra. Oltre ai danni provocati dalle bombe, l’economia era al tracollo, le regioni del sud si trovavano in serie difficoltà, isolate dal resto del paese, e questo non aiutava la popolazione ad avere fiducia.
Nel ’50, tra disagi e rivolte popolari (contro i latifondisti) generate dopo varata l’inefficace riforma agraria, meglio nota come Riforma Segni, fu creata la Cassa del Mezzogiorno, con l’intento di istituire un’ente autonomo in grado di garantire la realizzazione di strutture e attività economiche nel meridione, ma che finì per trasformarsi in un ente politicizzato che dipendeva intrinsecamente dalle direttive delle diverse coalizioni politiche che si alternavano al governo. Così, invece di incentivare la crescita delle regioni del Sud, contribuì a incrementare il mercato per le imprese del Nord favorendo la crescita del reddito e dell’occupazione nelle zone meno disastrate. Quanto è cambiato da allora?

L’Italia dunque, da paese aggressore e oppressore, riscattatasi alla fine della guerra, divenne nuovamente preda dell’avidità istituitasi attraverso interessi economico-politico-strategici. A chi poteva permetterselo non rimaneva che emigrare, non solo verso l’Italia settentrionale, ma anche verso la Svizzera, la Germania, il Canada, le americhe, l’Australia, eccetera. Gli italiani sono numerosi e ovunque nel mondo.
È inoltre doveroso ricordare, per comprendere le allora condizioni, che insieme alla fame e alla grande miseria, alla fine della guerra furono molte le donne costrette a prostituirsi, ed erano costretti a vendersi per 2 o 3 dollari (300 lire) anche ragazzini e ragazzine di 10 anni, che venivano valutati a palpeggi prima di essere sceglierli. Costava molto di più un chilo di carne che una ragazza o un ragazzino.

C’era una dignità da ricostruire ma l’indigenza, le ruberie delle amministrazioni e le discriminazioni rendevano tutto più difficile; certo è che le emigrazioni non si arrestavano.

Tuttavia, il sentimento di solidarietà e umanità non si estinse, ma era più diffuso fra gli italiani emigrati all’estero che non fra coloro rimasti sul territorio. Nella storia dell’emigrazione italiana hanno prevalso a lungo sentimenti di appartenenza locale, generati dalla sostanziale assenza dello Stato nei confronti dei propri emigranti ma anche di quella dello stato che li ospitava. Più o meno è quanto accade fra gli immigrati stranieri presenti in Italia e altrove: escluse le necessarie cure di primo soccorso, di fatto gli stranieri fuggiti dalle guerre e richiedenti aiuto sono prevalentemente lasciati a se stessi, senza alcuna struttura che si occupi minimamente della loro integrazione (le strutture di accoglienza sono sempre più simili a lager). Accade allora che pur di sopravvivere c’è chi è costretto a delinquere, chi a mendicare, chi a fare lo schiavo di qualche padroncino in cambio di un pasto, chi cerca in tutti i modi di raggiungere parenti sparsi in Europa, ma ognuno di loro è sostanzialmente lasciato allo sbando. Per fare un paradosso (neanche tanto), in Brasile, che ospiterà i prossimi Mondiali di calcio, le prostitute (la prostituzione è legale in Brasile) stanno recandosi in massa a studiare l’inglese (gratuitamente nelle strutture preposte sul territorio), in modo tale da essere pronte a fronteggiare l’invasione dei turisti provenienti da ogni parte del globo per seguire la competizione (ma anche per riuscire a comunicare meglio evitando di trovarsi in situazioni pericolose – che certo non mancheranno lo stesso, ma non per questo debbono essere abbandonate a se stesse). I Mondiali di calcio non sono un evento che si può interrompere, come non si può reprimere la prostituzione, come pure gli esodi di massa generati dalle guerre, e giacché non c’è la volontà di fermare nessuna di queste “contingenze”, l’unica via intelligentemente, razionalmente e umanamente praticabile è quella dell’integrazione: predisporre servizi di assistenza e tutela sul piano culturale ed educativo è sempre meglio che reprimere. La consapevolizzazione e l’istruzione hanno sempre aiutato la gestione di situazioni che altrimenti sarebbero lasciate totalmente in mano alla criminalità, come del resto avviene quando le istituzioni vengono a mancare. Basta vedere le condizioni in cui versa l’Italia.

Ad ogni modo, fosse per me i mondiali di calcio non si farebbero, almeno non in mezzo a sprechi colossali che portano solo violenza e dividono il popolo, ma non ho il potere di cancellarli, e in ogni caso il calcio è uno sport che piace, evidentemente così com’è; per alcuni la prostituzione è da condannare senza appello, per altri andrebbe legalizzata, ma nessuno ha il potere di eliminare le prostitute, anche se i fatti di cronaca a volte fanno supporre il contrario; e così vale per la guerra: per alcuni va fatta, è un’esigenza, un’urgenza, una fatalità (?), mentre per altri è inservibile, corrotta, indecente, disumana, immonda, ma nessuno — tantomeno noi italiani — può arrogarsi del potere di decidere “chi” e “se” deve essere aiutato quando da essa scappa. Gli animali in moltissimi casi hanno dimostrato di essere migliori di noi. Ma il punto centrale è che i fattori più importanti, il “come” e il “perché”, non sfiorano alcuno, introiettati di paura come siamo che ci portino via le risorse vitali da un momento all’altro. La stessa paura verso gli immigrati italiani ce l’avevano in molti, ma i governi li facevano entrare poiché servivano a sviluppare le economie infrastrutturali dei paesi stranieri che li accoglievano, non certo per una questione di solidarietà umana, che esisteva solo endemicamente per le ragioni sopra dette. Infatti le condizioni lavorative erano paragonabili alla quelle della schiavitù. L’emarginazione sociale gli italiani all’estero l’hanno sperimentata, e chi l’ha vissuta sa quanto sia da condannare, ma chi si atteggia come coloro che quando non ci sono problemi sono tutti fratelli e allora è giusto darsi una mano, però se ce ne sono “sparisci dalla mia vista”, è ancora più deprecabile, specie se il “sermone” arriva da chi si diverte a elogiare figure come quella di Gandhi, incarnazione della non-violenza e dei Diritti umani, o di Gino Strada, il fondatore di Emergency, l’associazione umanitaria fatta da volontari che si occupa di portare assistenza sanitaria nei paesi distrutti dalle guerre, e che ogni giorno rischiano la loro vita per salvarne altre, innocenti.

La responsabilità che abbiamo nel ricordare certi momenti storici, non si deve limitare ai soli confini nazionali o familiari, ma si deve estendere in tutto quel senso di solidarietà che dobbiamo coltivare per impedire che appassisca definitivamente.

Pur essendo inconsapevoli abbiamo comunque delle responsabilità.

Ci consideriamo in grado di decidere chi deve morire e chi invece vivere, giustificandoci con argomenti impraticabili — ma efficaci — come la mancanza di risorsein un mondo che produce tre volte tanto quello che consuma, così tanto che sarebbe più che abbastanza per tutti. Non è assecondando queste politiche che si risolvono certe questioni sociali.

Quali sono stati dunque gli eventi e i comportamenti che hanno favorito la nascita del sentimento di paura che gran parte dei cittadini europei ha nei confronti di queste povere persone incolpevoli? Sappiamo ormai perché si fanno le guerre, e allora perché non riusciamo ad andare oltre la propaganda mediatica capace solo di infondere odio, paura, persino invidia verso chi fugge da esse? È chiaro che la realtà mediatica prevale su quella effettiva, ma la storia deve pur averci insegnato qualcosa. Già alla fine dell’800 le comunità italiane all’estero erano importanti, proviamo allora a immaginare come avrebbero potuto sentirsi i nostri avi difronte a un eventuale respingimento: sarebbero stati costretti a rimanere in patria a subire le violenze e le ingiustizie, abbandonati a se stessi e ai loro problemi, senza ricevere il minimo aiuto da parte di nessuno. Se un bambino innocente ci tende una mano in cerca di aiuto è difficile girarsi dall’altra parte e far finta di niente, eppure è quello che vogliamo fare, che stiamo chiedendo di poter fare. Qualcuno ha dichiarato che per affrontare certi problemi “bisogna avere più cervello e meno cuore”… come se le due cose, a prescindere, non fossero capaci di esistere parallelamente in comune accordo, eppure gli esempi che dimostrano che se si ha la volontà possono coesistere tranquillamente ce ne sono e sono formidabili, autorevoli, come quelli su citati, anche se i loro lasciti oggi sembrano essere più in mano alle multinazionali che ne hanno fatto dei brand. È rispettoso nei loro confronti? E verso chi crede nei valori che hanno lasciato?

Così come quando c’era il fascismo il sentimento di rivalsa nazionalistica era ben amplificato dalla propaganda di regime, allo stesso modo il moderno regime mediatico instilla nelle menti più deboli e sottomesse un senso di egoismo distogliendo la loro attenzione dalle vere cause generatrici di tanto caos sociale e dai valori centrali che tengono insieme una società fatta di comunità che vivono l’una in simbiosi con l’altra. I sentimenti pseudo-anti-straniero e le misure di respingimento degli immigrati “nemici” che ci accingiamo ad avallare vanno contro ogni principio di convivenza fra i popoli per i quali dovremmo batterci pacificamente. L’unico terreno di guerra sul quale dobbiamo combattere contro le ingiustizie si trova nelle nostre menti e nei nostri cuori, in parti uguali. I Diritti Umani sono di tutti. Tutti. Non facciamoci condizionare dalla propaganda di regime. Chi detiene l’informazione sono gli stessi che hanno interesse a mantenere bassa la consapevolezza verso certe questioni poiché chiaramente li colpiscono da vicino. Chi ha pozzi di petrolio in Niger siede nei consigli di amministrazione dei più grandi conglomerati mediatici (questi sì con un gran senso di comunità), come ci siede chi è nel tessile, nel minerario, nel settore alimentare e via di seguito. Essere consapevoli del fatto che lo sfruttamento di tali risorse distrugge e inquina interi territori lasciando le popolazioni nell’indigenza che noi tutti siamo abituati a vedere solo in foto, come potrebbe farci scegliere le politiche di respingimento? Essere consapevoli del fatto che consumiamo più di quanto ne abbiamo necessità, come potrebbe farci pensare che le risorse non possono non bastare per tutti lasciando entrare chi ci chiede aiuto? Ancora una volta: sosteniamo di essere contro la vivisezione, gli stupri, la pedofilia, gli omicidi, i femminicidi, i genocidi, ma siamo pronti a girarci dall’altra parte davanti alla prova dei fatti. E questo dimostra quanto siamo bravi a parole. Solo a parole. Di atavico ci è stato espropriato tutto, in compenso abbiamo acquisito il linguaggio, la personalità, il carattere comunicativo e apprensivo dei media. Dovremmo esserne fieri? Le amministrazioni hanno sempre rubato, in particolare quelle italiane, ma non è questo un buon motivo per continuare ad essere i loro sottoposti inconsapevoli. Anzi, forse questo è il momento giusto per smettere.