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OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

NO, NON STA ANDANDO TUTTO BENE


Conte e Fedez

A proposito di Fedez, Ferragni e Conte, quello che secondo me non si è capito bene è il fatto che se il governo di una nazione sente il bisogno di interpellare personaggi come loro per raccomandare l’utilizzo della mascherina ai giovani può solo significare che siamo messi veramente male.

Gesti come questo servono in realtà a dare autorevolezza sociale a questi personaggi che, onestamente, non servono assolutamente a niente: sono l’emblema dell’inutilità. Non ho niente contro di loro, ma oggettivamente sono un esempio suffragato dal nulla, e questo nulla sconfinato da quel preciso momento è stato formalmente legittimato (o consacrato) a radicarsi e diffondersi sostituendo di fatto la cultura tradizionale degli uomini. Adesso possiamo dire che, essendo stati questi signori chiamati a divulgare il rispetto di normative in piena pandemia mondiale, tutto il nulla assoluto che realizzeranno sembrerà ancora più colmo che in passato, data l’importanza conquistata.

Uno Stato che ufficialmente affida il compito di educare la popolazione al senso civico ad un influencer e ad un cantante significa che prende atto che la scuola e tutti gli strumenti di cui storicamente si serviva per diffondere informazioni ed educazione non servono più a nulla. Inutile cercare di rafforzarli investendo affinché ci sia maggiore auterovelozza ed efficacia comunicativa attraverso questi strumenti, no, si cavalca e anzi si ratifica questo modello culturale completamente inutile.

I nostri figli ambiscono a fare i cantanti, rincorrono i “mi piace” e desiderano followers per realizzare il sogno di diventare influencer. Mentre noi ci domandiamo che fine hanno fatto i valori, qualcuno al posto nostro orienta l’attenzione delle nuove generazioni verso un modello sociale che desidera se stesso così com’è, privo del senso di appartenenza ad un mondo che poteva avere le potenzialità per diventare migliore, non attraverso i followers ma attraverso la formazione, la cultura millenaria di un pensiero critico che ha creato capolavori che si stanno dissolvendo sulle note di un inno alla spettacolarizzazione del vuoto lasciato dalla mancanza di esperienza di un popolo ormai abbandonato a se stesso.

Fedez e Ferragni sono i nuovi divulgatori del senso civico, del senso di responsabilità, del senso si appartenenza. Prendiamo atto del fallimento non solo di uno Stato, ma di un intero modello sociale al quale non rimane altro che cercare ispirazione all’interno di un contesto degradato e degradante nel quale sta affogando.

Ed è esattamente quello che sta (stanno) facendo nell’affrontare una pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo intero. Anziché rafforzare il complesso di elementi indispensabili a mantenere in piedi l’organizzazione sociale, punta a disgregarla sempre più compiendo scelte completamente fuori da ogni logica. A più contagiati equivangono più morti, pertanto oltre alle misure precauzionali c’era solo da intervenire potenziando le uniche strutture indispensabili in casi come questo: sanità e istruzione. Nulla di tutto questo è stato rafforzato. Nemmeno in una piccola significatica parte. E neppure le misure precauzionali sono state accettate da buona parte della popolazione dal momento che ormai lo Stato ha perduto ogni forma di autorevolezza nei confronti di cittadini ormai esausti e abbandonati sul baratro. E l’unica domanda che riesce a porsi, in tutto questo delirante nulla, è “quali influencer potrei consultare per diffondere il senso civico?

No, non sta andando tutto bene.

In fondo che ci frega? A Natale siamo tutti più buoni


L’amore, che è l’unico antidoto contro il narcisismo, il primo a lanciare allarmi quando c’è da demolire la falsità delle pretese alle quali cerchiamo di tenere aggrappata la nostra autostima, oggi impallidisce davanti all’esuberanza e all’eccitazione, ma anche all’ansia, spesso all’angoscia e alle frustrazioni che scaturiscono da un senso di inadeguatezza sempre più marcato, nei confronti di emozioni e impulsi primordiali sempre più indecifrabili, ma obbligati a manifestarsi a comando poiché fissati sul calendario. Ed è così che, in questo enorme vortice di partecipazioni prescritte, capita che si avverta il bisogno di raccogliere le idee per dar vita all’indignazione. E’ da quest’ultima che emerge la necessità di adoperarsi per dare (anzi ridare) “un senso al senso”.

L’amore appunto, declassato a sottoprodotto di quel che erano nostri più intimi e antichi sentimenti, è impiegato oggi come un’efficace espediente per commercializzare quella che somiglia sempre più a una fiera delle ostentazioni. Il boom elettronico, i favolosi profitti ammassati dalla vendita di strumenti capaci di obbedire a qualsivoglia volontà del padrone, offre un vasto assortimento dal quale attingere l’esperienza della meraviglia. E non ha rilevanza alcuna che sia essa artificiosa o autentica, simulata o sincera, purché sia in grado di accomunarci tutti, di regalarci quel senso di appartenenza cui tanto aspiriamo, più o meno dichiaratamente, più e meno consapevolmente. Perché è dalla solitudine prodotta dai nostri schermi portatili che nasce il nostro senso di aggregazione, non più, quindi, dalla solitudine esistenziale di natura amletica, o filosofica che dir si voglia. Non desideriamo avere dubbi: desideriamo e basta, e lo facciamo per decreto. Non ci interessa imparare ad amare, tanto meno porci domande: ci interessa l’esibizione dell’amore, affinché altri possano riconoscersi e riconoscerci, affinché noi ci riconosciamo in quella degli altri. Ma un senso di appartenenza filtrato, e in aggiunta provocato per decreto, potrà mai renderci consapevoli d’essere “qualcuno” e di far parte, di conseguenza, di “qualcun altro”? Se tutto muove e scivola sulla superficie ornamentale dell’esistenza, se rifiutiamo la comprensione, la consapevolezza e soprattutto l’esperienza, allora rifiutiamo l’amore.

Perché l’esibizione dell’amore, la costrizione a cui siamo implicitamente chiamati ad ubbidire per ragioni programmatiche e come già detto per supplire, o peggio ancora surrogare, a quel che è rimasto del nostro senso di appartenenza, è un’ostentazione fine a se stessa, che dietro al buonismo sentimentale di facciata nasconde in realtà inquietudini come agonismo, emulazione, insoddisfazioni, incomprensioni… che ci è permesso di lavar via in un determinato momento fissato sul calendario, compiendo determinati gesti fissati sugli schermi, dai quali sfilano infinite immagini che richiamano (si voglia o no, o lo si creda o meno) la nostra attenzione convincendoci ad entrare a far parte di “qualcuno filtrato”, e attraverso i quali facciamo gran parte delle esperienze della vita, e dunque dell’amore. Ora, è vero che il mondo è un mondo spietato, che sfrutta, inganna e mente, e che noi siamo la massima espressione di quest’inganno, di cui a volte ci adoperiamo per conoscere le cause, non per farvi fronte e ritrovare la verità dei nostri sogni, della nostra vita, del nostro senso di appartenenza… dell’amore; ma per adattarci e ingannare, e ingannarci, a nostra volta, perché in fondo che ci frega? A Natale siamo tutti più buoni.

L’autocelebrazione


L’autocelebrazione inganna l’autostima; è l’ammirazione verso il contenitore alienato dal contenuto. È il comportamento artificioso con cui il narcisismo esprime se stesso; è specchiarsi per guardarsi intorno agli occhi. È l’autoscatto degenerato in selfie. È la perversione del sé. È la convinzione di essere speciali emulando un mondo di replicanti. È pretendere il riconoscimento egemone della propria diversità escludendo l’uguaglianza; è rivendicare la propria diversità a svantaggio delle varietà. L’autocelebrazione non è analisi ma sintesi. È voler scrivere un capitolo di un libro che non si è letto. È ambire ad esser conosciuti, non a conoscere; è fare pubblicità a se stessi, è annuncio, propaganda, è la mercificazione dell’Io che diventa un articolo su uno scaffale: è il soggetto che diviene oggetto. L’autocelebrazione è in eterna competizione per aggiudicarsi il primo posto, perché arriva sempre al secondo.
“Nulla è più terribile dell’ignoranza attiva”.

Johann Wolfgang von Goethe

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Manifestazioni di dissenso: ecco perché, “grazie ai media”, sono ininfluenti


Ruberie, soprusi, discriminazioni, disuguaglianze e povertà sono in costante crescita in Italia e nel mondo, eppure il popolo sembra aver perso la capacità di ribellarsi, o quantomeno di manifestare disgusto verso una
classe dirigente sempre più incapace, attenta solo a salvaguardare i propri interessi personali e quelli di chi finanzia le loro perenni campagne elettorali. Il dio denaro, sempre lui, abbatte tutto e tutti, comprese le manifestazioni di protesta che hanno da sempre evidenziato il carattere umano, solidale e comunitario delle società nei momenti di maggior sofferenza. Ma da solo il denaro non basta. Bisogna disporre anche dei giusti strumenti (che il denaro ovviamente compra) in grado di corrompere e compromettere la struttura psicologia e percettiva degli eventi cui il popolo viene a conoscenza ogni giorno. Ecco allora che i mezzi di comunicazione di massa, compresi i nuovi media, svolgono un ruolo fondamentale a tal fine.

Un tempo l’uomo si riuniva attorno a un fuoco e più tardi a una tavola imbandita dove assieme con altri consumava i pasti discutendo degli accadimenti passati, quotidiani e di quelli futuri; oggi il fuoco non ha più quell’utilità e i pasti, nell’era dei “fast food”, vengono consumati in tutta fretta e dove capita, magari chiusi ognuno nella propria stanza davanti al proprio televisore sintonizzati sul proprio programma preferito. Si è soli, teoricamente in compagnia di altri individui soli come noi, tuttavia ciò non ha la prerogativa di renderci meno soli. Anzi.

La Tv in particolare, oltre ad essere una fabbrica di stereotipi e di spettacolo, ha la funzione primaria di dare al pubblico spettatore ciò che la fantasia riesce a produrre, ovverosia offre una valvola di sfogo fittizia, priva di reale consistenza capace di placare sul nascere ogni forma di espressione costituita individualmente. Con l’avvento dei talent-show ad esempio — a sostegno di quella che non è certo una teoria — il numero di persone sedotte da essi che aspirano a diventare ballerini, cantanti, attori, scrittori, eccetera, è aumentato smisuratamente. I nuovi media a tal proposito, grazie al prezioso contributo dei social network, amplificano, esaltano e sviluppano ancor di più tutto il materiale che la Tv produce — anche se in alcuni casi può verificarsi l’inverso ottenendo comunque lo stesso risultato —, interagendo fra loro come una protesi fa con chi la indossa.

“Diventare famosi!”, di fatto, è il feticcio cui gran parte della società delle apparenze ambisce. «Essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere i protagonisti delle prime pagine di migliaia di riviste ed essere presenti su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone.

La nostra fantasia produce empiricamente i suoi frutti, ovvero elabora desideri che gli giungono ai sensi attraverso l’esperienza dei fenomeni e degli accadimenti. E in un mondo, come afferma Germaine Greer, in cui “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, ciò che giunge ai sensi è accuratamente selezionato per essi dal mondo dei mass media.

L’aspirazione dell’umanità è sempre stata, utopisticamente, quella di raggiungere la “bellezza” della perfezione — o “la perfezione della bellezza” — e i modelli offerti dai media volgono dispoticamente verso quella che dal modello sociale dominante è spacciata per tale. Ma, come acutamente ci illumina Baudrillard, “la perfezione è sempre stata punita: la punizione della perfezione è la riproduzione”. Perfezione, pertanto, alla quale noi tutti siamo sottomessi indefessamente, cui noi tutti dobbiamo obbedire, sopportare e ambire di riprodurre, imitare per tentare di realizzare le nostre fantasie istigate dalla perfezione stessa dalla quale sono accerchiati.

Ci troviamo così di fronte a un’esibizione criminogena della perfezione, a una produzione di fantasie e aspirazioni bramose, ma l’elemento ancor più preoccupante è la convinzione che si insinua fraudolentemente negli individui, che è quella di fargli credere di star facendo qualcosa che in realtà non fanno; di essere qualcuno che in realtà non sono, e di possedere delle qualità che in realtà non hanno. Possiamo rilevare ciò registrando il tempo che trascorrono sui palcoscenici le miriadi di presunti nuovi talenti smerciati per tali al grande pubblico dalle case discografiche o dagli improbabili talent-scout, che appunto vendono persone come pane fresco, le loro facce, le loro voci, i loro corpi, il loro modo di (farsi) vestire, come fossero ognuno migliore dell’altro, proprio come un prodotto sullo scaffale di un supermercato sulla cui confezione campeggiano frasi come “il migliore in assoluto”, oppure “eletto prodotto dell’anno”. Di facile seduzione per il pubblico, ma anche di seria frustrazione quando chi apre la confezione si rende conto (ma senza prenderne realmente coscienza) che poco differisce dagli altri prodotti, o quando “il talento” stesso si accorge di essere stato rimpiazzato da quello successivo.

Naturalmente il pubblico fatica ad accorgersi di siffatti rimpiazzi poiché tenuto in perenne suspense ed eccitazione dall’annunciato prossimo fenomeno, e quand’anche se ne accorgesse non sarebbe rilevante dacché gli individui cui si rivolge il mercato non sono interessati, anzi, non percepiscono nemmeno certe strategie di marketing. Ma le subiscono; motivo per il quale ambiscono a diventare prodotti loro stessi, convinti di dare alla “perfezione” il proprio contributo, giacché persuasi di esserne portatori.

Ed è in questa riproduzione indefinita di prodotti da consumare che ci smarriamo, che ci consumiamo, e dalla quale usciamo vinti combattendo una battaglia che non siamo noi a chiedere di combattere, ma che ci depreda delle forze e della concentrazione necessarie per affrontare quelle di una vita sempre più avversa, che andrebbero invece osteggiate con impegno e costanza.

Generare un’aspettativa è il vero nocciolo di tutta la questione fin qui trattata. Una società che regge la propria economia grazie ai consumatori, infatti, cresce rigogliosa (gonfiando le sole tasche di chi produce selvaggiamente) finché riesce a rendere perpetua l’insoddisfazione dei suoi membri. In ogni aspetto della vita sociale. Per sostenerla, l’impulso a cercare le soluzioni ai nostri problemi, alle nostre ansie e dolori nei prodotti (o persone) pubblicizzati, non solo è incoraggiato esplicitamente, ma è un comportamento che provoca assuefazione verso l’insoddisfazione e la delusione, diventando abitudine priva di alternativa. Se la soddisfazione fosse definitiva nessuno venderebbe più soluzioni.

Mantenere il consumatore in persistente tensione è la strategia madre di tutte le strategie di vendita adottate dal mercato. Per vendere un prodotto, una persona, un’idea, una riforma, non c’è necessità che questi siano ciò che per cui sono spacciati. Devono rispondere semplicemente all’esigenza di un pubblico che chiede e desidera quanto gli è stato imbeccato di desiderare, di conseguenza, se chiede una rivoluzione basterà piazzare sugli scaffali qualcuno con su scritto sulla maglietta “rivoluzione in corso” per dargli l’impressione di trovarcisi nel bel mezzo; se chiede un talento basterà mandare in scena qualcuno spacciato per tale; se chiede che i suoi sogni possano essere realizzati basterà presentargli qualcuno cui (a tale scopo) sono stati realizzati; se chiede una riforma basterà annunciare qualcosa come tale; se chiede giustizia basterà fare la telecronaca degli arresti eseguiti; se chiede un colpevole basterà indicarglielo; se chiede la fine della fame nel mondo basterà allestire un’Expo; se chiede salari più alti sarà sufficiente fargli credere di avere 80€ in più in busta paga; e via di seguito. Allora è una delusione continua, che genera frustrazione continua, che reprime la rabbia e che ci convince di essere sempre più impotenti di fronte alle infinite complessità che ci vengono rappresentate quotidianamente, ininterrottamente, e alle quali, nonostante tutti i nostri sforzi, non troviamo soluzioni definitive. Del resto ansia da prestazione, eiaculazione precoce e orgasmi simulati sono peculiarità di una società esigente e “fast” come la nostra, insieme ad un consumo sempre più massiccio di antidepressivi.

Thomas Hylland Eriksen spiega perfettamente la società confusa nella quale viviamo:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(“Tempo tiranno”, p. 139 – 144)

Non essendoci narrazione logica, tantomeno percezione di quel che accade attorno a noi, ne consegue che preferiamo astenerci e lasciar fare agli altri, convinti, in senso lato, di dare lo stesso il nostro contributo poiché apparentemente ci sentiamo al centro del dibattito, quale che sia. In fondo, crediamo tutti di essere dei talenti e di poter cambiare il nostro microcosmo, nonostante il sempre più degradato macrocosmo che ci avvolge, e non viceversa, come invece dovrebbe essere.

Linguaggio abbreviato: sbagliando s’impara a sbagliare


Il linguaggio abbreviato accorcia la vita alla ragione.

Scrivere non è l’unica forma di linguaggio espressivo che abbiamo, è vero, ma sforzarsi di farlo meglio, se non bene, in ogni circostanza, non solo rafforza l’efficacia, l’incisività di quel che vogliamo comunicare, ma anche preserva, aiuta a custodire uno dei beni più preziosi di cui gode l’essere umano; un bene conquistato attraverso un processo evolutivo lungo e complesso che ci portiamo dentro e che tramandiamo di generazione in generazione; è parte di noi: ci fa contenenti, non soltanto contenitori.

Quel che è certo, è che con l’avvento delle nuove tecnologie questa forma espressiva sta andando sempre più sciupandosi, storpiandosi, deformandosi, spogliandosi, amputandosi, standardizzandosi a un modello sociale che, come spesso ripeto, esorta a tener conto della sola superficie anziché del contenuto. Esprimiamo perciò attraverso il linguaggio, affermiamo nel modo di parlare, la nostra disumanizzazione. Il linguaggio di oggi si “articola” in modo tale che venga utilizzato un significato abbreviato che blocca lo sviluppo del contenuto, e che ci spinge ad accettarlo come l’unica forma da apprezzare.

Il linguaggio abbreviato, e ripetuto assiduamente, fissa l’analisi abbreviata nella nostra mente e in quella del destinatario. Riducendo il linguaggio costringiamo il pensiero in uno spazio limitato. Oggi pensiamo e ci esprimiamo attraverso slogan che “scarnificano” l’analisi. La politica per prima si esprime utilizzando slogan persuasivi e noi, costretti ad ascoltarli poiché meticolosamente ripetuti, li approviamo e avvaloriamo erigendoli a metodo, giusti, sinceri, verità.

Nelle chat dei social network, oppure quando inviamo un messaggio dal cellulare, la tendenza è quella di tagliare le parole, riassumere concetti, sintetizzare frasi quanto più è possibile, di “onomatopeizzarle” per renderle ancor più brevi.

L’accorciamento della sintassi è la rovina del linguaggio espressivo: reprime lo sviluppo del significato, limita le capacità cognitive e pietrifica con concretezza sopraffattoria l’estensione della riflessione. Nel marketing l’immagine prevale sul contenuto, e lo slogan sull’analisi, di conseguenza una forma espressiva sprovvista di una corretta sintassi minimizza l’autorevolezza del contenuto. Ciò, oltre a rendere poco comprensibile ai nostri interlocutori quanto vogliamo comunicare, ci abitua a tralasciare sfumature che renderebbero più vigoroso, intenso e penetrante il linguaggio. Questo chiaramente vale anche per quel che concerne la punteggiatura, che pare non essere mai esistita. Una corretta punteggiatura dà il giusto tono alle nostre frasi, che altrimenti parrebbero atonali o stonate, senza sfumature anch’esse.

Oggi più che mai incombe la necessità di riprendere ad esprimerci come un tempo, di tornare ad apprezzare una qualità conquistata, ereditata, acquisita, avvalorata da grandi scrittori e oratori che hanno segnato profondamente l’esistenza umana, regalando alla storia opere d’arte senza tempo.

I gesti ripetuti diventano prassi, norma, senza che a nessuno venga imposto e nessuno imponga nulla esplicitamente, e se sono gesti sbagliati, ripetendoli non possiamo far altro che imparare a sbagliare, non a migliorare. Difendiamo la scrittura. Sempre. Non adattiamoci ai metodi persuasivi del marketing. Di sicuro c’è che a trarre vantaggio da questo modo di apprende ed esprimerci, non siamo noi.
“Errare humanum est, perseverare diabolicum”.

“Trip” e “bad trip”


In passato se si voleva fare un viaggio psichedelico ci si affidava a dosi di LSD o affini. Le percezioni si alteravano, le immagini prendevano forma e vita nella mente e la realtà veniva distorta, sostituita da una sintetica, immaginaria, inesistente, ma così vera da sembrare autentica. Negli ultimi anni però qualcosa è subdolamente e subliminalmente cambiato. Come in un processo di sublimazione infatti, la realtà è passata da uno stato solido a quello gassoso: impercettibile, inafferrabile, inconoscibile, ma respirabile, che come i gas di scarico dovuti al transito sfrenato e incontrollato dei mezzi di trasporto assumiamo forzatamente in dosi massicce ormai a qualunque ora e in qualsiasi luogo.

Subissati, e costantemente bombardati come siamo di messaggi subliminali, ci troviamo incessantemente in uno stato di subcoscienza, in un’assurdo assordante, frastornante, che s’impone, si propone e avanza come un paradosso sensato. Siamo collettivamente drogati, gettati in un’immensa Woodstock, con l’unica differenza che non aspiriamo a valori utopici quali fratellanza, uguaglianza, pace, e non andiamo alla scoperta di nuove emozioni sensoriali, alla ricerca del sé, tantomeno lo facciamo per senso artistico, nonostante aspiriamo tutti a diventare cantanti, attori, ballerini e scrittori. Lo facciamo, ma senza avere la volontà cosciente, la consapevolezza di farlo.

Oggi siamo immersi in un mondo in cui le follie assurgono a ragionevoli, le contraddizioni a coerenti e le utopie a concretezze che non si concretano mai, se non nelle nostre convinzioni derivate. Inseguiamo, senza mai raggiungere. Ingurgitiamo palinsesti televisivi, ci deconcentriamo sui cartelloni pubblicitari seminati ovunque, ci svaghiamo negli imperanti centri commerciali, ci rilassiamo nei magnifici e sontuosi centri benessere, brindiamo nei trionfi “happy hour”, esibiamo look firmati, acconciature, unghie finte, seni finti, labbra finte, zigomi finti, nasi finti, sederi finti, personalità finte, dacché non ne abbiamo più una nostra, mentre il mondo, quello vero intorno a noi, non esiste più, se non dentro un titolo di un telegiornale, che come una pillola eupeptica è buono a far digerire tutto e tutti. E allora, dalla realtà immateriale, ideale, spirituale, e al tempo stesso terribilmente materialistica, meccanicistica – coerentemente con le contraddizioni che la contraddistinguono – che ci viene offerta, guarnita di tutto punto, ci facciamo consigliare chi essere, quindi cosa indossare per esibirlo, cosa mangiare per conservarlo, quali medicine per difendere e scacciare via i mali che gli si mettono di traverso.

Oggi non siamo ciò che siamo e non pensiamo ciò che pensiamo: siamo ciò che ci dicono di essere, e pensiamo ciò che ci viene detto di pensare.

Viviamo in un mondo tradotto, parafrasato, interpretato, volgarizzato, che ci ha trasferiti in un altro mondo, parallelo, fiabesco, fittizio, illusorio, sognato, inventato, inesistente, drogato. Un mondo prescritto, disordinatamente ordinato, obbligatorio, stabilito e ormai più possibile da decifrare autonomamente, giacché autoritariamente eteronomi fin dalla nascita.

Immaginiamo però per un attimo un mondo senza Tv, senza pubblicità lungo le strade, nei paesi, nei centri cittadini, senza alcuna forma di indottrinamento e intrattenimento mediatico di massa: prima impazziremmo tutti dalla noia, e poi saremmo obbligati a guardarci dentro, e magari poi anche meglio intorno, in cerca di una personalità e di una realtà perdute, che ci si paleseranno come nuove, autentiche, originali, ingegnose, genuine, vere, e magari queste nelle quali siamo immersi finalmente ci appariranno perfettamente per quelle che sono: una riproduzione, un inganno, una brutta copia, la peggiore delle imitazioni cui l’uomo potesse aspirare.

Eppure gli allucinogeni dovrebbero essere illegali, banditi ormai da anni. Qui invece vengono distribuiti in dosi massicce alla massa, e gli effetti sono tali e quali a quelli indotti dall’LSD: alterazione della coscienza, euforia, perdita di consapevolezza e lucidità, riduzione dei riflessi psicofisici, alterazioni nella memoria a breve e lungo termine, impossibilità di concentrazione, difficoltà di elocuzione o elocuzione disordinata, sensazione di intensa beatitudine, cambio di stato d’animo con estrema facilità, amplificazioni sensoriali, distorsione della consapevolezza del tempo, dello spazio e del sé, percezione intensificata di suoni, colori, odori e sapori.

Ma i trip non sono solo “fiori e arcobaleni”, in particolare quando assunti in dosi eccessive e per lungo periodo, e così si verificano effetti indesiderati (o desiderati in base ai punti di vista), più propriamente detti “bad trip“, ovvero viaggi conditi da ansia e panico. E a determinare il “bad trip” e il “trip” sono proprio quegli elementi che in ambito vengono chiamati “set” (lo stato d’animo di chi assume l’acido) e il “setting” (l’ambiente in cui si trova chi assume l’acido). Ecco, set e setting negli ultimi decenni hanno raggiunto livelli di tale degrado che il nostro vivere è diventato la falsificazione mal riuscita di un ashram, con il solo fine d’ingrassare i portafogli dell’industria della soppressione dell’individuo.
E allora: buon viaggio.

Perché oggi critichiamo tutto?


Non è vero. Anche in passato criticavamo tutto, o almeno quello di cui venivamo a conoscenza, ma è solo di recente che i media si sono accorti che anche il popolo ha dei gusti (criticabili, ovviamente), e “pensa” e si “esprime”.
Partiamo da un fatto incontrovertibile: i mass media hanno da sempre presentato un pensiero a senso unico, unilaterale: io parlo, tu ascolti. Non c’erano alternative e nessuna diretta interazione. Dagli esordi delle comunicazioni di massa si è sempre inscenato uno spettacolo basandolo su questo principio, e con l’avvento della radio prima e della televisione poi, è stato introdotto negli anni in tutte le case, in tutte le famiglie, trasformando tale “canone di unilateralità” in atto routinario culturale, che antropologicamente è sempre appartenuto alle rappresentazioni teatrali. Un altro fatto incontrovertibile è appunto che le maschere, gli attori, che presentavano uno spettacolo al pubblico, da quest’ultimo ispiravano le loro narrazioni, dalla plebe e dai nobili, dalle sfumature dell’uomo, dai suoi intimi difetti o capricci o debolezze, con tutte le contraddizioni culturali del caso. E la caricatura dei difetti dell’uomo era appunto ciò che più attirava (e attira) il pubblico. Ma lo spettacolo, la comunicazione e l’informazione di massa poi, sono sempre stati omologati come “rappresentazione unilaterale“.

Negli ultimi decenni, spettacolo e informazione di massa si sono amalgamati sempre più, andando oltre, nella ricerca esasperata delle più intime sfaccettature dell’uomo, per tenere incollata l’attenzione su se stesso che non sulle radici delle sue drammaticità e inefficienze. In passato il dramma raccontava una storia che aveva una logica narrativa, un messaggio ben preciso, oggi ci troviamo invece di fronte a una rappresentazione esasperata delle contraddizioni umani che non raccontano più una storia, ma un susseguirsi di fatti che non hanno alcuna connessione fra loro, se non la loro stessa contraddizione: non esiste più un percorso definito e definibile, ma tanti sentieri senza indicazioni che formano un labirinto privo di di entrata e vie d’uscita. Tali irrazionalità, divenute oltremisura caricaturali, imbarazzanti, avevano (ed hanno) come unico scopo quello di aumentare i “dati di ascolto” per incrementare i profitti economici derivanti dagli sponsor, dai produttori che investono parte del loro capitale per vendere i loro prodotti. Tutta la comunicazione vive grazie a questi investimenti.

Ogni notizia o spettacolo infatti enfatizza aspramente i lati oscuri e bizzarri dell’uomo che non i suoi aspetti positivi, che invece non riuscirebbero a suscitare la stessa attenzione con altrettanta efficacia, ad eccezione di alcuni casi che, comunque, non incidono sulla regola dominante. L’entrata in scena dei “reality” sono infatti l’emblema e il culmine di quest’abitudine. Lo “spettacolo da buco della serratura” è oggi l’elemento predominante nella comunicazione.

Raccontare le intimità della gente è come circondare scenografia e attori di specchi: è una debolezza umana, ed è normale che allo spettatore venga il desiderio di specchiarsi, di immedesimarsi, di immaginare cosa farebbe “al posto degli altri“. Il narcisismo, come la curiosità, sono elementi che hanno da sempre prevalso negli esseri umani e che lo hanno contraddistinto da qualunque altra forma di vita.

Fatto sta che negli anni la comunicazione si è avviluppata sempre più in se stessa, alla ricerca del profitto anziché del messaggio. Possiamo parlare di un’evoluzione involutiva: ossimoro che rispecchia bene le contraddizioni della comunicazione.
Noi, gli spettatori, come da prassi, abbiamo assistito passivamente a questo processo involutivo, e in un certo qualmodo ancora lo subiamo.

Diciamo pure che se la sono cantata e suonata da soli per anni.

Oggi, però, con l’avvento delle nuove tecnologie, i social network, il digital sharing, si è data voce a tutti, e i media, che per loro natura devono fare spettacolo, trovano nella voce e nelle espressioni del popolo un’inesauribile fonte di materiale da spettacolo, perciò non esiste più un minimo di ragionevolezza nell’informazione.

Per vendere un prodotto – una notizia, un programma, un talk-show, una personalità – si deve colpire l’attenzione del consumatore/spettatore, e non importa quanto quel prodotto sia di qualità o quale contenuto nasconda al suo interno, ciò che conta è la capacità di attirare attenzione su di sé. È un principio fondamentale del marketing, che se non utilizzato complica e riduce l’aspettativa di vita sul mercato del prodotto. Ed è proprio questa concorrenza sfrenata, priva di un fondamento logico narrativo, a rincorrere se stessa senza trovare misura o buon senso.

Il pensiero critico è innato nell’essere umano, non deriva dall’esperienza ma anzi la precede, altrimenti oggi non saremmo qui. Ma quello che non si è capito, o si fa finta di non capire, è che oggi tutto è divenuto pubblico: il pubblico (lo spettatore) è di dominio pubblico. E in questo circolo vizioso, più o meno consapevolmente ci stiamo affogando tutti, informazione compresa, che per prima non riesce a cogliere il senso del profondo cambiamento che è avvenuto nella cultura sociale.

Non esiste, e non può esistere un unico pensiero, e pretendere di spigare questo fenomeno criticando la critica, è davvero paradossale. Ma è ciò che sta avvenendo.

È emblematico, ma solo perché attuale, il caso de “La grande bellezza“, dove leggo di giornalisti che si lamentano del fatto che una parte di italiani o intellettuali critichino l’Oscar assegnatogli, autoinnalzandosi a supercritici inconsapevoli e spesso anche arroganti. Questo è un chiaro esempio di nostalgia del “pensiero unilaterale“. Come si può pretendere che a tutti, tutti, possa piacere qualcosa, qualunque cosa essa sia, alla stessa maniera e con la stessa passione? Allora la “Merda d’artista” di Manzoni, secondo i super critici, dovrebbe piacere oggettivamente a tutti? Oppure oggettivamente non dovrebbe piacere? Per fortuna esiste la relatività, la soggettività, l’individualità. La qualità è quella cosa che sta tra il soggetto e l’oggetto: non si può pretendere di oggettivarla a priori anteponendo i propri gusti come modello universale. È sciocco.

Giornalisti, opinionisti e commentatori che si vantano di essere più intelligenti di altri per il semplice fatto che loro, a differenza di “quegli altri” che non capiscono nulla di cinema (nel caso specifico) e quindi non meritano di esprimersi, certe cose invece le capiscono. Ecco, io vorrei far notare a tutti, tutti, che “il mondo è bello perché vario“, ricco di sfumature, odori, pensieri, culture. Pensa un po’ che noia fossimo tutti uguali.

Un altro esempio di esasperazione è un caso che mi è capitato di vedere sulla Tv pubblica di recente:
Una tizia, sconosciuta alle masse scrive un post sul suo profilo Facebook nel quale esprimeva tutta la sua disapprovazione riguardo a un cambiamento apportato nelle scuole del comune di Milano. Il cambiamento riguardava il riconoscimento delle coppie conviventi dello stesso sesso con figli. Con tale riconoscimento il comune ha deciso di cambiare la voce “Firma dei genitori o di chi ne fa le veci” con “Genitore 1” e “Genitore 2“. Al di là delle considerazioni, che non voglio discutere qui, i media hanno ripreso quel post e ci hanno costruito una puntata sopra dove gli ospiti invitati erano uno psichiatra, un transessuale, una scrittrice e la tizia che aveva scritto il post incriminato. Lo psichiatra, con un evidente spilla a forma di crocifisso attaccata sulla giacca, era contrario alla modifica, e lo esprimeva con rabbia e disgusto. Nella discussione è venuto fuori che lui non ha mai avuto il padre, che è cresciuto con la zia e la mamma, e quando una di loro doveva firmare qualcosa per la scuola non si è mai sentito in imbarazzo per la sua situazione: «Non è una scritta su un foglio che può cancellare l’amore in famiglia». Salvo poi inveire sul fatto che la scritta “Genitore 1” e “Genitore 2” erano quanto di peggio si potesse fare poiché destabilizzano profondamente la psicologia del bambino, che per natura ha un padre e una madre. È evidente la confusione. La tizia che aveva scritto il post non è riuscita a dire mezza parola, la transessuale veniva schiacciata dalle urla dello psichiatra, così come la scrittrice. Risultato: un programma di intrattenimento senza storia né logica, né messaggio. Poi è arrivata la pubblicità.
L’unico elemento certo è che la puntata è stata “organizzata” prendendo come spunto la “critica” di una tizia sconosciuta postata su un social. Ma questo è solo un caso su tanti.

Come sappiamo, grazie alla rete, ai social, al digital sharing, ognuno ha la possibilità di esprimere le proprie idee. È una grande libertà. Ma anche una colpa, un demerito della società, perché nella stessa misura in cui è concessa “libertà” di pensiero, ci è dato il suo opposto: ci incateniamo ad esso e pretendiamo di imporlo con ogni mezzo, perché “noi abbiamo ragione, e la pretendiamo“. Infatti è difficile affrontare una conversazione senza cadere in una discussione litigiosa, spesso fatta di colpi di link. Critichiamo, ma difficilmente accettiamo le critiche.

Assorbiamo tutto e il contrario di tutto, e tutto e il contrario di tutto viene amplificato e rilanciato dai media all’ennesima potenza, fino a generare una concatenazione di eventi che non seguono alcuna logica, ma solo la “notizia” più eclatante, adatta a tenere incollata l’attenzione di un pubblico.

Di fatto, i nostri Tg sono pieni di “social”, di commenti, di email, di video, post, e molti programmi televisivi sono ideati sulla base dei “presunti” gusti del pubblico espressi attraverso i social: pensiamo solo ai “mi piace”. In questa forma esasperante di “assecondare” i gusti del pubblico, mettendo in scena lo spettacolo del “tutto e il contrario di tutto“, chi ne soffre di più, alla fine, è proprio il pubblico, la capacità cognitiva degli individui che lo compongono, il loro senso individuale di percepire il mondo intorno sé, e quindi anche le informazioni che continuamente gli arrivano dai media. E più il pubblico viene portato all’esasperazione, più esasperatamente si cerca di inseguirlo. I media generalmente stavano davanti e il pubblico dietro: oggi il pubblico sta davanti, confuso dai media, e media stanno dietro, confusi dal pubblico che tentano con ogni mezzo di “accontentare“, e lo spettacolo che mettono in scena, esasperatamente confuso, viene riposto davanti al pubblico. È una catena di Sant’Antonio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Per concludere, la confusione è data dal privato che è divenuto di pubblico dominio, che prima dell’avvento dei social era pressoché privato. La comunicazione non riesce a cogliere e a razionalizzare questo cambiamento, e più di tutto non riesce a contenere il disprezzo che prova nei confronti della critica che, come abbiamo visto, fino a pochi anni fa rimaneva dentro le quattro mura di casa, o al bar, o nei teatri, o nelle piazze. Si cerca di accontentare tutti, ma quel che nessuno comprende o fa finta di non comprendere, è che si ottiene l’effetto opposto.

Non è un caso che il mondo dell’informazione sia dominato dall’ignoranza.

Augias, e l’intellettualità tradita


Queste due parole nascono dopo aver visto l’intervista di Daria Bignardi a Corrado Augias nel talk show Le invasioni barbariche.

Questo è un Paese strano. Abbiamo una visione della società totalmente contorta, distorta, distrutta, sradicata dalla ragione, dalla razionalità, dall’onestà. Non siamo più in grado di vedere le cose che ci circondano in maniera chiara, definita, definitiva; siamo esasperati, disorientati da messaggi che si incrociano, che appaiono reciprocamente incompatibili e finalizzati a porre in questione e indebolire la credibilità dell’altro. Oggi più che mai non esiste più una sola verità, un solo modo, una sola formula di vita, una certezza e fiducia in se stessi, e cerchiamo rifugio in chi ci promette chiarezza e ostenta purezza, in chi ci assicura di allontanarci dal dubbio e dall’indecisione. L’incomprensibilità, l’inconcepibilità, la complessità del mondo ci colloca in una posizione di inferiorità inconsapevole, e che inconsapevolmente ci assoggetta a chi ci promette tesori che il mondo stesso sfacciatamente nega. Cerchiamo nel leader, unico e solo, le certezze che da soli non siamo più in grado di comprendere, e tanto meno cercare.
Abbiamo bisogno di autoapprovazione, coscienza a posto, e del conforto di non dover temere di sbagliare e di avere sempre ragione.
Rivolgiamo gli sguardi in direzioni completamente diverse ed evitiamo ogni giorno che passa di guardarci negli occhi, senza renderci conto di essere ammassati sulla stessa barca, sullo stesso gommone in cerca di una terra migliore, ma senza bussola, senza guida, senza una direzione stabilita. Remiamo tutti in modo tutt’altro che coordinato, ma siamo incredibilmente simili per il fatto che nessuno, o quasi, di noi crede di agire nel proprio interesse per difendere i privilegi conquistati o per rivendicare la sua parte di privilegio finora negatagli. Non siamo più una comunità.
Tutti noi sembriamo combattere per giusti valori, universali, assoluti, ma paradossalmente siamo esortati e addestrati a ignorare, nelle nostre attività quotidiane, valori di questo tipo, lasciandoci guidare da persone che hanno progetti incomprensibili, ormai mosse dal solo desiderio di aumentare il valore commerciale della propria immagine, conformi, inquinati profondamente dai modelli che la società dei consumi ci vende; e quel che più mi rattrista e demoralizza, è che lo facciamo in maniera inconsapevole, per rifarmi alle parole di Augias… che ha preso una posizione incomprensibile nella trasmissione “Le invasioni barbariche”. Da intellettuale quale è, mai mi sarei aspettato un’analisi così vuota di contenuti, irriflessiva e carica di sentenze e pregiudizi. Per un attimo mi sono detto: “se Augias si esprime così, forse un problema c’è”. Quando poi, però, è intervenuta la londinese Taiye Selasi, conosciuta dal pubblico come giudice di Masterpiece, il primo talent letterario della televisione, allora ho capito tutto. Intanto associando la figura della Selasi a quella di Augias, in termini di autorevolezza commerciale, si fa assume ancor più credibilità e valore al “talent” da lei co-condotto. Ma queste sono solo mie fantasie. Quel che più mi ha dato il voltastomaco è il silenzio generale che c’è stato, soprattutto di Augias, quando la stessa scrittrice ha ammesso di non saper leggere in italiano, e dichiarato che la versione tradotta in italiano del suo libro non rende totalmente l’idea della versione originale da lei partorita in inglese: «è stata riscritta un’altra storia dalla traduttrice», pur «bellissima», rassicurando il pubblico, e se stessa. Già questo basterebbe a farci comprendere che fare il giudice in un “talent letterario”, sul quale ci sarebbe da discutere molto, in lingua italiana, quando si comprende poco la lingua italiana, è una palese contraddizione, conforme, del resto, alla struttura comunicativa dei media: contraddittoria per costituzione. Tutti hanno taciuto… Augias compreso. Non è stata spesa una parola, una sola, sull’incoerenza dichiarata; ovviamente per motivi puramente commerciali, che come tutti sappiamo hanno la tendenza a scindere dalle ragioni etiche; dalla razionalità stessa. E forse proprio per questo ho avvertito ancor più dolorosamente la mancanza di contenuti e una fastidiosa cacofonia nelle espressioni di Augias.
Siamo immersi nelle sabbie mobili, e ci stiamo ormai affogando.
E il male più grande, caro Auguas, è proprio l’inconsapevolezza. La Tv, il mondo dell’immagine, del commercio stereotipato, è un mondo sempre più lontano dalla realtà: se (e solo se) in passato hanno avuto una qualche relazione, oggi si sono separati definitivamente, e come in tutte le separazioni, quelli che subiscono di più sono sempre i figli: il pubblico; l’opinione pubblica; la ragione; l’onestà.

Cambiare


Il mondo cambia, si trasforma, corre… Ma in che modo? E corre verso quale direzione? Badiamo bene che l’Italia è un paese tecnologicamente arretrato, oltre che culturalmente involuto, ma il cambiamento che ci propinano i “nuovi” sceneggiatori della politica siamo sicuri sia riferito a un cambiamento culturale, sociale e tecnologicamente evoluto, senza discriminazioni di alcun tipo, o è piuttosto a quel cambiamento che tutti gli Stati occidentalizzati e “occidentalizzandi” vanno rincorrendo, ossia la globalizzazione dei mercati finanziari, mediatici, il consumismo sfrenato, quindi culturalmente degradanti, a cui si fa riferimento? “Cambiamento” è un concetto-contenitore del tutto aperto, e ognuno è libero di riempirlo con quello che più desidera trovarci; racchiude in sé un’infinità di aspettative, che se dato in pasto all’elettorato addestrato efficacemente attraverso i mezzi di comunicazione a pensare che per cambiare sia necessario correre, inseguire, stare al passo, nel momento in cui arriva qualcuno che sembra avere tutte queste caratteristiche (che non sono necessariamente qualità), ecco che pensiamo di aver trovato il salvatore della patria. Il mondo corre, si trasforma, e non accenna rallentamenti o soste, perciò inseguirlo significherebbe non raggiungerlo mai. Un cambiamento richiede sopra ogni cosa “consapevolezza“, e noi siamo davvero certi di essere consapevoli del cambiamento del quale siamo sempre più spettatori passivi? Di che genere di cambiamento parliamo? Quando sentiamo dire che il mondo corre mentre noi rimaniamo indietro, che si vuol far intendere con ciò? Che anche noi dovremmo tenere il passo adattandoci alle regole dei mercati globali? Che anche noi dovremmo investire sfruttando al massimo il nostro territorio depredandolo di tutte le risorse di cui dispone per trarne il maggior profitto economico possibile? Che dovremmo deturpare anche noi il paesaggio poiché è questo il (giusto?) prezzo da pagare per il cambiamento e per rincorrere la globalizzazione? È una contraddizione in termini pedonalizzare un centro cittadino e allo stesso tempo agevolare le politiche dettate dal mondo finanziario, quello stesso mondo che ci ha immersi nella crisi economico/culturale che stiamo subendo. Questo andrebbe compreso.
Che genere di cambiamento abbiamo in mente quando pensiamo al cambiamento? Non si conosce il modo in cui le persone immaginano il “mondo-dopo il cambiamento“, né sappiamo se ne abbiano una visione chiara. Votare per il cambiamento significa scappare da qualcosa, ma questa fuga non ci dice molto sul dove vogliono andare, e ancora di meno sul dove correranno una volta che la febbre per il cambiamento si sarà abbassata e la realtà, vecchia e nuova, dovrà essere affrontata da zero. Ed è da qui che il compito degli amministratori si farà difficile, poiché impedire che le speranze degli elettori si trasformino in frustrazione sarà davvero un compito arduo. Forse mai come prima nella storia dell’umanità.
Per me il cambiamento è restare immobili in mezzo a un mondo che si deforma, degrada e consuma; per me il cambiamento è combattere contro chi, in nome della globalizzazione, priva gli esseri umani dei diritti fondamentali, di una vita dignitosa; per me il cambiamento è ritrovare nei valori del passato quei pregi e quel senso di comunità che abbiamo completamente dimenticato; per me il cambiamento è fare tesoro del passato per migliorare il presente e costruire un futuro per tutti senza discriminazioni; per me il cambiamento è riuscire a comprendere che questo mondo va a rotoli perché c’è chi vuol cambiare solo il suo conto in banca.
Dobbiamo prima cambiare il nostro stile di vita, il nostro approccio verso le informazioni e le pubblicità che ci investono, e recepire il mondo non come un pianeta sul quale correre e consumare terreno, ma come un paesaggio da ponderare e proteggere. Ricordandoci anche che non a tutti gli esseri umani piace correre, perciò lasciarli indietro, come del resto sta accadendo, è una enorme, profonda discriminazione. “Il mondo è bello perché è vario”, ma dobbiamo anche difenderle e rispettarle queste varietà.

A questo proposito rimando la riflessione a questo articolo.