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OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

Emergenza immigrati: smettiamola di intervenire sugli effetti e agiamo sulle cause


Capisco la rabbia e il significato di quel che si vuole esprimere quando affermiamo che “gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi”, ma detta così è fuorviante, ed è una forma razzista di esprimersi, poiché al sostantivo “immigrato” è stato attribuito nel tempo un significato dispregiativo giacché sovente associato a termini come “rubare”, “violenza”, e “lavoro”, “casa” e “sussidi”, ossia a quei costituenti essenziali in una società come la nostra.

Di fatto, quando un microfono si avvicina a un qualsiasi cittadino per chiedergli cosa ne pensa degli immigrati, la risposta “mandata in onda” è prevalentemente la stessa:

«Gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi!» – aggiungendo, generalmente – «Io non sono razzista, ma non è giusto che si dia aiuto prima a loro mentre noi italiani veniamo lasciati per ultimi. Che rimangano a casa loro!».

Attraverso questa forma di informazione manipolatoria, deviante, nell’opinione pubblica viene a radicarsi un sentimento di astio, d’invidia nei confronti di chi “viene nel nostro paese a privarci dei nostri diritti”. Allora siamo esortati a propendere verso chi promette di liberarci dal “male che ci invade” e “ci toglie risorse vitali”. Purtroppo è tutto sbagliato. Più propriamente, sono le politiche economiche internazionali (dettate dalle multinazionali), lo sfruttamento selvaggio delle risorse, a costringere queste persone ad abbandonare i loro paesi d’origine, massacrati da guerre che hanno lo scopo prevalente di aggiudicarsi o difendere tali risorse. Gli immigrati sono in cerca di un riparo da tutto questo, dal momento che non hanno altra possibilità che scegliere fra vivere la tortura della schiavitù, oppure la morte. Non portano con sé ambizioni di conquista, ma gridi dilaniati in cerca d’aiuto. L’aiuto che possiamo dar loro, se vogliamo davvero aiutare anche noi stessi e fare in modo che questo caos termini, è quello di comprendere a fondo i motivi per i quali sono costretti a fuggire.
Sono le politiche economiche a togliere lavoro, case e sussidi, a tutti, in Italia come in Europa, e in tutto il mondo “occidentalizzato” nel quale è stato esportato (e si sta esportando) questo modello economico-sociale.
Va compreso che un essere umano che scappa da una guerra è ben più disposto ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione salariale, pur di sopravvivere. Ciò contribuisce enormemente ad abbassare i costi di produzione, a ridurre i diritti umani di ognuno di noi, a far aumentare le disuguaglianze sociali e a diminuire il potere d’acquisto nel suo complesso.

Il sostantivo “immigrato”, diventato ormai un’appellativo dispregiativo, non dovrebbe neppure essere preso in considerazione quando vogliamo esprimere la nostra contrarietà a una situazione complessa e drammatica come quella che stiamo vivendo. Stiamo parlando di esseri umani come noi, né più e né meno.
Se pensiamo di risolvere i problemi che ci sovrastano, innalzare muri per non vedere né sentire, né sapere, cosa accade al di là, non risolve niente. Dobbiamo comprendere che i problemi nell’antartico riguardano e condizionano anche l’artico e viceversa. È il modello sociale consumistico nel quale viviamo, ad averci trascinati in questo disordine intellettivo, e che sempre più ci impedisce di razionalizzare il mondo che ci circonda.
Chi promette di “scacciare via gli immigrati”, lo fa sfruttando la nostra ignoranza rispetto a un problema ben più ampio, profondo e complesso. E non sarà un semplice muro che ci esonererà dall’affrontarlo. Il compito di una sana politica dovrebbe esser quello di interpretare nel modo giusto la rabbia della popolazione, anziché cavalcarla per raccogliere voti. Una popolazione che però è composta anche da queste povere persone in cerca di sopravvivenza per i motivi suddetti. Perché il popolo è colui che abita la Terra, una Terra che non ha più confini né identità culturale a causa del capitalismo selvaggio, alle politiche neoliberiste, non a causa di chi è in fuga da esse. Dobbiamo smetterla di giudicare gli effetti e intervenire su di essi, e agire finalmente sulle cause. Ecco poi dove si arriva.

Jobs Act: lavoratori come merce di scambio


L’obiettivo, a lungo braccato, di far tornare il lavoratore ad essere merce di scambio a tutti gli effetti, e che sembrava aver raggiunto i massimi risultati con la riforma del mercato del lavoro del Governo Monti, trova oggi la possibilità di nuovi traguardi all’orizzonte grazie al “Jobs Act”. Stando a quanto l’attuale Governo si appresta a mettere in atto, sarà abbattuto ogni diritto, ogni possibilità di fare ricorso contro i soprusi esercitati dal datore di lavoro e così, per la gioia degli sfruttatori, la schiavitù tornerà ad essere di moda: alla luce del sole, ma un po’ nascosta all’ombra del classico mantra «non ci sono alternative». Sarà dato maggior potere al sistema capitalistico-neoliberista, che potranno esercitarlo senza impedimenti concretizzando il totale controllo sul corpo e sull’anima del lavoratore, sostituendo definitivamente la partecipazione dello Stato Sociale che così diventerà un surrogato a tutti gli effetti.

Un’ulteriore precarizzazione del lavoro avrà come conseguenza inevitabile la riduzione dei salari e dei diritti. I costi di produzione si abbasseranno ancora di più, e ad avvantaggiarsene saranno soltanto le grandi cooperative, le multinazionali, i grossi industriali. I piccoli imprenditori, come sappiamo, vivono di professionalità e competenza in determinati settori, non grazie al lavoro dei contratti a tempo determinato che, in aggiunta a quel che si sostiene, favoriscono non solo la compravendita di manodopera nei momenti di maggior produzione, ma “sempre”. Il totale precariato è un generatore di tensioni che avrà conseguenze disastrose (più di quelle già in atto) sull’autonomia dei lavoratori.

Orientare gli individui alla logica del mercato solo perché “i rapporti economici vanno in quella direzione”, non è certo la scelta migliore per contrastare la disoccupazione dilagante o per creare – anche solo in minima quantità – nuovi posti di lavoro. Anzi, i disoccupati accresceranno ancora di più eludendo scientemente i dati occupazionali: maggior flessibilità non comporta maggior impiego, ma ulteriore precarietà del lavoratore, che potrà essere chiamato per qualche ora alla settimana all’abbisogna facendolo risultare “parzialmente occupato”, ossia un “non disoccupato”, che sarà così gettato in un limbo da dentro il quale sarà ancora più complicato affermare la propria esistenza sociale.

Come si può pensare che un mercato senza regole o vincoli sia a sua volta in grado di indirizzare nella giusta direzione la vita dei lavoratori se ha la possibilità di sfruttarli per trarne quanto più profitto possibile? Sappiamo bene quali conseguenze ci hanno riservato la logica dei mercati economici. Il Jobs Act ha pretese che vanno al di là del buon senso, e si prefissa soltanto di agevolare e potenziare la compravendita dei lavoratori da parte delle forze del mercato, facendola diventare a tutti gli effetti una “moderna tratta di essere umani“. La “libera contrattazione” non protegge né salari né diritti, e questo dimostra quanto la politica sia male amministrata e poco equilibrata. Chi potrà più pensare di costruirsi un futuro senza avere quelle basi, quelle certezze sulle quali fino a ieri si è “retto” il nostro modello economico? Sarà ancora meno possibile, tra l’altro, pensare di accendere un mutuo, o chiedere un microprestito per quanto piccolo esso sia. “La regola” fondamentale del Jobs Act recita così: – “Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto d’inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Nessuno è in grado di dare un’interpretazione corretta al Jobs Act, infatti già da tempo ormai, come da tradizione italiana, opinionisti e pseudo, giornalisti e pseudo, ai quali è dato in carico di divulgare all’opinione pubblica il disordine, si stanno contendendo il titolo di “peggiore”. Sappiamo bene però, anche in questo caso, quanto l’eccesso di norme poco chiare che disciplinano il nostro sistema (tutto) abbia offuscato con gli anni il corretto svolgimento della macchina dello Stato. Pertanto, «processo verso un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» lascia spazio alle interpretazioni semantiche più libere da parte dei datori di lavoro. Quali sarebbero le «tutele crescenti»? Chi stabilisce quali sono e in che misura dovranno essere esercitate? Non se ne sa niente ancora; il testo è sostanzialmente blindato. Se il contratto di lavoro prevede termini di rapporto ancora più flessibili, su quali criteri si stabilisce l’avanzamento delle citate tutele? Ci sono vincoli contrattuali che riguardano quale dovrebbe essere la soglia di partenza da cui il lavoratore inizierà il suo percorso? Perché se le tutele sono crescenti, può significare soltanto che l’inizio di ogni percorso in una determinata azienda ne sarà privo, o in ogni caso ridotte al minimo, ma in un sistema nel quale la flessibilità è la regola, e la competenza non necessaria alla grossa produzione e distribuzione, basterà semplicemente assumere lavoratori sempre diversi di modo che la partenza sarà sempre con le tutele ridotte al minimo. Se maggiori tutele equivalgono a maggiori costi di produzione, il datore di lavoro per contenerli al minimo non dovrà far altro che usufruire delle agevolazioni contrattuali che il governo gli offre. È improbabile che qualcosa possa tornare a vantaggio dei lavoratori giacché i “pregi” delle forme di determinazione del salario non sono misurati in base ai loro effetti, ma alle conseguenze che hanno sui rapporti di potere impliciti nella condizione di lavoro: più produttività, meno costi di produzione, salari più bassi, maggior precarietà, meno diritti al lavoratore, minori possibilità di organizzare il proprio futuro.

Questa rivoluzione è in mano alle multinazionali. Aspettiamoci giorni bui.

“Combattere per la pace è come fare l’amore per la verginità”


Nella quotidiana e perpetua discussione mediatica, ora su quel provvedimento ora sull’altro, quel che non manca mai sono quegli elementi che rendono la vita politica del Paese ignobile, stantia, ripugnante, oltre che socialmente molesta, irritante, frustrante. Ogni giorno la classe dirigente finge di chiedersi quali sono i motivi che hanno trascinato i cittadini verso una disaffezione cronica nei confronti della realtà sociale e politica senza mai, naturalmente, provare a darsi una risposta definitiva e con questa, da questa, conseguentemente ripartire daccapo rimuovendoli per far sì che le proteste, espresse più che chiaramente col non-voto, siano finalmente ascoltate. Invece, l’imbroglio delle riforme in atto volute da chi istruisce l’abile racconta-novelle premier italiano, degno successore di Berlusconi, viene spacciato ingegnosamente come la volontà della maggioranza assoluta del popolo italiano che, va ricordato, si tratta invece del 40,8% di elettori che rappresentano un esiguo 23,7% della popolazione elettorale con diritto di voto. Un 23,7% dal quale trarre prepotentemente legittimità per appropriarsi indebitamente dei bisogni e delle richieste angosciate di coloro che non ce la fanno più a sopportare questo ridicolo e deleterio gioco psicologico delle parti, dove a chi dice il bianco viene contrapposto chi afferma il nero, con un rimpallo di responsabilità infinito, senza mai arrivare a niente, senza mai risolvere niente, se non a garantire l’inattaccabilità e la prosecuzione indisturbata degli affari e delle ambizioni dei singoli attori che prendono parte alla commedia drammatica che è diventata la politica e la società tutta.

Riforme che vengono confezionate e presentate al popolo consumatore di slogan come la più passionale delle rivoluzioni in atto dal dopoguerra ad oggi.

Perché le riforme si fanno in Tv e, si badi bene, non solo negli ormai classici e sempre più avvalorati talk-show, ma anche nelle fiction, nel cinema, nei social, nei blog, nei giornaletti di gossip, nel calcio, nei romanzi, nelle manifestazioni di ogni tipo, e in tutto il possibile da spremere e sfruttare come palcoscenico utile a narrare una riforma, non in atto, ma narrata, appunto. Solo narrata. A benedire la fedeltà, nonostante tutto, dei restanti (pochi) milioni di elettori del partito (e non solo quelli) che pretende di essere l’unico erede delle speranze rivoluzionarie.

Assistiamo così inermi alla cannibalizzazione degli spazi mediatici, e conseguentemente pubblici, e a un protagonismo che purtroppo ha dei precedenti e avrà dei seguiti sempre più esaltati ed esaltanti. E come in ogni circostanza, fatta diventare volutamente di grande impatto mediatico affinché s’intrattengano le attenzioni del pubblico, si deve offrire a quest’ultimo — che subisce — un capro espiatorio, che nella narrazione corrente è incarnato nel “gufo”, nel “pessimista”, nel “disfattista”, che viene incastrato come fosse lui l’assassino, cosicché ci si possa prendere il merito d’aver ispirato ottimismo e fiducia; e condannare nello stesso tempo implicitamente tutti coloro che hanno pensato si potesse trovarlo “finalmente” in un regime politico esperto solo nel salvaguardare interessi che non appartengono certo alla collettività. Un colpevole, o presunto tale, dunque, che anche se non fosse lui lo sarà comunque a vita nell’immaginario collettivo.

Perché ormai è così, dai “piani alti”, di qualunque settore si tratti, basta dire insistentemente che si sta facendo qualcosa affinché questo diventi virale, quindi reale, effettivo, e se qualcuno provasse a dire che così non è, basterà semplicemente ribadire che così invece è, e il gioco del contraddittorio continua indefinitamente, sulla pelle di coloro che di questo genere di intrattenimento social-mediatico, sponsorizzato e pagato profumatamente dalle aziende che nel frattempo devono vendere i loro prodotti di consumo, ne hanno piene le scatole. E che ne hanno piene le scatole lo esprimono da anni non esercitando il diritto di voto, poiché sa quanto sia diventato inutile, infruttuoso, esercitarlo, forte dei reiterati scandali e corruzioni che ogni giorno la magistratura scoperchia in ogni settore e anfratto della società, ma soprattutto ai piani alti, quelli dai quali si “amministra” il Paese.

Nel frattempo, mentre gli animali da palcoscenico, negli interminabili dibattiti, discutono su come affrontare i problemi causati dalla crisi, ma non su quelli che hanno causato quest’ultima, la guerra bussa alle nostre porte.

E sembra essere proprio questo il futuro che ci attende: mentre fuori, la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, ovvero le socializzazioni, le relazioni, le esperienze, le comunità, eccetera, si va sfaldando sempre più, e a noi non resterà altro da fare che aggrapparsi alla costruzione virtuale di essa, le potenze mondiali si stanno organizzando per guerreggiare contro il terrorismo, per l’ennesima volta. Terrorismo che oggi si chiama Isis, o per “i più ammaestrati” Islam, ieri Bin Laden, l’altro ieri di Saddam, e che è figlio dell’egemonia occidentale, del nostro modello di sviluppo economico, che invade, sfrutta e distrugge, ma ignora quando c’è da soccorrere e ricostruire dopo aver raso al suolo ed essersi accaparrato le risorse. Conosciamo i moventi della guerra, così come conosciamo le giustificazioni utilizzate per promuoverla. Ne abbiamo esperienza. Già più di tremila anni fa, nei testi sanscriti del 1200 a.C., il termine utilizzato per indicare la guerra, युद्ध yuddha, significava “desiderio di possedere più mucche”, e più recentemente le due guerre mondiali dovrebbero essere un esempio tanto eclatante da non poter lasciare spazio all’immaginazione circa i disagi post-bellici che costituiscono il terreno fertile per le ideologie estreme dei regimi totalitari. Eppure regolarmente, metodicamente, a vincere è lo scenario vagheggiato dell’invasione dei nostri territori, della nostra libertà, della nostra sicurezza, che solletica la nostra paura, che a sua volta ci convince ad accettare l’attacco armato per difendere tutto ciò.

La politica, la democrazia, che un tempo credevamo essere soluzioni, oggi si rivelano inefficaci, trappole, sabbie mobili nelle quali l’umanità organizzata sta sprofondando. E così guerre, barbarie, razzismo e follia sono il risultato dei fallimenti delle operazioni pseudo-democratiche che perseveriamo, il vero avanzo di questo inestricabile groviglio. Troppi si ostinano a pensare che la fuga da paesi in guerra sia un segno di rinuncia e di codardia; al contrario, dovrebbe suggerire l’esperienza, essa è l’impossibilità di reazione nei confronti d’un sistema troppo grande e troppo forte da poter essere combattuto, contrastato, controllato. E a tutto questo cumulo di menzogne, oggi si aggiunge l’incubo di un’imminente invasione dei terroristi a bordo dei barconi carichi di profughi. E allora facciamo l’ennesima guerra, che darà i natali all’ennesimo nemico che dovrà essere combattuto per l’ennesima volta, non prima, s’intende, d’aver guadagnato l’ennesimo bel gruzzoletto vendendogli l’ennesimo consistente arsenale bellico.

Il nostro modello di sviluppo economico-sociale, il nostro modello democratico, non garantisce a noi, che facciamo parte di questa porzione di mondo, il giusto progresso verso una vita dignitosa, ma anzi sfrutta e alimenta l’ignoranza attraverso tagli alla Cultura, all’Istruzione, e mettendo altresì in atto campagne mediatiche mascherate sotto il nome di “informazione”, ma che nei fatti fornisce un surplus di notizie contrastanti, contraddittorie fra loro, celando in questo modo, dietro la facciata apparentemente democratica, una squallida, totale e assoluta disinformazione. La trasmissione di notizie di oggi assomiglia sempre più a un perpetuo funerale che celebra la morte dell’individualità, della razionalità, e che sembra avere il solo fine di alimentare ignoranze e inconsapevolezza. È l’eccesso delle ragioni, infatti, ad uccidere la ragione stessa. Andiamo a combattere una guerra fuori, quando l’unica a dover esser combattuta è qui e si chiama “ignoranza”. Non siamo in grado noi di conquistare dignità, come possiamo pensare di esportarla altrove, e di farlo per giunta con dignità?

2015: NON SARÀ UNA BUONA ANNATA…


In controtendenza, rispetto ai tradizionali auspici, in opposizione ai più affezionati fan dei più fidati oroscopi, infischiandomene dei folcloristici auguri di buon anno, delle ottimistiche previsioni che fantasticano su di un futuro ignorando il presente, voglio qui di seguito stendere due righe di realtà, che pur essendo spiacevole, problematica, spesso antipatica, molesta e intollerante, merita d’esser presa in considerazione.

Di giorno in giorno si susseguono notizie che mostrano tendenze negative in materia di uguaglianza. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha calcolato che tre miliardi di persone vivono oggi sotto il livello della povertà, fissato in 2 dollari di reddito al giorno. Sappiamo che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti, mentre il 20 per cento più povero consuma l’1 per cento. Si stima inoltre che il 40 per cento della ricchezza mondiale è posseduto dall’1 per cento della popolazione totale del mondo, mentre le 20 persone più ricche del mondo hanno risorse pari a quelle del miliardo di persone più povere. Nel 1998 nello Human Development Report delle Nazioni Unite si documentava che il 20 per cento della popolazione mondiale si accaparrava l’86 per cento di tutti i beni e i servizi prodotti nel mondo, mentre il 20 per cento più povero ne consumava solo l’1,3 per cento.
Se negli anni ’60 la retribuzione netta media dei Dirigenti era di 12 volte rispetto a quella media dei lavoratori, vent’anni dopo era di 42 volte, nel 1990 raddoppia a 84 volte, nel 1999 schizza a 400 e nel 2000 a 531 volte.

Tavola 1
Evidentemente qualcosa non va.

Raccogliamo, estremizzandole, quindi le idee di chi indirizza – o di chi crede di fare il bene indirizzandolo così – il mondo e la sua economia in questo senso.

Viviamo in una società che si regge sui consumi, nella quale, quindi, le persone sono vincolate (per non valersi di termini più adatti come “costrette” o “obbligate”) ad essi affinché la sua “organizzazione” non ne soffra e non rifletta conseguenze evidenti. Conseguenze che possono essere appunto più o meno visibili, giacché l’impulso a consumare, penetrato negli anni fra le vocazioni umane sfrattando dai primi posti ogni altra, è sostenuto massicciamente esercitando un’infinità di forme promozionali; è, di conseguenza, sempre più difficile riuscire a vedere quel che si nasconde dietro i cartelloni pubblicitari, dove a caratteri cubitali dominano inesauribili soluzioni ad inesauribili problemi indotti. Questa è infatti la verità indiscussa e indiscutibile sulla quale sta affannosamente tenendosi in equilibrio la nostra economia. Un paradosso, considerato l’enorme squilibrio sociale generato finora.
Tutto ciò ha un nome, una definizione ormai (è il caso di dirlo) celebre e celebrata come indispensabile, come il solo processo di sviluppo possibile per il futuro dell’umanità, smerciato ad essa come una casa di distribuzione discografica schiera sugli scaffali in bella vista, davanti a tutti gli altri, un qualsiasi vincitore di Talent Show spacciandolo proprio per talento:

Neoliberismo.

I Neoliberisti sono degli individualisti convinti, vale a dire: è al singolo individuo che spetta il compito di collocarsi nella società, di realizzare in essa la propria vita con le proprie forze e capacità, escludendo di fatto tutti coloro che non sono all’altezza di sbrogliarsela nell’arzigogolato groviglio realizzato nel tempo attraverso la commercializzazione selvaggia dell’esistenza stessa. È compito, dunque, degli individui cercare fra le soluzioni ingegnosamente disposte sugli scaffali le più adatte a dare risposte a domande tanto più stimolate quanto più infondate, ma necessarie a tenere in piedi il modello economico corrente. In poche parole: competerebbe alla maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, lasciarsi abbindolare da quanto viene offerto e fare del nostro meglio per sostenere l’attività economica. Pena l’esclusione, l’emarginazione da quel che è divenuto un meccanismo comportamentale vizioso, nel quale l’individuo si sentirà un estraneo e sarà considerato tale dalla società, asociale, perciò suscitando la stigmatizzazione del resto del gruppo che lo escluderà ancora di più.
Ancora:
“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire”, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Abbiamo detto che i consumi sono l’anima della nostra economia, ed è implicito che così indirizzata rimpolpa i soli conti in banca di chi produce beni di consumo, siano questi effimeri o necessari alla sopravvivenza. Chi produce ha interesse a minimizzare i costi di produzione massimizzando i profitti, dunque riducendo la manodopera e aumentando la meccanizzazione del lavoro i risultati possono essere sorprendenti… agli occhi di coloro che non perdono occasione di abusarne. E chi ne abusa sono gli avidi e gli avari.
L’avidità e l’avarizia sono due nozioni che hanno significati diversi, ma che se associati fanno assumere, a chi ne è conquistato, connotati più o meno consapevolmente perversi. Ed è attraverso la pubblicità, propinata collettivamente come un’esca per farci desiderare sempre qualcosa di più, che accettiamo l’avidità come modo di essere.

Non è vero quindi che chi produce e si arricchisce crea nuovi posti di lavoro.

Se ancora non basta, avviandoci alla conclusione di questo post, e di questo anno, rendiamo tutto più negativo prendendo in esame l’ultimo Rapporto dell’ILO (International Labour Organization):
“Ai ritmi attuali – si legge nel Rapporto –, da qui al 2018 saranno creati 200 milioni di posti di lavoro supplementari. Questo dato è inferiore al livello necessario per assorbire il numero crescente di nuovi ingressi nel mercato del lavoro”. […] “Il numero dei disoccupati a livello globale è salito di 5 milioni nel 2013, raggiungendo quota 202 milioni, che equivale ad un tasso di disoccupazione mondiale del 6%.
Nel 2013, circa 23 milioni di lavoratori hanno abbandonato il mercato del lavoro.
Entro il 2018 ci si aspetta un aumento di oltre 13 milioni di persone in cerca di lavoro.
Nel 2013, circa 74,5 milioni di persone tra i 15 e i 24 anni erano disoccupate, che equivale ad un tasso di disoccupazione giovanile del 13,1%.
Nel 2013, le persone che vivevano con meno di 2 dollari al giorno erano circa 839 milioni.
Nel 2013, circa 375 milioni di lavoratori vivevano con le loro famiglie con meno di 1,25 dollari al giorno.

La disoccupazione giovanile resta la principale preoccupazione.

Il rapporto sottolinea l’urgenza pressante di integrare i giovani nella forza lavoro. Attualmente, sono 74,5 milioni le donne e gli uomini disoccupati sotto i 25 anni, un tasso di disoccupazione giovanile che ha superato il 13%, ovvero più del doppio del tasso di disoccupazione generale a livello globale.

Nei paesi in via di sviluppo, il lavoro informale resta diffuso e il percorso verso un miglioramento della qualità dell’occupazione sta rallentando. Ciò significa che meno lavoratori riusciranno ad uscire dalla condizione di povertà da lavoro. Nel 2013, il numero di lavoratori in povertà estrema — che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno — è sceso solo del 2,7% a livello globale, uno dei tassi più bassi degli ultimi 10 anni, fatta eccezione degli anni immediatamente successivi alla crisi”.
[…] “La qualità del lavoro nella maggior parte dei paesi della regione (europea) è peggiorata a causa dell’ulteriore aumento dell’incidenza del lavoro temporaneo involontario e part-time, della povertà da lavoro, del lavoro informale, della polarizzazione del lavoro e dei salari, e delle disuguaglianze di reddito.
La ripresa fragile è in parte dovuta al perseguimento delle politiche di austerità nella regione.
Esiste il rischio che le politiche monetarie e fiscali continuino a non essere coordinate in quanto l’austerità fiscale è perseguita con la creazione di liquidità non convenzionale e accomodante da parte delle banche centrali degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone. […] «Con 23 milioni di persone che hanno abbandonato la ricerca di un impiego, è imperativo che le politiche attive del mercato del lavoro siano attuate con maggiore vigore al fine di contrastare l’inattività e il mismatch (condizione di disequilibrio) tra domanda e offerta di competenze», ha dichiarato Ernst, Direttore dell’Unità sulle tendenze globali dell’occupazione del Dipartimento di ricerca dell’ILO.
Una virata verso politiche più favorevoli all’occupazione e un incremento dei redditi da lavoro rafforzerebbe la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, sottolinea il rapporto. Nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, è cruciale rafforzare i sistemi di protezione sociale di base e promuovere transizioni verso l’occupazione formale. Anche questo contribuirebbe a sostenere la domanda aggregata e la crescita globale”.
(Qui il Rapporto completo)

Allora auguro a tutti noi, di cuore, un anno di consapevolezza in più, certo di felicità, e mi auguro non accettiate mai come giuste, cercando di approfondirle, le condizioni umilianti di chi non ha la possibilità materiale e la forza spirituale di lottare contro chi gli ripete che “volere è potere”, che si può tutto nonostante condizioni sociali sempre più avverse. Non è vero. Non credeteci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale.
BUON ANNO!

🙂
Cristiano

Euro sì; Euro no: parliamo del niente per risolvere niente


Se un’erbaccia non la si sradica, possiamo potarla tutte le volte che vogliamo: lei rispunterà sempre.

Il problema non è l’Euro, ma la nostra Cultura. Se oggi dovessi fare una campagna elettorale sui manifesti ci scriverei: “Più Cultura per tutti!”
Uscire dalla moneta unica non servirebbe a risolvere problemi che sono di natura “concorrenziale“: determinati dal mercato. Anche se tornassimo alla Lira, non potremmo mai competere con paesi come Cina, India, Africa, Sud America, eccetera, dove i costi di produzione rispetto alla “zona euro” sono infinitamente più bassi. Il problema non è la moneta unica, ma la produzione industriale a basso costo e la libera circolazione delle merci e dei capitali. La gran parte delle aziende delocalizza per andare a spendere meno sui costi di produzione. Tutte le aziende europee, e non solo, stanno delocalizzando o dimezzando il personale, certo non per colpa della moneta unica, che ha sì le sue colpe, ma è l’ultima ruota di un carro lanciato verso il burrone sociale.

La moneta unica è un mezzo a disposizione del fine. Togliendo un mezzo non cancelliamo un fine, poiché chi dispone delle possibilità economiche avrà comunque le condizioni favorevoli per trovare altri mezzi.

La favola che i nostri problemi economici derivino dall’Euro è una emerita arma di distrazione di massa che serve a far distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dal vero problema: la concorrenza. Il vero problema è la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari.

L’unica soluzione sarebbe quella di bloccare le importazioni e le esportazioni “in eccesso” (che sono tante), non indispensabili. Regolamentarle severamente, e seriamente, è l’unica soluzione che abbiamo. Una lenta e graduale riduzione delle importazioni e delle esportazioni, ad esempio alimentari, rispettando tutti i termini delle contrattazioni con le varie aziende produttrici, farebbe aumentare la domanda interna risollevando in un attimo l’economia di ogni Paese. Ad esempio, compriamo le patate fuori dall’Italia? Bene, ci sarà un contratto con l’azienda produttrice; rispettiamo quel contratto fino a scadenza e dopo non lo rinnoviamo. Le aziende agricole italiane se ne gioverebbero: aumenterebbero la produzione e la forza lavoro. Ma possiamo citare le arance, i legumi, i cereali, le carni, eccetera. I McDonald’s ne risentirebbero? Poco male. Dove chiude un McDonald apre McItaly dove si vendono soltanto hamburger nostrani e di qualità ai prezzi dettati dal potere d’acquisto interno, se proprio non ne possiamo fare a meno. E se invece possiamo farne a meno, allora lo sostituiamo con un negozio di alimentari come quelli d’una volta che stavano sotto casa, e che magari con due fette di pane fresco, fatto con soli ingredienti italiani, e due fette di un buon prosciutto crudo, fatto in allevamenti italiani, dà più soddisfazione di un panino fatto di plastica insaporita con gli antibiotici. Certo, dovrebbero farlo tutti i Paesi, ma questo è l’unico rimedio.

Se ogni nazione provvedesse a soddisfare gran parte del fabbisogno interno con le proprie risorse, l’economia nel giro di un paio d’anni rifiorirebbe. Quel che ha distrutto la nostra economia è il consumismo, ovvero la domanda di cose inutili, che non servono a niente. Il consumismo è un comportamento compulsivo, irrazionale, degradante, pericoloso per la stabilità fisica e mentale, individuale e collettiva. Oltre a far aumentare drasticamente l’inquinamento di intere aree, nonché atmosferico, inquina anche il nostro modo di pensare e di rapportarci con tutto quello che ci circonda. La globalizzazione, ossia la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari, è stata voluta dai capitalisti per incrementare illimitatamente, coerentemente con la definizione che li identifica, i loro capitali. Ritornando alla Lira non cambierebbe nulla riguardo alla produzione, all’esportazione e all’importazione delle merci, per questo molti economisti parlano di “sciagura economica” quando si riferiscono a queste nel caso in cui dovessimo tornare alla moneta nazionale. Io non penso che si possa andare incontro alla “sciagura”, semplicemente perché ciò è fuorviante, irrilevante. La sciagura è già in atto. È la produzione illimitata, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, e il conseguente nostro “stile di vita“, condizionato dalle pubblicità, dai modelli esposti e imposti ovunque, a causare sciagure economiche che evidentemente nessuno riesce a controllare e regolamentare, proprio perché le norme sono scritte in favore di chi detiene i capitali finanziari, il potere economico e sociale di intere nazioni. La politica è gestita dai capitali, non dai cittadini. La democrazia non esiste nella misura in cui non esistono regole che impongono alle multinazionali di limitare i loro profitti. Sono 85 le persone che detengono la ricchezza della metà del pianeta; ci vuole la metà restante, tutta insieme, per arrivare a fare il mucchio di soldi che hanno quelle 85 persone. È evidente la disparità, l’errata ridistribuzione della ricchezza, dei profitti. Questo non è un problema che riguarda solo la “zona euro”, ma tutto il mondo. Tutto il mondo soffre a causa di questo tipo di globalizzazione. Al contrario la globalizzazione dovrebbe essere culturale, ossia un arricchimento del nostro patrimonio identitario, comunitario ed egualitario. La globalizzazione in atto invece va nella direzione opposta, favorisce le discriminazioni poiché ci sentiamo in concorrenza fra di noi. Ce l’abbiamo con il bengalese perché apre il suo negozio in centro e fa prezzi bassissimi rispetto ai nostri, e così con i cinesi, con gli africani, gli indiani… Però, in realtà, quel che permette tutto ciò è questo modello economico. È quello che dovremmo combattere, non chi “ci porta via lavoro e case”.

Identificare il problema alla radice è l’unico rimedio a disposizione che abbiamo per estirparlo.

P.s. So che è impossibile ridurre le importazioni e le esportazioni: sono un utopista convinto. Ma non pensiamo che tornando alla Lira possa cambiare qualcosa. È una bugia pari alla profezia dei Maya.

Come si fa a volare con le ali spezzate?


Allora, se siamo nell’era delle post-ideologie, perché continuare a parlare di sogni? Che senso ha parlare di sogni quando sistematicamente a questi vengono spezzate le ali prima che riescano spiccare il volo? Con il termine “Post-ideologia” si indica chi ha superato le ideologie, chi, quindi, arranca nel presente nel disperato tentativo di mantenere lo status quo raggiunto. Non c’è un disegno, un’idea del futuro, né una visione storica della cultura dell’umanità nel suo complesso, che invece dovrebbe da sola costituire e costruire un’immagine del futuro ben definita. Tutti brandiscono il futuro, ma nessuno spiega quale, nessuno ne descrive i contenuti, e allora è come mostrare un quadro con la tela bianca, dove a ognuno, a proprio piacimento, ma senza pennelli e colori, è concesso di disegnarci sopra. Grazie.

La politica – la “polis” – a questo storicamente serviva, quando ancora nel praticarla con onore se ne rispettava l’etimologia, anziché annichilirla con disonore dedicandosi alla semasiologia (studio del mutamento del significato delle parole), come è avvenuto invece negli ultimi decenni facendola diventare la metafora di se stessa. Rispettare, e difendere, la storicità di un termine non equivale a una stagnazione, tutt’altro, vuol dire mantener vivi valori etici e morali che per migliaia d’anni hanno fatto la storia e la cultura dell’uomo.
Oggi il termine “politica” ha perso tutto il suo significato originale, la sua vocazione storica; non richiama più concetti come “il raggiungimento di determinati fini”, se non ormai soltanto “fini” a se stessi, ovvero la garanzia di un futuro roseo da parte di chi la esercita, il politicante, e non di chi la subisce, l’elettorato. Pensiamo a quante volte sono cambiate le società nella storia dell’uomo, e quante ideologie, quanti modelli sociali, giusti e sbagliati, si sono susseguiti. I mutamenti sono da sempre parte della natura umana, e il fatto che negli ultimi centenni, dall’inizio della Prima Rivoluzione Industriale e l’avvento del Capitalismo, ci sia stato un assestamento, un adagiarsi sugli allori e un innegabile arroccamento, non può non farci riflettere sulle cause e sulle conseguenze. La crescita indefinita e illimitata dove, in quali e a quali condizioni ci sta facendo vivere e ci farà vivere in futuro? È inconcepibile constatare come la politica non riesca più a vedere oltre il mantenimento dei propri privilegi e di coloro che nel modello di crescita infinita si arricchiscono sempre più. È inutile ricordarlo ancora una volta, ma necessario, come in questa crisi economico/culturale (l’ennesima) i ricchi si siano arricchiti in maniera esponenziale nella stessa misura in cui i poveri si sono impoveriti drasticamente. La politica è ormai pienamente collusa con chi in questa crisi sta arricchendosi.

Siamo dentro un sistema di mobilità verticale, di competizione, un sistema nel quale lo status di élite è il premio di una lotta senza regole.
La competizione è simile ad una gara sportiva, nella quale molti sono i concorrenti e pochi i premi, e la manipolazione delle regole per arrivare a tagliare per primi il traguardo individuale è vista come una qualità ammirevole. Non si tiene conto delle differenze fisiche degli atleti: apparentemente tutti partono in condizioni di parità, senza però curarsi minimamente della muscolatura, delle abilità fisiche e mentali dei concorrenti. È come se giocassimo tutti ai massimi livelli, indistintamente dalle capacità di ognuno, così diventa una sfida senza regole e senza i dovuti riconoscimenti delle differenze.

Per ciò la corruzione dilaga.

È un problema di portata globale, non certamente solo italiano, anche se il nostro Belpaese “vanta” i primi posti nella classifica dei paesi più corrotti a livello mondiale, non soltanto europei. Il numero dei parlamentari e il costo per il loro mantenimento li conosciamo tutti.

Il problema, di ognuno di noi, è che raggiunto il benessere – individuale – non si ha più il desiderio di cambiare (che dovrebbe invece essere un istinto e un pregio connaturato nell’uomo), di migliorarsi, ma pensiamo solo a godere il successo raggiunto, fregandocene altamente della comunità, del resto del mondo.

La nostra è una crescita verticale, non orizzontale, come invece dovrebbe essere. È infatti il benessere individuale, presunto, effimero, a rendere tutto stabilmente instabile.

Oggi nessuno si scandalizza più veramente, ormai siamo abituati a tutto. Nessuno più si indigna nell’animo per le tragedie che si consumano ad un ritmo vertiginoso; ci si stizzisce, ripetutamente, in piena sintonia con l’era post-ideologica, o meglio “liquida“, come Bauman ci insegna. Sentiamo di tragedie e proviamo sdegno ma, alla fine, finisce lì, giriamo pagina, cambiamo canale, andiamo per vetrine, e tutto sembra scorrere normalmente, quando invece, nell’ormai impercettibile reale realtà, c’è un mondo sul piede di guerra, che combatte, si ammazza e soffre per la mancanza di sensibilità umana, che ci convinciamo essere una mancanza che non ci appartiene, che “è sempre di qualcun altro“, mai la nostra, completamente alienati come siamo.

La metafora tanto in voga che paragona la vita a un film non è più appropriata. Siamo semmai i protagonisti degli spot pubblicitari che si susseguono tra una scena e l’altra del film drammatico della vita, se proprio vogliamo conservare la metafora.

La vita viene ormai vissuta tra una scena e l’altra.

Siamo circondati dalle distrazioni, e ci va bene così: fino a che quella “disumanità” non ci raggiunge perché mai dovremmo preoccuparci? Meglio godersi la vita finché si è in tempo. E andiamo avanti così mentre il mondo affoga nell’apatia, nell’egoismo, nell’avidità. Termini, questi, talmente d’uso comune che non fanno più alcun effetto.
Insomma, non ci siamo dentro fino al collo, ma fin sopra gli occhi.

Oggi nessuno crede più negli ideali.

Nessuno ci crede più per il fatto che negli ultimi decenni sono state tradite tutte le promesse. Ostinarsi a volerne parlare a che serve? È come pretendere di tenere in piedi un uomo con le gambe spezzate: è sadico.

Meno chiacchiere e più fatti aiuterebbero, certamente, ma si deve anche dire quale modello sociale vogliamo. Nessuno ne ha in mente uno definito, e nessuno parla pubblicamente dei problemi endemici di questa società, riconoscibili non soltanto attraverso le esperienze passate, ma anche dalla realtà che ci circonda. Di fatto, la lungimiranza, che dovrebbe essere la prima qualità di un politico, non esiste più.

Non ammettere gli errori del passato non può che servire a mantenere un potere finanziario riservato a pochi prescelti, ad arroccarsi per mantenere privilegi individuali, e non comunitari. Non esistono altre spiegazioni razionali. Quando siamo malati tutti andiamo dal dottore, o in ogni caso tutti andiamo in cerca di una cura; è il nostro istinto di sopravvivenza che ci spinge a farlo. Lo stesso dovrebbe valere nel caso di una società malata, eppure così non accade. E fino a che la politica dibatterà su come tamponare, aggiustare, correggere, anziché su come rivoluzionare, cambiare, stravolgere, questo modello sociale consumistico, nulla potrà mai cambiare, ma solo peggiorare. Fino a che non ci sarà coerenza fra ideologia e azione, e fino a quando non ci sarà qualcuno con la volontà di dare il buon esempio, tutto peggiorerà. Ce lo insegna la storia.

Fino a che nessuno parlerà e spiegherà la radice dei problemi, è inutile parlare di sogni. È questo atteggiamento che ci ha fatti sprofondare nell’era post-ideologica. Iniziamo a parlare dei veri problemi, e dopo si potrà anche tornare a parlare di sogni, a esprimere pensieri autentici, anziché di convenienza individuale. Lasciamo perdere le semantiche ideologiche, che sono espressioni della recitazione di un ruolo. Oggi non abbiamo bisogno di questo, ma di tornare alla realtà, di ricostruire delle basi solide sulle quali poggiare i sogni di un futuro possibile, e non di basi sempre più instabili dove i sogni annegano nell’oblio ancor prima di avere una speranza di realizzazione. Medichiamo le ali ai sogni, e poi torniamo a volare… Non ostiniamoci a fare il contrario, perché le cadute stanno facendo sempre più male, e sempre più vittime.

Jobs Act: lavoratori come merce di scambio


L’obiettivo, a lungo braccato, di far tornare il lavoratore ad essere merce di scambio a tutti gli effetti, e che sembrava aver raggiunto i massimi risultati con la riforma del mercato del lavoro del Governo Monti, trova oggi la possibilità di nuovi traguardi all’orizzonte grazie al “Jobs Act”. Stando a quanto l’attuale Governo si appresta a mettere in atto, sarà abbattuto ogni diritto, ogni possibilità di fare ricorso contro i soprusi esercitati dal datore di lavoro e così, per la gioia degli sfruttatori, la schiavitù tornerà ad essere di moda: alla luce del sole, ma un po’ nascosta all’ombra del classico mantra «non ci sono alternative». Sarà dato maggior potere al sistema capitalistico-neoliberista, che potranno esercitarlo senza impedimenti concretizzando il totale controllo sul corpo e sull’anima del lavoratore, sostituendo definitivamente la partecipazione dello Stato Sociale che così diventerà un surrogato a tutti gli effetti.

Un’ulteriore precarizzazione del lavoro avrà come conseguenza inevitabile la riduzione dei salari e dei diritti. I costi di produzione si abbasseranno ancora di più, e ad avvantaggiarsene saranno soltanto le grandi cooperative, le multinazionali, i grossi industriali. I piccoli imprenditori, come sappiamo, vivono di professionalità e competenza in determinati settori, non grazie al lavoro dei contratti a tempo determinato che, in aggiunta a quel che si sostiene, favoriscono non solo la compravendita di manodopera nei momenti di maggior produzione, ma “sempre”. Il totale precariato è un generatore di tensioni che avrà conseguenze disastrose (più di quelle già in atto) sull’autonomia dei lavoratori.

Orientare gli individui alla logica del mercato solo perché “i rapporti economici vanno in quella direzione”, non è certo la scelta migliore per contrastare la disoccupazione dilagante o per creare – anche solo in minima quantità – nuovi posti di lavoro. Anzi, i disoccupati accresceranno ancora di più eludendo scientemente i dati occupazionali: maggior flessibilità non comporta maggior impiego, ma ulteriore precarietà del lavoratore, che potrà essere chiamato per qualche ora alla settimana all’abbisogna facendolo risultare “parzialmente occupato”, ossia un “non disoccupato”, che sarà così gettato in un limbo da dentro il quale sarà ancora più complicato affermare la propria esistenza sociale.

Come si può pensare che un mercato senza regole o vincoli sia a sua volta in grado di indirizzare nella giusta direzione la vita dei lavoratori se ha la possibilità di sfruttarli per trarne quanto più profitto possibile? Sappiamo bene quali conseguenze ci hanno riservato la logica dei mercati economici. Il Jobs Act ha pretese che vanno al di là del buon senso, e si prefissa soltanto di agevolare e potenziare la compravendita dei lavoratori da parte delle forze del mercato, facendola diventare a tutti gli effetti una “moderna tratta di essere umani“. La “libera contrattazione” non protegge né salari né diritti, e questo dimostra quanto la politica sia male amministrata e poco equilibrata. Chi potrà più pensare di costruirsi un futuro senza avere quelle basi, quelle certezze sulle quali fino a ieri si è “retto” il nostro modello economico? Sarà ancora meno possibile, tra l’altro, pensare di accendere un mutuo, o chiedere un microprestito per quanto piccolo esso sia. “La regola” fondamentale del Jobs Act recita così: – “Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto d’inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Nessuno è in grado di dare un’interpretazione corretta al Jobs Act, infatti già da tempo ormai, come da tradizione italiana, opinionisti e pseudo, giornalisti e pseudo, ai quali è dato in carico di divulgare all’opinione pubblica il disordine, si stanno contendendo il titolo di “peggiore”. Sappiamo bene però, anche in questo caso, quanto l’eccesso di norme poco chiare che disciplinano il nostro sistema (tutto) abbia offuscato con gli anni il corretto svolgimento della macchina dello Stato. Pertanto, «processo verso un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» lascia spazio alle interpretazioni semantiche più libere da parte dei datori di lavoro. Quali sarebbero le «tutele crescenti»? Chi stabilisce quali sono e in che misura dovranno essere esercitate? Non se ne sa niente ancora; il testo è sostanzialmente blindato. Se il contratto di lavoro prevede termini di rapporto ancora più flessibili, su quali criteri si stabilisce l’avanzamento delle citate tutele? Ci sono vincoli contrattuali che riguardano quale dovrebbe essere la soglia di partenza da cui il lavoratore inizierà il suo percorso? Perché se le tutele sono crescenti, può significare soltanto che l’inizio di ogni percorso in una determinata azienda ne sarà privo, o in ogni caso ridotte al minimo, ma in un sistema nel quale la flessibilità è la regola, e la competenza non necessaria alla grossa produzione e distribuzione, basterà semplicemente assumere lavoratori sempre diversi di modo che la partenza sarà sempre con le tutele ridotte al minimo. Se maggiori tutele equivalgono a maggiori costi di produzione, il datore di lavoro per contenerli al minimo non dovrà far altro che usufruire delle agevolazioni contrattuali che il governo gli offre. È improbabile che qualcosa possa tornare a vantaggio dei lavoratori giacché i “pregi” delle forme di determinazione del salario non sono misurati in base ai loro effetti, ma alle conseguenze che hanno sui rapporti di potere impliciti nella condizione di lavoro: più produttività, meno costi di produzione, salari più bassi, maggior precarietà, meno diritti al lavoratore, minori possibilità di organizzare il proprio futuro.

Questa rivoluzione è in mano alle multinazionali. Aspettiamoci giorni bui.