Il disagio sociale


A cominciare da Darwin, l’umanità ha avuto costanti conferme sul fatto che l’ambiente circostante modifica non solo l’organismo delle specie viventi, il patrimonio genetico, ma anche le abitudini, lo stile di vita, la capacità di adattamento a un determinato ambiente: psicologicamente e biologicamente. Tutti i più recenti studi scientifici, che spaziano dalla psicologia moderna alla fisica quantistica, hanno dimostrato e continuano a confermare che l’ambiente che ospita una forma di vita modifica radicalmente la sua struttura costringendola, per istinto di sopravvivenza, all’adattamento. Non solo. L’essere umano nell’ultimo centennio è riuscito ad andare oltre modificando lui stesso l’ambiente circostante a una velocità sempre maggiore adattandolo alle sue esigenze e ai suoi capricci, stravolgendo i normali equilibri ecosistemici, mutando il corso della natura e degli eventi. In questa corsa sfrenata dei mutamenti, l’unica cosa che risulta chiara è la mancanza di equilibri. Lo si può notare con le estrazione del petrolio, dei gas, con la deforestazione, le estrazioni minerarie, le coltivazioni di ogm,
eccetera, che mutano e consumano il pianeta senza conoscere limiti per supplire a bisogni (che non più sono tali) andati ormai oltre i limiti. Il nostro è un modello di sviluppo che si pone come obiettivo una crescita infinita in un mondo finito quale è il nostro. È follia spacciata astutamente per norma. Una follia che si estende in ogni direzione e che non conosce confini e dimensioni. Un modello di sviluppo orizzontale, obliquo e verticale che scava fin nelle profondità delle sensibilità umane che hanno sempre accompagnato l’evoluzione naturale degli eventi. Si è passati infatti da un’evoluzione naturale a un’involuzione innaturale, artificiale, che mette a rischio la sopravvivenza della gran parte delle specie viventi, compresa la nostra. Se per sopravvivenza intendiamo quell’istinto innato, connaturato alle specie viventi, nel rispetto dell’ambiente circostante, oggi ci troviamo di fronte a un’istinto autodistruttivo che non ha eguali nella storia dell’umanità.
Quel che è evidente, oltre che paradossale, è che il nostro essere ne coglie le contraddizioni, ma non è in grado di gestirle. Nasce così uno scontro tra il nostro sentire e quello che ci viene imposto dall’esterno come modello, così ci troviamo con un gran vuoto dentro che non riusciamo a (tantomeno possiamo) riempire, ma ogni volta che avvertiamo quel vuoto invece tentiamo di riempirlo, consumando e consumandoci di un piacere fugace ed effimero. E appena l’effetto della novità sarà scomparso, il vuoto si farà nuovamente sentire e ricominceremo a cercare le soluzioni nelle cose anziché nelle relazioni.
Il nostro equilibrio psicologico è da sempre direttamente proporzionale alla nostra capacità di dare e ricevere come persone, indipendentemente dalle cose materiali, ma oggi appare chiaramente che tale equilibrio tende sempre più a vacillare nel vuoto interiore che ci siamo scavati. E i messaggi dai quali siamo bombardati ogni giorno sono che la nostra salute passa attraverso il consumo: più acquisto e più io acquisto personalità e fiducia in me stesso.

C’è un altro aspetto da valutare e che io non smetterò mai di sottolineare, che riguarda proprio il senso di appartenenza verso l’ambiente che abitiamo, ovvero il nostro essere-nel-mondo (con-essere). Non ci sentiamo più parte di una comunità: fino a non molto tempo fa i nostri problemi erano i problemi della comunità alla quale appartenevamo e viceversa. Ci siamo trasformati oggi in individui separati dagli altri, e la competizione è infatti un sentimento sempre più comune, di conseguenza tendiamo a fare i nostri esclusivi interessi personali innalzando attorno a noi un egoismo a difesa. E in una realtà sempre più precaria e competitiva, dove la persona viene ridotta a merce o, nel migliore dei casi, a consumatore di merce, il senso di inadeguatezza, di alienazione cresce. Il vero rischio è che questo venga interiorizzato a tal punto che lo si accetti, che lo si consideri inevitabile. Allora soffriamo di fronte a ciò che si è convinti di non poter cambiare, pertanto lo accettiamo ma non proviamo a combatterlo. È un meccanismo che seda la rabbia, la reprime anziché spingerci ad esternarla, creando una pericolosa assuefazione al disagio quotidiano, dove lottiamo continuamente non per cambiare le cose ma per arrivare alla fine del mese o avere fra le mani l’ultimo modello di smartphone da esibire come simbolo di appartenenza, in un modello sociale dove si viene riconosciuti soli in quanto consumatori.

Non smettere mai di desiderare è infatti il principio economico base che tiene in piedi la nostra società.

In questo disagio ci convinciamo di essere responsabili dei nostri fallimenti, la critica ricade su noi stessi, cerchiamo di darci sempre più da fare, ma il contesto è talmente avverso che la nostra operosità a portare il cambiamento risulta inutile, inefficace, perciò non riponiamo fiducia nelle nostre potenzialità. Ci sentiamo impotenti di fronte al sistema nel suo complesso e, a breve termine, non possiamo che rimanerne sconfitti.

Le uniche soluzioni a nostra disposizione non possiamo che trovarle nella cultura, nell’educazione, nella corretta informazione e nei gruppi di autoconsapevolezza, che sono gli unici elementi in grado di agire a livello sociale.
Non è un’epoca facile, e non possono avvenire cambiamenti rapidi per ristabilire i giusto equilibri, e il problema è a questo punto una questione di tempo: quanto ancora ne abbiamo a disposizione per limitare gli stravolgimenti sociali dovuti al modello imperante?

Ma quel che è importante da capire è che non esistono soluzioni individuali a problemi psicologici di natura sociale. Dobbiamo ritrovare quel senso di umanità, di comunità che abbiamo messo da parte e pretendere con tutte le nostre forze un’educazione rivolta a sensibilizzare gli individui su questi temi per tornare ad essere quelli che siamo sempre stati in natura.

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Leader carismatici: funzionano?


Come ci insegna Max Weber, esistono tre tipi di autorità nella nostra società: tradizionale, carismatica e legale-razionale.
Vediamo quali sono le differenze.

Innanzi tutto dobbiamo chiederci:
su quali basi quelli che detengono l’autorità hanno il diritto di impartire ordini alla popolazione che si trova sotto il loro dominio?
L’autorità tradizionale risponde a questa domanda sulla base di quanto è successo prima. In altre parole, la legittimità si basa semplicemente sul fatto che si è sempre fatto in quel modo.

L’autorità carismatica, al contrario, si basa sulle doti eccezionali attribuite a chi le esercita: in virtù di questa caratteristica di eccezionalità, i capi carismatici abrogano o modificano la tradizione. Ad esempio, la frase che Gesù ripete nel Nuovo Testamento, «Avete udito che fu detto, ma io vi dico…» è una pura affermazione di autorità carismatica.
Domanda: con quale diritto quest’uomo fa delle dichiarazioni così eccezionali?
Risposta: ne ha diritto perché Dio parla attraverso lui.
Come si nota nella risposta non appare alcun fondamento razionale, ma al contrario suscita un sentimento fideistico, peculiare nelle persone propense a seguire un leader carismatico.

L’autorità carismatica appare sempre contrapposta ad un’autorità tradizionale, che mette in discussione sia cercando di cambiarla, sia, nel caso estremo, tentando di abbatterla.
L’autorità carismatica è intrinsecamente rivoluzionaria: essa sconvolge le forze abitudinarie su cui riposa il potere tradizionale. Ma per questo stesso motivo l’autorità carismatica è estremamente precaria e non è in grado di mantenersi a lungo; essa può instaurarsi soltanto in un’atmosfera di intensa esaltazione. Forse per la stessa natura dell’uomo questo stato di esaltazione non può durare a lungo e, quando incomincia a spegnersi, l’autorità carismatica dev’essere modificata o sostituita da qualche altra forma di autorità.

L’autorità legale-razionale infine è basata sulla legge e su procedure razionalmente dimostrabili.
Domanda: con quale diritto l’esattore può esigere una tassa?
Risposta: ne ha il diritto grazie a una determinata legge approvata dal Parlamento.
A differenza dei primi due tipi, questa forma di autorità non si avvolge di mistero, e la fede in questo caso non trova collocazione e non ha alcun valore.
In ogni caso, l’esercizio del potere legale-razionale è, come si dice, confortato da specifici provvedimenti di legge che, almeno in linea di principio, possono essere spiegati razionalmente, assieme alle finalità sociali che ne stanno alla base.

Il tipo di autorità carismatica è il più comune nel mondo d’oggi, e la forma amministrativa che gli si addice e lo legittima è, come abbiamo visto, la fede. Ma una fede a tempo determinato: almeno fino a quando l’atmosfera di intensa esaltazione si manterrà alta, ovvero fino a quando la popolazione non si accorgerà che saranno tradite le aspettative promesse.
A questo punto, però, nasce un problema, ovvero la percezione che si ha della realtà. Viviamo in una società mass-mediatica: percepiamo la realtà che ci circonda più come ci viene presentata, narrata dai media, che come è nella realtà che viviamo. Questa, che si può definire “alienazione dalla realtà“, viene ben espressa da Eriksen:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(Eriksen, “Tempo tiranno”, p. cit. 139, 144)

E una delle conseguenze è proprio quella che William Thomas acutamente sintetizza così:
“se la gente definisce una situazione come reale, essa produce delle conseguenze reali”.

Pertanto, l’autorità che risulterà più efficace e durevole nel tempo dipenderà da quel che la maggioranza della popolazione percepirà come “reale“, indipendentemente dalla “reale realtà“.

Jobs Act: lavoratori come merce di scambio


L’obiettivo, a lungo braccato, di far tornare il lavoratore ad essere merce di scambio a tutti gli effetti, e che sembrava aver raggiunto i massimi risultati con la riforma del mercato del lavoro del Governo Monti, trova oggi la possibilità di nuovi traguardi all’orizzonte grazie al “Jobs Act”. Stando a quanto l’attuale Governo si appresta a mettere in atto, sarà abbattuto ogni diritto, ogni possibilità di fare ricorso contro i soprusi esercitati dal datore di lavoro e così, per la gioia degli sfruttatori, la schiavitù tornerà ad essere di moda: alla luce del sole, ma un po’ nascosta all’ombra del classico mantra «non ci sono alternative». Sarà dato maggior potere al sistema capitalistico-neoliberista, che potranno esercitarlo senza impedimenti concretizzando il totale controllo sul corpo e sull’anima del lavoratore, sostituendo definitivamente la partecipazione dello Stato Sociale che così diventerà un surrogato a tutti gli effetti.

Un’ulteriore precarizzazione del lavoro avrà come conseguenza inevitabile la riduzione dei salari e dei diritti. I costi di produzione si abbasseranno ancora di più, e ad avvantaggiarsene saranno soltanto le grandi cooperative, le multinazionali, i grossi industriali. I piccoli imprenditori, come sappiamo, vivono di professionalità e competenza in determinati settori, non grazie al lavoro dei contratti a tempo determinato che, in aggiunta a quel che si sostiene, favoriscono non solo la compravendita di manodopera nei momenti di maggior produzione, ma “sempre”. Il totale precariato è un generatore di tensioni che avrà conseguenze disastrose (più di quelle già in atto) sull’autonomia dei lavoratori.

Orientare gli individui alla logica del mercato solo perché “i rapporti economici vanno in quella direzione”, non è certo la scelta migliore per contrastare la disoccupazione dilagante o per creare – anche solo in minima quantità – nuovi posti di lavoro. Anzi, i disoccupati accresceranno ancora di più eludendo scientemente i dati occupazionali: maggior flessibilità non comporta maggior impiego, ma ulteriore precarietà del lavoratore, che potrà essere chiamato per qualche ora alla settimana all’abbisogna facendolo risultare “parzialmente occupato”, ossia un “non disoccupato”, che sarà così gettato in un limbo da dentro il quale sarà ancora più complicato affermare la propria esistenza sociale.

Come si può pensare che un mercato senza regole o vincoli sia a sua volta in grado di indirizzare nella giusta direzione la vita dei lavoratori se ha la possibilità di sfruttarli per trarne quanto più profitto possibile? Sappiamo bene quali conseguenze ci hanno riservato la logica dei mercati economici. Il Jobs Act ha pretese che vanno al di là del buon senso, e si prefissa soltanto di agevolare e potenziare la compravendita dei lavoratori da parte delle forze del mercato, facendola diventare a tutti gli effetti una “moderna tratta di essere umani“. La “libera contrattazione” non protegge né salari né diritti, e questo dimostra quanto la politica sia male amministrata e poco equilibrata. Chi potrà più pensare di costruirsi un futuro senza avere quelle basi, quelle certezze sulle quali fino a ieri si è “retto” il nostro modello economico? Sarà ancora meno possibile, tra l’altro, pensare di accendere un mutuo, o chiedere un microprestito per quanto piccolo esso sia. “La regola” fondamentale del Jobs Act recita così: – “Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto d’inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Nessuno è in grado di dare un’interpretazione corretta al Jobs Act, infatti già da tempo ormai, come da tradizione italiana, opinionisti e pseudo, giornalisti e pseudo, ai quali è dato in carico di divulgare all’opinione pubblica il disordine, si stanno contendendo il titolo di “peggiore”. Sappiamo bene però, anche in questo caso, quanto l’eccesso di norme poco chiare che disciplinano il nostro sistema (tutto) abbia offuscato con gli anni il corretto svolgimento della macchina dello Stato. Pertanto, «processo verso un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» lascia spazio alle interpretazioni semantiche più libere da parte dei datori di lavoro. Quali sarebbero le «tutele crescenti»? Chi stabilisce quali sono e in che misura dovranno essere esercitate? Non se ne sa niente ancora; il testo è sostanzialmente blindato. Se il contratto di lavoro prevede termini di rapporto ancora più flessibili, su quali criteri si stabilisce l’avanzamento delle citate tutele? Ci sono vincoli contrattuali che riguardano quale dovrebbe essere la soglia di partenza da cui il lavoratore inizierà il suo percorso? Perché se le tutele sono crescenti, può significare soltanto che l’inizio di ogni percorso in una determinata azienda ne sarà privo, o in ogni caso ridotte al minimo, ma in un sistema nel quale la flessibilità è la regola, e la competenza non necessaria alla grossa produzione e distribuzione, basterà semplicemente assumere lavoratori sempre diversi di modo che la partenza sarà sempre con le tutele ridotte al minimo. Se maggiori tutele equivalgono a maggiori costi di produzione, il datore di lavoro per contenerli al minimo non dovrà far altro che usufruire delle agevolazioni contrattuali che il governo gli offre. È improbabile che qualcosa possa tornare a vantaggio dei lavoratori giacché i “pregi” delle forme di determinazione del salario non sono misurati in base ai loro effetti, ma alle conseguenze che hanno sui rapporti di potere impliciti nella condizione di lavoro: più produttività, meno costi di produzione, salari più bassi, maggior precarietà, meno diritti al lavoratore, minori possibilità di organizzare il proprio futuro.

Questa rivoluzione è in mano alle multinazionali. Aspettiamoci giorni bui.

Vita di classe: cosa è cambiato?


Negli anni settanta la società era nettamente divisa in classi sociali. In linea di massima, a partire dal ceto medio fino ai livelli più elevati si aveva un’aspettativa di vita più lunga, meno malattie (sia di natura mentale che fisica), un’istruzione superiore, un reddito annuo maggiore, un livello di “felicità” più alto, meno divorzi e una vita sessuale più varia e ricca di fantasia (strano ma vero) rispetto ai ceti più bassi. Ma c’è di più. C’era un’ulteriore differenziazione nei comportamenti illegali. Coloro che appartenevano ai ceti più alti commettevano reati di natura finanziaria: evasione, truffa, frode, reati contro il patrimonio, appropriazione indebita di fondi e altre operazioni finanziare. I ceti più bassi commettevano di più reati che implicavano l’uso della violenza: furti e rapine al primo posto. Non vanno dimenticate le “discriminazioni giudiziarie di classe”: chi apparteneva a una bassa estrazione sociale faceva fatica a (o non poteva affatto) difendersi in un’aula di tribunale, mentre le classi più alte, che erano molto più in grado di assicurarsi un’assistenza legale più competente, non trovavano difficoltà.
Appartenere ai ceti più elevati significava quindi avere un futuro più roseo: maggiore istruzione, che consentiva loro di trovare un posto di lavoro ben retribuito, assistenza sanitaria di qualità, di conseguenza una vita più sana e più lunga. Ai ceti bassi invece era riservato un futuro tutt’altro che promettente, men che meno sano.

Secondo voi oggi è cambiato qualcosa? Se sì cosa? Sono state abbattute le disuguaglianze e le discriminazioni tanto promesse e sventolate in oltre quarant’anni di campagne elettorali? L’istruzione è ancora valida per garantirsi un futuro? (Questa potevo risparmiarmela)

In ultimo, una considerazione semantica sull’uso del termine “violenza” inerente ai comportamenti illegali:
trovo più violenti reati come l’evasione, la truffa, la frode fiscale, i reati contro il patrimonio, l’appropriazione indebita di fondi e altre operazioni finanziare rispetto a quelli commessi da chi viene “costretto” a commettere illegalità da un sistema sociale profondamente e volutamente discriminatorio. È certo che reati di natura finanziaria aumentano le disuguaglianze poiché privano la macchina sociale delle risorse necessarie per abbatterle, ovvero privano i cittadini meno abbienti dei diritti fondamentali che dovrebbero essere loro garantiti. Una vita dignitosa non è un comfort riservato ai più abbienti, ma un diritto che deve essere garantito a tutti, indiscriminatamente.

Il suicidio


Oggi, con la crisi che stiamo vivendo, i suicidi purtroppo sono all’ordine del giorno, e le cronache sono piene di storie di imprenditori, adolescenti, persone comuni che si tolgono la vita. Una società apatica come la nostra, che pone sempre in primo piano gli interessi economici, difficilmente riuscirà a farci riflettere sulle reali cause che spingono un individuo a commettere quel gesto, che ci viene raccontato metodologicamente come incomprensibile, attestando così la sua intima genesi. La semplicità e la superficialità con le quali viene correlato alla crisi economica attuale non basta a chiarirne l’origine, non basta a mettere a fuoco ciò che coviamo quando ci sentiamo abbandonati a noi stessi dallo Stato, dalla società; tutt’altro. I modelli di vita che ogni giorno ci vengono sbattuti in faccia, la mancanza di lavoro, i debiti, i salari al minimo storico, i legami che si consumano con la stessa velocità con cui cambiamo paio di scarpe; le cause sono tante, ma non è mai una da sola, singolarmente, a destabilizzare l’equilibrio interiore di un individuo; solo mettendole tutte insieme ci è possibile disegnare il profilo di una società, di una collettività che si sta disgregando sempre più velocemente. Possiamo provare così a comprendere come questo modello sociale stia portando allo stremo psicologico un’intera collettività.
In Tv, nei media in generale, si vanno a ricercare le cause nella vita intima dell’individuo, scavando nelle sue quotidianità, nel suo conto in banca, nei rapporti familiari, con gli amici, e quant’altro possa servire a tenere incollato un pubblico sempre più esortato a spiare la vita intima del prossimo, e sempre meno coinvolto e stimolato a ricercare le cause nell’insieme dei fattori. I media offrono uno spettacolo, di questo vivono, e più si offre uno spettacolo incentrato sulla sfera intima, più ci sentiamo attratti e stimolati a fare il confronto con la nostra. Così, ci troviamo a soffrire per un altro suicidio, ma con la quasi convinzione che la colpa appartiene all’esclusiva debolezza individuale, intima.
In questo spazio cercherò, attraverso Emilie Durkheim, di indicare al lettore un percorso che non termina certo con questo articolo, che non vuole in alcun modo essere conclusivo, tantomeno giudizioso, ma che vuole riflettere su alcuni aspetti e fatti che non possono e non devono essere dimenticati o messi in disparte, se si vogliono affrontare argomenti di tale rilevanza, che riguardano ognuno di noi, indistintamente.

Il primo in tutta la storia dell’umanità ad occuparsi del suicidio con una prospettiva sociologica documentandosi minuziosamente fu Emile Durkheim a fine ‘800.
Durkheim fu colui che non solo diede alla sociologia un’impronta decisiva, ma fu una figura di grande rilievo nella vita intellettuale e persino politica del suo tempo. Fu parte attiva nelle principali crisi politiche ed intellettuali della Francia della Terza Repubblica: un periodo molto travagliato per le politiche, che all’epoca avevano la connotazione di sinistra e destra e che rappresentavano rispettivamente la fede negli ideali della Rivoluzione (repubblicani, progressisti, anticlericali) e la resistenza ad essa dei conservatori. Durkheim si identificava tra le fila dei rivoluzionari. Il conflitto giunse al suo epilogo durante il celebre affare Dreyfus che divise la Francia in due fazioni opposte. Durkheim, che era ebreo, discendente di una lunga progenie di rabbini alsaziani, avvertì ancor più di altri questo conflitto, e quando la battaglia (che sancì la separazione tra la chiesa e lo stato nel 1905) vide trionfante la sinistra, divenne un personaggio importante negli ambienti politici oltre che in quelli accademici. Era convinto che la sociologia potesse dare un grande contributo all’educazione morale dei bambini in sostituzione della tradizionale istruzione religiosa. Così, grazie a lui la sociologia divenne in Francia una sorta di catechismo profano.
Il periodo in cui visse fu generalmente caratterizzato da disordini e squilibri, e le sue conoscenze pratiche e politiche furono rivolte ad affrontarli. Cercava l’ordine, e spese tutta la vita ponendo sempre di fronte a sé questa domanda: «come è possibile l’ordine sociale?». Nel cercare risposte Durkheim compie la sua prima opera: “La divisione del lavoro sociale”, in cui vi sostiene che “ogni umana società richiede solidarietà”, cioè che gli uomini abbiano la sensazione di appartenere a un qualcosa di comune. Senza entrare troppo nel merito, da un punto di vista storico egli distingueva (per delineare lo sviluppo della società moderna) in due parti il senso di solidarietà: meccanica (tipica delle società antiche) e organica (caratteristica delle società moderne). Facendo riferimento all’ultima, Durkheim considerava questo tipo di solidarietà molto più complessa della prima, in cui i legami consistevano in una complicata trama di relazioni contrattuali. Una società basata sulla solidarietà meccanica si fonda sulla fede e sul sentimento di amicizia, mentre quella organica sulla legge e la ragione. Fu Durkheim (attraverso un lungo percorso di studi e analisi riportati nel suo volumetto “Le regole del metodo sociologico”) che tentò di dimostrare che la società aveva una realtà sua propria, che non poteva essere ridotta a fatti psicologici, che la società era “una realtà sui generis”, ovvero che la società resiste ai nostri pensieri e alle nostre speranze, poiché ha un’oggettività che si può paragonare, fatte le debite proporzioni, all’oggettività della natura. Di li a poco riuscì ad evidenziare che la società, nel suo insieme combinava una “coscienza collettiva”, e si dedicò a studiare le cause sociali del suicidio. Nella sua opera “Il suicidio” fu particolarmente convincente nel dimostrare (avvalendosi di un gran numero di dati statistici) che le cause di quel gesto erano di natura sociale. Fino al quel momento infatti il suicidio appariva come uno degli atti più esclusivamente individuali di cui gli uomini sono capaci. Pertanto, dimostrò che quell’evento, fra i più individuali, si rivelò invece essere determinato da fattori collettivi. Ad esempio dimostrò che vi erano più casi di suicidio nelle città che nelle campagne, più tra i Protestanti che tra i Cattolici, più tra le donne divorziate e vedove che tra quelle sposate. In ciascun caso Durkheim sosteneva che la differenza andava spiegata tenendo conto della diversa influenza dei legami sociali o della “solidarietà sociale”. In sostanza, egli sosteneva che le cause andavano ricercate nel disordine o nella mancanza di norme, ovvero nella condizione (di individui o gruppi) nella quale vi è assenza di solidarietà sociale o di legami sociali. Nei suoi studi Durkheim riuscì a dimostrare con estrema evidenza che tale solidarietà è assolutamente necessaria per la vita e che esserne privati costituisce una condizione quasi insostenibile per un essere umano. In ultima analisi, dimostrò che in mancanza dei valori fondamentali a tenere unità una società, l’essere umano si rivelava essere drammaticamente fragile, e intimamente solo, poiché circondato da una società evidentemente sempre più in preda all’apatia.

Oggi più che mai i suicidi non possono essere considerati come fatti isolati, intimi, dovuti all’esclusiva debolezza individuale, e solo affrontando il problema alla radice ci è possibile comprenderne le cause. Una società consumistica come la nostra, dove tutti siamo esortati a consumare per mantenere il nostro status sociale, non può che essere destinata al fallimento. Tutto ciò che consumiamo è consumato, e per quanto si tenti di riciclarlo, una parte verrà comunque scartata. E l’abitudine a consumare qualunque cosa è entrata a far parte del nostro modo di relazionarci; i rapporti interpersonali poggiano su basi friabili, consumate anch’esse dall’ego generato dal desiderio di possedere tutto e tutti senza conservare niente. Proseguendo in questa direzione il futuro non è incerto: è chiaro, facilmente individuabile, inevitabile, e non può che essere uno solo. Il corso degli eventi sta già consumando la popolazione, e i suicidi sono un termometro più che valido per stabilire la temperatura di una società sempre più febbrile, malata. Possiamo cambiare, ma non possiamo nella stessa misura in cui non prendiamo coscienza della reale gravità della situazione sociale. E le speranze, più avanti andiamo, sembrano restringersi sempre di più. Quel che è certo, è che non possiamo più delegare, non possiamo più permetterci lasciare che le cose cambino da sole: dobbiamo darci una mano, cercare di essere più solidali, e comprendere che abitiamo tutti lo stesso mondo. Insieme.

L’industria dei consumi


Dovrebbe essere ovvio che tutta questa insistenza sulla necessità di smaltire gli oggetti, abbandonarli, liberarsene, invece che sull’appropriarsene, si adatta alla perfezione alla logica della nostra economia orientata al consumatore. Se la gente si tenesse stretti i vestiti, i computer, gli smartphone o i cosmetici di ieri sarebbe un disastro (e lo è) per un’economia la cui preoccupazione principale, la condizione della sua sopravvivenza, è destinare in tempi rapidi e sempre più serrati i prodotti al “consumatore”, che acquista e vende ormai vicino ai cassonetti della spazzatura; e in un’economia come questa, la velocità di smaltimento dei rifiuti è (dovrebbe essere) l’industria di punta. Ma non è così, quando a mettere le mani su questa sono corrotti e corruttori. La “Terra dei fuochi” è (dovrebbe essere) per noi emblematica; e anche se a prima vista potrebbe sembrare che nelle nostre coscienze tutto questo passi senza lasciare alcuna traccia, è in realtà quanto di più sbagliato si possa pensare: i rifiuti non sono soltanto le confezioni di ciò che acquistiamo e consumiamo; sono tutto ciò che prepotenza, avidità, egoismo e incoscienza fabbricano ogni volta che ci spingono ad oltrepassare i limiti del buon senso e del bene comune, perciò, inevitabilmente, inesorabilmente, sedimentano in noi, rendendo comportamenti illogici, irrazionali e impulsivi normali abitudini, inquinando la nostra coscienza e il nostro senso di appartenenza e di rispetto altrui; nonostante l’industria dello spettacolo e del divertimento si prodighi, ovviamente, per convincerci del contrario.

Inferno


“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Italo Calvino
Le città invisibili” (Einaudi, Torino 1972, p. 170)

Ma è certo che gli uomini e le donne che si sforzano di scoprire «chi e cosa non è inferno» devono far fronte a pressioni di ogni genere che li spingono ad accettare ciò che essi insistono a chiamare «inferno». L’inferno è ormai routinizzato, non proviamo più sorpresa e non sappiamo più distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Quando abbiamo a che fare con il male, la prima volta ci sbalordiamo ed “esclamiamo!”. Dopo la seconda, la terza, la quarta volta che lo si incontra, la nostra reazione sarà al massimo un “ecco che ci risiamo…”, che ne attesta il riconoscimento routinario, che ne esprime la presenza abituale nella nostra vita quotidiana, nel nostro modo di vedere e vivere lo spazio che ci circonda. E lo si accetta e lo si somatizza, dando così combustibile per alimentare le fiamme dell’inferno.
Solo l'”innocenza” di un bambino è in grado di testimoniare quanto e quanti siamo colpevoli. E il male, è che non sorprende affatto scoprire che siamo tutti adulti.

Viaggio alle origini del male


C’è una storiella che parla di un ubriaco e di un bidone d’immondizia. Sembra che questo ubriaco fosse seduto sul marciapiede di fronte ad un bidone di spazzatura e che tentasse con molto impegno e con il massimo sforzo di abbracciarlo. Alla fine, dopo un certo numero di tentativi falliti, l’ubriaco riuscì a circondare con entrambe le mani il bidone di immondizie: sorrise con un ghigno di trionfo, ma immediatamente gli si dipinse in viso un’espressione di sgomento ed egli mormorò tra sé e sé: «Sono circondato!».

La società è l’esperienza che noi facciamo di altre persone intorno a noi: questa esperienza è con noi praticamente dal momento in cui vediamo la luce. È nostra madre la prima che ci chiama per nome e ci spiega la differenza tra un albero e un palo della luce. Questo va avanti per tutta la vita, sia che si tratti di nostra madre, o di altri individui o gruppi che siano. Noi continuiamo a cercare gli altri e gli altri continuano a cercare noi. La società è un’esperienza che dura tutta la vita, ed è anche una delle esperienze che più contano per noi. Essa poi è tutto questo molto prima che noi cominciamo a riflettere su di essa deliberatamente. La società è il nostro modello di riferimento fin dapprima di essere-nel-mondo. È un’esperienza con la quale non possiamo dialogare da subito, dapprima di subito. La società è tutto ciò che ci influenza e influenziamo noi stessi. La società è però una prospettiva che, se vogliamo, possiamo anche cambiare.

Fatta questa breve ma doverosa premessa, con lo scopo di chiarire il fatto che non siamo i soli responsabili, ma che allo stesso tempo tutti lo siamo, e che la miseria umana dalla quale siamo circondati è, che ci piaccia meno, che lo si creda o meno, o che lo si accetti o meno, “anche” una nostra responsabilità.

Un tempo “solidarietà” era sinonimo di “collettività”, e anche di “appartenenza”, un loro complemento, adesso invece è praticamente la succursale di un suo surrogato, ovvero un mezzo per scaricarci di dosso ogni responsabilità, per avere più tempo a disposizione da dedicare ai “nostri” interessi, alla “nostra” vita. La nostra è diventata ormai una “solidarietà delegata”, alienata. È come avere una vicina di casa anziana, sola, impedita, che ogni giorno per poter mangiare necessita di qualcuno che le vada a fare la spesa. Noi siamo a casa tutto il giorno e saremmo disponibilissimi, nonostante ciò, preferiamo chiamare un volontario che nemmeno conosciamo chiedendogli di farci il favore di fare il favore alla nostra vicina di casa di andarle a fare la spesa. È strano, tuttavia ogni giorno ci comportiamo (dai, non tutti) proprio così.

Come ci siamo arrivati?

Siamo “nel” mezzo e al contempo “il” mezzo a disposizione di chi genera povertà collettiva e ricchezza individuale. Noi, che siamo diventati operai (naturalmente mal pagati) nella fabbrica della povertà, in questo siamo certamente, seppur inconsciamente, e ovviamente “obbligati” a farlo, molto più solidali di quanto si riesca a immaginare; siamo una collettività di individui che lavorano uniti per conseguire un unico scopo: permettere a chi vuole arricchirsi sulle nostre spalle di raggiungere l’obiettivo.
Basti pensare che la ricchezza di 85 “paperoni” è pari a quella della metà più povera del pianeta: l’1% della popolazione mondiale detiene metà della ricchezza del pianeta. E il reddito di quest’1% dei più ricchi ammonta a 110.000 miliardi di dollari, ossia 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo: circa 1700 miliardi di dollari. È evidente che esiste un problema di confini, di limiti, di disuguaglianze, di ridistribuzione della ricchezza. E noi siamo coloro che con il nostro “surrogato di solidarietà” facciamo in modo che questa ricchezza si alimenti e consolidi ogni giorno di più. E devo dire che ce la stiamo mettendo davvero tutta. A me non piace parlare di euro, di tassi di scambio, di alta finanza, di numeri, tabelle, PIL, manovre economiche, borsa, e quant’altro serva a distogliere lo sguardo dal vero problema: il “consumismo“, che già il termine in sé mi fa rabbrividire. Preferirei parlare di educazione e di modelli educativi, di consapevolezza, di appartenenza, di cultura, ovvero degli unici fattori in grado di concorrere alla risoluzione dei nostri problemi. Le politiche, che oggi sono affidate al mondo finanziario, ossia a quella sfera che si occupa di interessi economici privati, hanno smesso di fare il mestiere per cui erano state (o avrebbero dovuto essere) chiamate ad operare dopo le due Guerre Mondiali, con tutto quello che c’è stato nel mezzo, come la Grande Depressione del ’29, che non sempre ricordiamo, e non certo per una questione anagrafica. Le politiche sociali, come le tragiche esperienze ci avevano insegnato, dovevano servire a ridurre le disuguaglianze fra i popoli e a ridistribuire la ricchezza, invece si sono ridotte ad essere uno strumento alle mercé di una élite che guarda solo al proprio interesse, che per raggiungere gli obiettivi preposti ha sfruttato (e continua a sfruttare) e alimentato (e continua ad alimentare) la nostra ignoranza, riuscendoci talmente bene che i risultati possono essere sotto gli occhi di tutti, se si ha la pazienza e la volontà di vederli, e soprattutto di ascoltarli. Oggi ci troviamo a fare i pezzi di un puzzle nelle mani di meno di un centinaio di persone che, metodicamente, usando tutta la tecnologia (mi passo il termine da solo) psicologica persuasiva che la ricerca ha messo a disposizione dell’umanità negli ultimi anni, ci incastrano assieme anche quando non coincidiamo per niente, a farci così assumere forme e disegni disordinati, scoordinati, che non hanno logica e forma, ma che a noi appaiono tutt’altro, istruiti e abituati ormai come siamo a guardare la cornice anziché il contenuto, o il singolo pezzo anziché l’insieme dei pezzi.

Cosa li spinge a farlo?

Il massimo che gli appartenenti all’élite dei potenti globali riescono a gestire rientra in un raggio che non va oltre i loro interessi. Se le cose si fanno troppo problematiche per potersi sentire a proprio agio, e lo spazio attorno a sé si dimostra troppo difficile da gestire, possono trasferirsi altrove; dispongono di un’opzione che il resto della popolazione non ha. L’opzione di trovare un’alternativa più piacevole ai fastidi della convivenza sociale gli altri se la possono solo sognare: è il lusso di un’altezzosa indifferenza che quegli altri non possono permettersi.

Come riescono a farlo?

Siamo esortati ogni giorno a compiere scelte che mai sentiremmo di dover fare se non fossimo costretti dagli esempi che ci circondano, e a nostra volta noi stessi siamo e diamo l’esempio. Come in un circolo vizioso, siamo ormai convinti, assuefatti dal fatto che se la maggioranza si comporta in un certo modo, allora ci sentiamo legittimati a fare altrettanto, a imitare comportamenti, copiare azioni, riprodurre suoni, parole, concetti, ragionamenti, in una sorta di simulazione che non sembra avere (e in definitiva non li ha) limiti e fini, tanto meno ragioni. Non è un caso che le politiche odierne effettuino tagli ai budget della ricerca, del sistema scolastico e a tutto ciò che riguarda la sfera culturale. Le chiamano politiche di austerità, o “austerity” che fa più figo, che è sinonimo di rigore, di severità, e che evoca una punizione per qualcosa di sbagliato che si è fatto. E se a sbagliare è stato un manipolo di finanzieri, poco importa, a pagare deve essere (sempre) il popolo, naturalmente quello più povero, che con le speculazioni finanziarie non ha nulla a che vedere… D’altronde non possono mica autopunirsi. Bisogna capirli.

Quali sono le conseguenze?

Non è un caso, dicevo, e anche in questo di caso: che ci piaccia meno, che lo si creda o meno, o che lo si accetti o meno.

È scientificamente provato che mantenere la popolazione sotto un certo livello culturale ne garantisce la governabilità da parte di chi desidera approfittarsene. È un dato oggettivo, essenziale, e non andrebbe mai trascurato. Un altro dato oggettivo è il fatto che questa élite non mette in conto le violenze che inevitabilmente scaturiscono dalla povertà: togli il pane da sotto i denti a qualcuno, e costui per sopravvivere si “dedicherà” a pratiche illegali, pur di sopravvivere. Dunque, con la povertà aumenta il tasso di delinquenza; è una conseguenza naturale, umana, endemica; purtroppo l’uomo è pieno di vizi, fra i quali la fastidiosissima inclinazione alla sopravvivenza.

E allora come fare per fronteggiare tutto ciò?

La risposta non è facile. Bisogna tener conto di un altro aspetto dell’uomo, anch’esso profondamente sottovalutato, ma fondamentale per comprendere la situazione in cui ci troviamo, ovvero l'”avidità“; difetto cresciuto esponenzialmente con la stessa velocità e la stessa grandezza con le quali sono cresciute le tecnologie e i comfort effimeri.
Essa, come tutti sappiamo, rende ciechi, non consente di trovare la volontà di risolvere i problemi alla loro radice, specie quando quei problemi sono causati da chi viene chiamato a risolverli, pertanto, le uniche misure in concessione/delega ai governi sono di natura repressiva, ovvero l’inasprimento delle pene, che a loro volta riempiono le carceri, che arrivate a un certo punto di sopportazione rischiano di far scoppiare in rivolta gli “ospiti”, perciò non rimangono che misure estreme, “emergenziali“, come indulti e amnistie. La repressione alimenta rabbia e frustrazioni, e indulti e amnistie insicurezze poiché si ha la percezione che ci siano più delinquenti in libertà, mentre la costruzione e la successiva eventuale gestione di nuove carceri comporterebbe un enorme esborso di denaro, e dal momento in cui non si ha intenzione di sovvenzionare le politiche sociali, per quale motivo si dovrebbero sostentare i delinquenti? L’insicurezza è anche una debolezza che viene sfruttata dalle politiche, e anche qui, non è un caso che le campagne elettorali vengano incentrate sempre più su questo aspetto.

Come ne usciamo, dunque?

La povertà è ingovernabile, e la storia è piena di esempi dimostrativi. Ostinarsi a continuare su questa strada può solo portare alla distruzione, a nuove guerre di proporzioni inimmaginabili.
Per me la risposta sta tutta nella cultura. Aumentare i finanziamenti all’istruzione, alla ricerca, alla cultura… Ma non basta. Bisogna capire, prendere coscienza del fatto che il vero problema, quello che sta alla radice, è il consumismo. Le nostre impulsività, i nostri acquisti irrazionali, non meditati; gli sprechi che ogni giorno ci lasciamo alle spalle non finiscono nel passato senza conseguenze sul futuro, e i residui di tutto quello che acquistiamo non finiscono nel bidone dell’immondizia e chi si è visto si è visto. Bisogna cambiare il nostro stile di vita, radicalmente, e fare la guerra alla pubblicità, al marketing sfrenato, e chiedere con prepotenza, attraverso le istituzioni, che i media inizino a farci capire quali sono le conseguenze di una società consumistica, che non riguardano solo l’ambiente, che da solo è comunque un buon motivo, ma anche il nostro equilibrio psicologico, di convivenza sociale, di appartenenza. Se veniamo definiti “consumatori”, dobbiamo opporci. Come facciamo ad accettare una definizione così stupida?
Dobbiamo rifiutare i modelli sbagliati, quelli che con molta leggerezza fanno passare il messaggio che tutto è scontato, ma sbagliatissimo, come colorarsi i capelli una volta la settimana, o avere due telefoni, centinaia di vestiti negli armadi, due macchine e nemmeno una bicicletta per percorrere brevi tragitti, il rubinetto aperto mentre ci si lava i denti, due docce al giorno, cercare di acquistare solo generi alimentari di provenienza locale e stagionale, e un’infinità di piccoli accorgimenti che messi insieme fanno un’enorme differenza. Se vogliamo limitare gli sprechi ma “non sappiamo come fare“, non è una giustificazione ammessa: basta cercare, basta volerlo. Sono piccole cose che tutti noi possiamo mettere in pratica, quotidianamente. Rifiutando il consumismo, credetemi, credeteci, i bambini che “vivono” (parola davvero inadeguata) dall’altra parte del mondo avranno più probabilità di mangiare che non donando “due euro con delega“, la signora anziana impedita vicina di casa, non sentirebbe nemmeno l’esigenza di chiedere un favore a qualcuno, perché la precederemmo sempre, senza volerlo, e inconsapevolmente saremmo tutti più solidali in prima persona, senza mai più deleghe.
In alternativa, se mai un giorno riuscissimo a ridurre i degradi generati da questa crisi, in futuro ce ne saranno altre, poiché il problema alla radice è la nostra abitudine impulsiva a consumare, e a pensare solo ai nostri interessi.

Qualcuno ha abbastanza anni per potersi ricordare come si viveva quando ancora non esistevano i telefonini? Non avevamo niente e ci pareva di avere tutto… compresi i rapporti umani.

“Io so’ io… e voi non siete un cazzo”


È da un po’ di tempo che avverto una certa repulsione nell’affrontare una riflessione. Ci barrichiamo sempre dietro a postulati tipo: “tutto si può dire, purché corrisponda a quel che penso io”. Valutiamo ogni critica, di qualunque natura essa sia e nei confronti di qualsiasi argomento, sul piano personale, e ogni obiezione diventa così un giudizio mirato. Oggi sembra che la regola base per avere visibilità sia quella di sparare mitragliate di cazzate (quello è il loro nome, e tali devono essere definite) per dimostrare di avere sempre qualcosa da dire, e il vero dilemma è capire su chi davvero abbiamo intenzione di puntare il mirino: sulla folla, oppure contro uno specchio in cerca di autoapprovazione? A me sembra semplicemente un suicidio culturale di massa; un harakiri inconsapevole di cui tutti andiamo, profondamente, fieri. Abbiamo perso ogni valore, e la conseguenza naturale è la quasi (se non del tutto) assenza di valori in quel che facciamo e proferiamo. La nostra è un’esposizione senza fine di contenuti sempre più vuoti, di miliardi di parole dette al vento che non possono far altro che aggiungersi alle altre, formando così un’uragano di stronzate che spazza via tutto quello che di razionale e di buon senso incontra sulla sua strada. E la cosa che trovo ancor più pazzesca, paradossale, schizofrenica, nel vero senso dei termini, è che non si può più dire nulla. C’è da avere il timore d’esser fraintesi e veniamo in un certo senso sollecitati a sparare cazzate per non sembrare, perlomeno, diversi dagli altri, dalla maggioranza, dal gruppo, e allora siamo stimolati ad adeguarci, pena l’esclusione, l’indifferenza. Se proviamo a fare un ragionamento con l’intenzione di trascende dalle argomentazioni spicciole, irrilevanti ai suoi fini, quello che ne ricaveremo sarà soltanto un gran bel giudizio, certamente sul piano personale. Le cose viste dall’alto, da lontano, a volte possono sembrare diverse da come le si vedono da vicino, e con questo non voglio intendere che andrebbero viste con superiorità soggettiva, con arroganza, ma con altezza di prospettiva. Se guardi una singola formica lavorare, e ti soffermi solo su di essa, inevitabilmente perderai di vista il resto della colonia, e difficilmente riuscirai a capire come si svolge la vita sociale all’interno di un formicaio: per comprendere una società, le sue abitudini e i problemi che la soffocano, si deve studiare il suo comportamento, di tutta la colonia, non “solo il comportamento di un singolo individuo”, altrimenti perderemo del tempo prezioso, e quello che ne ricaveremo sarà una formica che segue le altre, o che girovaga qua è là a raccogliere carogne di insetti, pezzettini di legno, di foglie, e magari che viene schiacciata dal primo numero 41 che sfortunatamente si trova a passare per la sua strada. E allora diamo la colpa al destino, al fato, al numero 41, e sempre con maggior frequenza all’individuo incapace di crearsi un occasione, di costruirsi un futuro, al fatto che “quella” formica è stupida, perché avrebbe dovuto vedere la scarpa che le veniva incontro e cambiare direzione in tempo per evitare di essere schiacciata. La colpa è della stupida formica che non ha capito dove si trovava, che non ha saputo cogliere in tempo l’occasione di cambiare direzione, o che si è discostata dal resto del gruppo per andare alla ricerca del suo pezzettino di foglia. Ma quando quella formica si trova a cercare nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, e viene avvelenata da un’insetticida INSIEME al resto della colonia, su chi deve essere addossata la colpa: sulla singola stupida formica che ha seguito tutte le altre? Su tutta la colonia? Su chi ha spruzzato l’insetticida? Oppure su chi ha inventato e reso lecito e abituale, consueto, l’uso dell’insetticida?
A me viene sempre in mente il periodo nazista, al fatto che Hitler, Eichmann, e tutti i “grandi” nomi storici conosciuti che sono stati i protagonisti, gli emblemi delle atrocità di cui è capace l’essere umano, i capri espiatori di cui la nostra misera coscienza/esistenza si serve per andare avanti, e al fatto appunto che siano considerati gli unici personaggi portatori “sani” di disumanità, ma ci si dimentica, in questo esercizio di “illogica”, sempre degli sconosciuti, di tutti coloro che non hanno un nome, che non sono stati al centro delle cronache, ma “semplici” comparse, nascoste nell’ombra, gli ultimi nomi che passano che nei titoli di coda e che nessuno legge mai, di quelli che sono fuori dall’obiettivo della cronaca, dell’informazione che negli anni ci ha abituati a divorare un nome, senza mai farci riflettere sul fatto che “quel” nome non sarebbe contato un cazzo senza il sostegno di un’intera popolazione. Una volta eravamo abituati a pensare che il titolare di una fabbrica senza i suoi operai non sarebbe contato un cazzo, poiché senza di essi mai avrebbe avuto la possibilità di arricchirsi. Oggi invece siamo completamente rincoglioniti, dopo anni e anni di preparazione ed educazione scientifica, e allora basta che ci venga dato in pasto un nome, che lo diano alla folla affamata, per placare le nostre sempre più inconsapevoli frustrazioni. Sbraniamo quel nome, magari riusciamo anche a calmare per qualche minuto la nostra bulimia, e a colmare quel senso di vuoto che ci riempie, ma solo per qualche minuto, perché sistematicamente poco dopo, chissà perché (forse potremmo chiederlo alla trasmissione Mistero, visti i tempi), la fame torna a farsi sentire, e così il quel senso di vuoto. E come fossimo tutti in una grande fiera, facciamo un altro giro, un’altra corsa… In un divertimento monotono senza fine, e senza fini.

È possibile dire che siamo circondati da superficialità senza pensare che qualcuno possa offendersi? È o no un dato di fatto oggettivo affermare che siamo contenitori di stronzate piuttosto che di contenuti razionali? È possibile affermarlo senza che qualcuno si senta offeso sul piano personale?

Insomma, a me sembra tutto un “io so’ io… e voi non siete un cazzo”, solo che quelli erano altri tempi, e non ci rendiamo conto, che i primi a non contare un cazzo siamo noi, povere formiche…

Siamo tutti incapaci


Le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità. Insieme a questi aspetti devono essere messi in conto il terreno fragile sul quale camminiamo, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.
Quando violenze, corruzione, atti criminosi in generale e suicidi e omicidi aumentano, al di là di ogni ragionevole dubbio significa che le psicopatie presenti nella società aumentano a loro volta.
Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità soggettive per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha la fortuna di avere buone gambe e buoni polmoni: per raggiungere la vetta di una montagna bisogna essere degli ottimi scalatori, e una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli alpinisti. Pensarlo equivale ad essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo il resto del mondo. Così copriamo gli occhi, tappiamo le orecchie e turiamo il naso durante la nostra corsa verso il “successo”, verso la vetta, poiché vedere, ascoltare e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, nonché di farci rendere conto che potremmo finire come “loro”: gli “incapaci”, quelli che vivono ai nostri piedi. E noi non siamo disposti e disponibili a farlo, non siamo inclini a misurarci con il “brutto”, con la bassezza umana, ma stimolati, sollecitati a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, alti, e dunque sempre più irraggiungibili, convinti che ciò possa rendere bella e pulita anche la nostra coscienza, tranquilli, sicuri di non avere colpe per le disgrazie altrui con il nostro comportamento.
Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto possiamo spruzzarci di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati, che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”, poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, così se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei loro confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, abbiamo bisogno di un espediente in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà, e il metodo più efficace per farlo è quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione”, si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato; inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.
Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più alta è la vetta che si prospetta davanti a noi, più la mancanza di ossigeno durante la nostra corsa si farà sentire, e più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere. Allora, non ci resta che ammettere a noi stessi, una volta per tutte, di essere degli incapaci.