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Conflitto d’interessi: Tv e internet a confronto nell’era dell’informazione “libera”


Ci sono illustri commentatori e opinionisti che considerano internet un potente mezzo di condizionamento delle masse. Diffondono il loro verbo molto spesso per screditare o ridimensionare il fenomeno dell’informazione libera che questo strumento potenzialmente offre, ma che di certo, va detto, non garantisce. Al di là delle ideologie, oggettivamente la rete è un vastissimo spazio dentro il quale è possibile trovare ogni genere di cose che genericamente, in via estrema, possono essere concentrate in due principali categorie: bugie e verità. Collocare ciò che troviamo nella giusta categoria, è una questione non di poco conto e che riguarda la sfera culturale soggettiva.
Assunto ciò, i mezzi che i suddetti chiosatori utilizzano prevalentemente per “trasmettere” il loro messaggio, sono Tv e stampa. Ovvero i medium che più di ogni altro di tutta la storia dell’umanità hanno controllato, indirizzato, influenzato, adattato, contaminato, limitato, suggestionato, sottomesso, sbaragliato, annientato, corrotto, snaturato, manipolato l’opinione pubblica. E senza il benché minimo diritto di replica: i mass media hanno da sempre presentato un pensiero a senso unico, unilaterale: io parlo, tu ascolti. Non hanno mai offerto reali alternative men che meno una diretta interazione. Non vi è dubbio che il compito di verificare la veridicità di quanto trasmesso, anche in questo caso, appartiene al soggetto-spettatore, ma non vi è altrettanto dubbio del fatto che un rapporto di reciproca dipendenza crea un terreno (più “e” meno fertile) sul quale è ancora più possibile coltivare una riflessione.
Forse, e qui il dubbio è più che fondato, c’è un leggero conflitto di interessi nel momento in cui lorsignori si prodigano saccentemente per propagandare il loro messaggio, o meglio, il personaggio che interpretano.

C’era una volta l’umanità… (Seconda parte, con “obbligo di fermata”)


Oggi, grazie a internet, quel vuoto che ci assorbe quando siamo in solitudine, può essere ignorato o dissimulato; il dolore dell’assenza può essere quanto meno sedato. Se vogliamo compagnia non dobbiamo far altro che accendere i nostri schermi elettronici, non più varcare porte di legno. Oggi le porte sono “d’accesso“, digitali, analogiche, impalpabili, ideali, e ci permettono di sfuggire da quella tormentata solitudine che ancestralmente ci appartiene. Alcuni considerano questo nuovo tipo di rapporto un apprezzabile passo in avanti rispetto a quelli più “tradizionali” di tipo faccia-a-faccia, e sono proprio le nuove generazioni, che si trovano gettati-nel-mondo delle “connessioni virtuali“, ad apprezzarlo di più. Queste (ma non solo queste), non avendo mai appreso (fondamentalmente) le modalità che le interazioni faccia-a-faccia richiedono, avvertono e subiscono maggiormente – inconsapevolmente – la rivoluzione avvenuta nella sfera dei rapporti umani, ma al contempo accolgono con molto entusiasmo gli aspetti negativi che offrono le “connessioni virtuali”.

Infatti, Facebook, Twitter, Instagram, whatsapp, e gli altri social più gettonati, offrono quanto di meglio si possa desiderare, secondo coloro che provano un disperato bisogno di eludere la solitudine, ovvero secondo coloro che hanno bisogno di rapporti umani ma che hanno obliato il “come” e il “dove” cercarli. Molto spesso, di fatto, capita di sentirci a disagio, fuori luogo e infelici in compagnia, ma sono sentimenti che, là dove suscitassero una riflessione, trovano un “obbligo di fermata” in prossimità delle chat e dei social che il mondo virtuale offre. Così disimpariamo a dialogare con noi stessi per cercare di sentire o quantomeno intuire le ragioni del nostro disagio.

Non c’è più alcun bisogno di rimanere ancora da soli: in qualsiasi momento (ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana) basta premere un tasto per entrare in contatto con una vastità di individui soli come noi. Nel mondo virtuale nessuno si allontana mai e tutti sembrano sempre a disposizione. Inoltre, questi siti permettono di contattare gli altri senza doverci necessariamente introdurre in uno scambio che ci esporrebbe ad una conversazione poco gradita. I contatti possono essere sospesi o troncati non appena la comunicazione prende un verso sgradito; quindi non si corrono rischi, e non c’è neanche bisogno di cercare scuse o pretesti, o di mentire: basta un tocco delicato col dito, completamente protetto dallo schermo e indolore.

La minaccia di rimanere soli non sussiste più, e il rischio di doversi sottomettere al volere del prossimo, compiere sacrifici o compromessi, o fare qualcosa che non vogliamo soltanto perché altri lo desiderano, è scongiurato. E tutto ciò è possibile stando semplicemente seduti in una stanza, vuota ma affollata al contempo di persone, oppure mentre gironzoliamo in un centro commerciale o per strada, circondati da amici e passanti: in qualsiasi momento abbiamo la possibilità di “assentarci” per rimanere “da soli” e far capire a chi ci è accanto che intendiamo interrompere i contatti. Possiamo estraniarci dalla folla componendo un messaggio, entrando in un social, per comunicare con chi è “fisicamente assente” e quindi alienarci dal mondo reale che ci circonda.

Ecco, questa “alienazione” ricorrente è ciò di cui dovremmo avere maggior paura. Ma più di ogni altra cosa dovrebbe farci riflettere seriamente sull’eventualità di rimanere privi di questi strumenti di connessione virtuale. Proviamo un attimo ad immaginare seriamente come potremmo sentirci se di punto in bianco tutte le connessioni venissero interrotte, oppure, per chi come me ha abbastanza anni da ricordarlo, proviamo a tornare indietro di venti o trent’anni: ci sentiamo più, o meno umani?

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C’era una volta l’umanità… (Prima parte)

La libertà dà a se stessa la possibilità di un dialogo interiore

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Il disagio sociale
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C’era una volta l’umanità… (Prima parte)


«Al mattino, a mezzogiorno, di sera, nei giorni feriali come nei fine settimana, durante le lezioni, all’ora di pranzo, mentre faceva i compiti o si lavava i denti».
Tremila sms in un solo mese, una media di cento messaggi al giorno, uno ogni dieci minuti. Questa l’ammissione di un’adolescente, come tantissimi altri. Se ne deduce che la ragazza non avesse quasi mai occasione di rimanere sola per più di dieci minuti; intendo dire sola con se stessa: con i propri pensieri, i propri sogni, le proprie preoccupazioni e le proprie speranze. Probabilmente si sarà dimenticata di come si fa a vivere (pensare, organizzarsi, ridere o piangere) da soli, senza la compagnia degli altri. O sarebbe forse più esatto dire che non ha mai avuto la possibilità di apprenderne l’arte. D’altronde non sarebbe sola nemmeno in questo…

«Al mattino, subito dopo colazione, durante il lavoro, a pranzo, subito dopo essermi lavato i denti, nel pomeriggio, a cena, la sera con gli amici fino a tardi, o prima di coricarmi».
Sessanta litri di bevande alcoliche al mese, una media di due litri al giorno, un “goccetto” ogni dieci minuti. Questa l’ammissione di un ragazzo inconsapevole del suo alcolismo, come tantissimi altri. La solitudine e le insicurezze che egli prova sono né più e né meno le stesse dell’adolescente.

Possiamo tranquillamente accomunare queste due storie, estreme, ma più frequenti di quel che immaginiamo, poiché tutte e due parlano d’una dipendenza, entrambe fisica e psicologica, ed entrambe pericolose, nei confronti di chi ne fa uso e di chi si viene a trovare sfortunatamente nei loro paraggi: si muore e si uccide per un incidente alla guida di un auto in stato di ebrezza, e si muore e si uccide per essersi distratti scrivendo un sms. Dal punto di vista psicologico sono ambedue evidentemente devastanti: creano dipendenza e assecondano l’isolamento.

È un fatto ormai riconosciuto: siamo assuefatti alla produzione e alla ricezione di segnali audio-visivi tramite schermi elettronici. I siti, le chat, i social network, rappresentano delle nuove, potenti droghe da cui siamo ormai dipendenti. Se un virus (o i genitori, o gli insegnanti, o una legge, o una catastrofe magnetica) ci impedisse di accedere a internet o mettesse fuori uso i nostri cellulari, rischieremmo una crisi di astinenza paragonabile a quelle che provocano strazianti tormenti in chi – più o meno giovane – interrompe l’assunzione di altri tipi di sostanze. Il “dispositivo tascabile” può essere equiparato alla “borraccia tascabile” dell’alcolizzato, o alla bustina di cocaina o eroina “pronta all’uso” del tossicomane. Ambedue le assuefazioni, prima di ogni altro aspetto, “hanno” il compito di colmare quel vuoto che non riusciamo ad affrontare in altro modo. Di fatto, nel nostro mondo imprevedibile, assiduamente inaspettato e ostinatamente enigmatico, l’eventualità di esser lasciati soli può generare un vero e proprio senso di terrore, e sono svariati i motivi che rendono la solitudine profondamente spiacevole, ostile e orribile. Ma c’è un errore che non dobbiamo fare, ossia quello di attribuire a questi apparecchi elettronici tutta la colpa di quanto sta accadendo a chi è nato, o a chi si è trovato a “mutare e adattare” le proprie abitudini in questo mondo dominato dalla “connettività”; sarebbe tanto ingiusto quanto insensato. Tali arnesi, infatti, rispondono a un’esigenza che non è stata creata dalle nuove generazioni, che se li ritrovano loro malgrado nelle mani; tutt’al più contribuiscono ad acutizzarla e a renderla più ossessiva, e questo perché i modi per assecondarla sono ormai irrefrenabilmente alla portata di tutti, e non richiedono altro sforzo che quello di premere qualche tasto.

Sappiamo che le strade pullulano di individui che si sentono soli e che detestano la propria solitudine, avvertendola come angosciosa e umiliante. Persone che non solo sono prive di compagnia, ma anche afflitte dalla sua assenza. Con i televisori che, piazzati in ogni stanza, prendevano il posto del focolare domestico dove si riuniva la famiglia, ciascuno di noi praticamente oggi vive intrappolato nel proprio bozzolo, lontano dal calore dei rapporti umani, senza i quali non sappiamo come riempire le ore, e i giorni.

Allora appare ancora più difficoltoso, oggi, districarsi nel groviglio della “rete” nella quale siamo impigliati, e anche solo l’idea di poter rimanere qualche ora (non “quale giorno”) “disconnessi” dal resto del mondo, provoca in noi il terrore non solo di venire esclusi, ma di doverci trovare faccia a faccia con noi stessi; cosa che ormai siamo abituati a non fare più. È infatti questo l’aspetto primario che ci terrorizza: non sapere più come si fa a dialogare con noi stessi. Abbiamo perso un po’ di questa “umanità”.

La libertà dà a se stessa la possibilità di un dialogo interiore


Nell’era della comunicazione digitale siamo diventati tutti cacciatori di notizie, o meglio “pescatori“, dal momento che la rete ha più la consistenza strutturale di un oceano che di un luogo definito e limitato come lo è una riserva di caccia. Andiamo a pesca di notizie di ogni razza, misura e peso, esigenza e gusto, e brandiamo le nostre prede come trofei sulle nostre bacheche esposte al pubblico per dimostrare e rafforzare le nostre idee, il nostro “status di appartenenza“: «Ecco! Hai visto che avevo ragione!?»

Cerchiamo continue conferme nel mare della rete.

Gettiamo continuamente le nostre reti nella rete per pescare il pesce più grosso da esibire al pubblico e confermare così a noi stessi e agli altri le nostre ragioni e rafforzare le nostre convinzioni. Da insicuri quali siamo sentiamo l’esigenza di aver qualcuno accanto, al di fuori di noi stessi, che rafforzi e confermi la nostra autostima. E nell’infinita vastità della rete possiamo trovare con facilità tutte le conferme di cui abbiamo bisogno a sostegno delle nostre ragioni. E la pesca, essendo sempre aperta e infinitamente ricca, è “felice”, esaltante, interessante, stimolante, poiché ogni qualvolta gettiamo la rete in mare non capita mai di tirarla su vuota, e quel che ci troviamo impigliato riesce sempre a mantenere alti sia il nostro senso di soddisfazione che di insoddisfazione: la sera non torniamo mai a casa con la cambusa vuota, e se ci applichiamo un po’ possiamo pescare pesci sempre più grossi, ma al tempo stesso il giorno dopo ci sentiamo ugualmente vuoti, come se quello precedente non avessimo portato a casa niente.
È un circolo vizioso che può ripetersi all’infinito.

Quello che non riusciamo più a fare, però, è esprimere la nostra opinione individuale formata attraverso un percorso culturale individuale.

Conferme.
Abbiamo bisogno sempre più di conferme poiché il bombardamento di informazioni continuo mette in crisi le nostre percezioni e convinzioni, perciò andiamo alla ricerca di articoli e notizie già confezionati e pronti all’uso.
Ma l’essere umano, per sua natura, non è colui che “dice no“, e neppure colui che “dice sì“, bensì colui che domanda “perché?“. E sembra che oggi, nell’era del digital sharing, questo approccio cognitivo nei confronti del mondo che ci circonda sia stato messo prevalentemente – inconsciamente – da parte. In effetti, come mi hanno fatto osservare, possiamo affermare con semplicità che oggi più di ieri “è più facile non pensare che farlo“. In particolare in un mondo dove i comfort, materiali e psicologici, sono imposti come meta principale dell’esistenza dal modello sociale imperante, che ci riconosce un posto “rispettabile” solo quando abbiamo imparato a limitare, o a rassegnare, o a deporre i nostri “perché?“, e ad accontentarci di quel che gli scaffali della vita – essendo ormai essa diventata un grande centro commerciale – espongono-propongono-offrono-vendono. Naturalmente, a chi non può permettersi di acquistare la subcultura disposta sugli scaffali illuminati dai neon, viene negato quel posto.

È ormai una condizione preponderante, sempre più estesa: l’uomo moderno deriva le proprie convinzioni, i propri giudizi, da fattori esterni alla propria volontà. L’eteronomia è uno stato esistenziale endemico nella nostra società.

Nella società mediatica, dove le informazioni vengono recepite/percepite attraverso i media e non attraverso un percorso evolutivo culturale individuale, soggettivo, l’uomo “sceglie” ciò che la figura mediatica predominante gli offre. Non approfondisce, ma si fida ciecamente di ciò che ascolta, e non di ciò che elabora attraverso percorsi individuali che gli consentirebbero di trascendere, di uscire da quel centro commerciale illuminato per affrontare l’oscurità, il lato notturno della vita umana.

Kant diceva che “le cose non stanno nella mente, ma esse vengono riconosciute e formate nella mente“, e quando le nostre basi culturali individuali sono carenti, e dall’esterno veniamo continuamente bombardati da informazioni ognuna in aperta contraddizione con l’altra, già in conflitto tra loro, in noi, nel nostro modo soggettivo di percepire tali informazioni si verificano corti circuiti che non siamo più in grado di dominare e razionalizzare. Da qui nascono le nostre insicurezze. Non abbiamo più certezze, e ci abbandoniamo passivamente a quel conflitto più o meno sistematico a cui assistiamo, e allora l’unica cosa che ci sentiamo in grado (e in dovere) di fare è quella di accendere i motori e navigare in mare aperto a caccia di pesci già confezionati e pronti all’uso, pronti da esibire e da mangiare. Solo che non riusciamo a capire “perché?” la nostra fame e il nostro desiderio di esibire i trofei non trovano mai soddisfazione.

Non dialoghiamo più con noi stessi, ma lo facciamo solo attraverso gli altri. È una bella gatta da pelare. È una brutta rassegnazione.