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Euro sì; Euro no: parliamo del niente per risolvere niente


Se un’erbaccia non la si sradica, possiamo potarla tutte le volte che vogliamo: lei rispunterà sempre.

Il problema non è l’Euro, ma la nostra Cultura. Se oggi dovessi fare una campagna elettorale sui manifesti ci scriverei: “Più Cultura per tutti!”
Uscire dalla moneta unica non servirebbe a risolvere problemi che sono di natura “concorrenziale“: determinati dal mercato. Anche se tornassimo alla Lira, non potremmo mai competere con paesi come Cina, India, Africa, Sud America, eccetera, dove i costi di produzione rispetto alla “zona euro” sono infinitamente più bassi. Il problema non è la moneta unica, ma la produzione industriale a basso costo e la libera circolazione delle merci e dei capitali. La gran parte delle aziende delocalizza per andare a spendere meno sui costi di produzione. Tutte le aziende europee, e non solo, stanno delocalizzando o dimezzando il personale, certo non per colpa della moneta unica, che ha sì le sue colpe, ma è l’ultima ruota di un carro lanciato verso il burrone sociale.

La moneta unica è un mezzo a disposizione del fine. Togliendo un mezzo non cancelliamo un fine, poiché chi dispone delle possibilità economiche avrà comunque le condizioni favorevoli per trovare altri mezzi.

La favola che i nostri problemi economici derivino dall’Euro è una emerita arma di distrazione di massa che serve a far distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dal vero problema: la concorrenza. Il vero problema è la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari.

L’unica soluzione sarebbe quella di bloccare le importazioni e le esportazioni “in eccesso” (che sono tante), non indispensabili. Regolamentarle severamente, e seriamente, è l’unica soluzione che abbiamo. Una lenta e graduale riduzione delle importazioni e delle esportazioni, ad esempio alimentari, rispettando tutti i termini delle contrattazioni con le varie aziende produttrici, farebbe aumentare la domanda interna risollevando in un attimo l’economia di ogni Paese. Ad esempio, compriamo le patate fuori dall’Italia? Bene, ci sarà un contratto con l’azienda produttrice; rispettiamo quel contratto fino a scadenza e dopo non lo rinnoviamo. Le aziende agricole italiane se ne gioverebbero: aumenterebbero la produzione e la forza lavoro. Ma possiamo citare le arance, i legumi, i cereali, le carni, eccetera. I McDonald’s ne risentirebbero? Poco male. Dove chiude un McDonald apre McItaly dove si vendono soltanto hamburger nostrani e di qualità ai prezzi dettati dal potere d’acquisto interno, se proprio non ne possiamo fare a meno. E se invece possiamo farne a meno, allora lo sostituiamo con un negozio di alimentari come quelli d’una volta che stavano sotto casa, e che magari con due fette di pane fresco, fatto con soli ingredienti italiani, e due fette di un buon prosciutto crudo, fatto in allevamenti italiani, dà più soddisfazione di un panino fatto di plastica insaporita con gli antibiotici. Certo, dovrebbero farlo tutti i Paesi, ma questo è l’unico rimedio.

Se ogni nazione provvedesse a soddisfare gran parte del fabbisogno interno con le proprie risorse, l’economia nel giro di un paio d’anni rifiorirebbe. Quel che ha distrutto la nostra economia è il consumismo, ovvero la domanda di cose inutili, che non servono a niente. Il consumismo è un comportamento compulsivo, irrazionale, degradante, pericoloso per la stabilità fisica e mentale, individuale e collettiva. Oltre a far aumentare drasticamente l’inquinamento di intere aree, nonché atmosferico, inquina anche il nostro modo di pensare e di rapportarci con tutto quello che ci circonda. La globalizzazione, ossia la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari, è stata voluta dai capitalisti per incrementare illimitatamente, coerentemente con la definizione che li identifica, i loro capitali. Ritornando alla Lira non cambierebbe nulla riguardo alla produzione, all’esportazione e all’importazione delle merci, per questo molti economisti parlano di “sciagura economica” quando si riferiscono a queste nel caso in cui dovessimo tornare alla moneta nazionale. Io non penso che si possa andare incontro alla “sciagura”, semplicemente perché ciò è fuorviante, irrilevante. La sciagura è già in atto. È la produzione illimitata, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, e il conseguente nostro “stile di vita“, condizionato dalle pubblicità, dai modelli esposti e imposti ovunque, a causare sciagure economiche che evidentemente nessuno riesce a controllare e regolamentare, proprio perché le norme sono scritte in favore di chi detiene i capitali finanziari, il potere economico e sociale di intere nazioni. La politica è gestita dai capitali, non dai cittadini. La democrazia non esiste nella misura in cui non esistono regole che impongono alle multinazionali di limitare i loro profitti. Sono 85 le persone che detengono la ricchezza della metà del pianeta; ci vuole la metà restante, tutta insieme, per arrivare a fare il mucchio di soldi che hanno quelle 85 persone. È evidente la disparità, l’errata ridistribuzione della ricchezza, dei profitti. Questo non è un problema che riguarda solo la “zona euro”, ma tutto il mondo. Tutto il mondo soffre a causa di questo tipo di globalizzazione. Al contrario la globalizzazione dovrebbe essere culturale, ossia un arricchimento del nostro patrimonio identitario, comunitario ed egualitario. La globalizzazione in atto invece va nella direzione opposta, favorisce le discriminazioni poiché ci sentiamo in concorrenza fra di noi. Ce l’abbiamo con il bengalese perché apre il suo negozio in centro e fa prezzi bassissimi rispetto ai nostri, e così con i cinesi, con gli africani, gli indiani… Però, in realtà, quel che permette tutto ciò è questo modello economico. È quello che dovremmo combattere, non chi “ci porta via lavoro e case”.

Identificare il problema alla radice è l’unico rimedio a disposizione che abbiamo per estirparlo.

P.s. So che è impossibile ridurre le importazioni e le esportazioni: sono un utopista convinto. Ma non pensiamo che tornando alla Lira possa cambiare qualcosa. È una bugia pari alla profezia dei Maya.

L’ignorante insensibile


Ci sono persone che hanno un’insensibilità e un’ignoranza tali da essere inarrivabili.

L’ignoranza non è sinonimo di insensibilità, ma un suo rinforzo. E quando sono insieme tale è la loro forza che non conoscono, giacché non li possono riconoscere, avversari. Avversari che dovrebbero essere proprio ignoranza e insensibilità. E come potrebbero mai identificarli, se quando si guardano allo specchio passano il tempo ad elogiarsi, ad autocelebrarsi, ad applaudirsi, a vantarsi, a dirsi quanto sono capaci nelle loro faccende e nei loro pensieri? Mai una critica che sia una; mai un dubbio. Solo certezze. Certi di essere la qualità migliore che si possa desiderare da se stessi, e anzi, non provate mai a far notare loro quando sbagliano, poiché accettano una critica solo quando questa fa risaltare la supremazia che ritengono di possedere e alla quale in ogni caso vanno ambendo. Provate a dir loro che tutti gli esseri umani hanno pari dignità e pari diritti; lo sottoscriveranno con determinazione, salvo poi aggiungere, con spiccato senso di patriottismo e nazionalismo, ovvero escludendo a priori tutti coloro che non fanno parte della loro Patria, che pur essendo esseri umani, gli “stranieri” (ma solo quelli provenienti da determinati territori) non meritano di essere soccorsi poiché “ci rubano lavoro e case”. Provate a dir loro che la violenza sulle donne è diabolico; faranno i salti mortali per corroborare questa affermazione, salvo poi infischiarsene se tutte le donne che cercano aiuto sulle nostre, loro, e le loro figlie, vengono ripetutamente violentate nei “lontani” Paesi d’origine.

Bene, oggi e sempre, auguro a tutti coloro che si riempiono la bocca della Costituzione italiana, per chissà quale incomprensibile motivo, di non trovarsi mai nella condizione di dover abbandonare questa Patria, che tanto amano e sbandierano come segno distintivo di egemonia razziale, e di non subire mai le torture dalle quali scappano tutti coloro che sbarcano sulle nostre coste.

L’articolo 3 della nostra Costituzione recita così:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Il compito della Repubblica è quello di non alimentare le discriminazioni, e di operare in modo tale che “tutti i popoli” possano raggiungere l’eguaglianza sociale e pari dignità. “Tutti i popoli”, dal momento che oggi nessuno Stato è svincolato dall’altro, e tutti sono legati fra loro per ragioni di ordine economico-commerciale. Quando compriamo un diamante dobbiamo avere la consapevolezza che con quel gesto contribuiamo a far distruggere un territorio e a far sfruttare un bambino, costretto alla schiavitù per sopravvivere. Quando accendiamo un fornello, o i caloriferi, o una lampadina, o facciamo il pieno di benzina, dobbiamo essere consapevoli del fatto che queste comodità devastano interi territori nei “Paesi in via di sviluppo” (un ossimoro), lasciando quei popoli nella miseria e nelle malattie più terribili che si possano immaginare. Una Repubblica che permette tutto ciò non adempie a quanto sancito nella Costituzione, e favorisce il proliferare di un disordine mentale e sociale che appunto non ha niente di ragionevole. Ci sono partiti come la Lega Nord che campano alla luce del sole grazie a questi disordini, e altri che lo fanno subdolamente, ma ognuno di loro è accomunato dal fatto che si guardano bene dallo spiegare le ragioni per le quali questi popoli cercano la salvezza sulle nostre coste. Nessuno di loro mette mai in luce la necessità di cambiare le politiche economiche internazionali, poiché sono i primi ad arricchirsi, attraverso le loro multinazionali, da tali scempi.

Prendete il Governo italiano attuale, e le nomine che sono state appena fatte nelle società dello Stato: sono tutti privati imprenditori, con i loro legali e commercialisti al seguito, che hanno interessi miliardari nei Paesi più poveri della terra. Invito a verificare ogni nomina per avere un’idea degli interessi privati che ognuna ha, al di là delle dichiarazioni che i diretti interessati rilasciano. Ecco, in un clima politico del genere, l'”ignorante insensibile” continuerà a rafforzare l’opinione (“l’opinione infondata”) che ha nei confronti di coloro che sbarcano sulle nostre coste, e i partiti saranno lì pronti per prenderseli a braccetto e ad incrementare i loro sporchi affari sulla pelle di povera gente che non ha colpe, rassicurandoli che prima o poi prenderanno l’estrema decisione di affondarli in mare prima che riescano a raggiungere la nostra tanto amata Patria; perché la “persona umana” citata nella tanto sbandierata Costituzione, secondo loro, è solo quella che abita entro i nostri confini. E solo quella merita il diritto a una vita dignitosa.

Se esiste un Terzo Mondo, quello è presente nella testa di chi crede di avere la supremazia esistenziale; è vivo nelle menti di tutti coloro che al mattino si guardano allo specchio per celebrare se stessi, e non per cercare di comprendere gli altri attraverso sé, e i propri errori.

Catastrofi di Stato


Se le catastrofi naturali non sono (dichiaratamente, per definizione) un prodotto dell’uomo, la successiva sciattezza degli uomini certamente lo è. La vera catastrofe, dopo una catastrofe naturale, è la trascuratezza dello Stato nel far fronte alle sue conseguenze. Negare il sostegno a chi è stato colpito dalla mano della natura, nel tempo a venire, è la vera tragedia che si abbatte sull’uomo, poiché di sua mano, irresponsabilmente, ne amplifica l’impatto distruttivo, morale, materiale, psicologico, esistenziale. Abbiamo imparato, a nostre spese, che una catastrofe non dura mai il tempo che passa ad abbattersi sull’uomo. Oggi abbiamo smesso di attribuire a Dio la colpa per lo stato del mondo, e la moderna comprensione delle responsabilità, grazie alla scienza, ci fa essere in grado di farle ricadere sull’uomo, ma paradossalmente possiamo constatare come l’essere umano invece neghi di volersele assumere. La moderna concezione dell’esistenza è stata sviluppata nel tentativo di razionalizzare eventi catastrofici che in precedenza ci erano incomprensibili, introducendoci in una società costruita e modellata a immagine e somiglianza dell’ingegno, e delle più profonde fantasie, estrosità, nonché paure, dell’uomo. Secondo questo principio di costituzione e costruzione della società – sulla base degli eventi passati – l’uomo moderno avrebbe dovuto essere preparato ad affrontare, quantomeno, molti dei cataclismi che sempre con maggior frequenza si abbattono sulla sua testa, invece, nel tentativo di ripararsi dietro alla “casualità” e alla “cecità” degli eventi climatici, nega la possibilità di ammettere che possa esserci un rimedio “preventivo“. Il mantra è sempre lo stesso: non esiste alternativa. È più che certo che nessuno è in grado di prevedere quando, dove, e con quale forza distruttiva un evento catastrofico possa abbattersi su di noi, ma è pur vero che gran parte della comunità scientifica concorda nel sentenziare che la causa della frequenza con la quale negli ultimi anni si sono verificate immani tragedie, sia da attribuirsi alla mano dell’uomo: l’eccessivo inquinamento con conseguente aumento delle temperature, la cementificazione di intere aree che avremmo dovuto invece proteggere e tenere lontane dalle mani dei costruttori omicida, sono solo alcune delle principali cause che scatenano la reazione chimica, sempre meno indulgente, della natura.
Ogni volta che veniamo a conoscenza di catastrofi abbattutesi in qualche parte del pianeta, accade che la macchina sociale, gli eserciti, le protezioni civili, la Croce Rossa, e quant’altro serva a tirar su assistenza, come su un campo di battaglia, si mettono in moto e lavorano incessantemente per dare aiuto e sostegno, materiale e morale, alle vittime; e si mettono in moto, come un ingranaggio di un orologio che ha appena ricevuta la carica, campagne mediatiche per inviare un contributo economico, e di seguito i quotidiani ci informano sulla situazione in “stile bollettino di guerra”: vittime, sopravvissuti, sciacallaggio, e una lunga lista del necessario, che non abbonda mai, anzi. Questo va avanti per giorni, anche settimane, persino mesi, quando poi, tutt’a un tratto, i titoli in prima pagina iniziano a cambiare, e ritroviamo quelli della tragedia in seconda, in terza, in un cammino inesorabile fino alla cronaca locale, per poi scomparire definitivamente del tutto. Quello che avviene nei mesi, negli anni successivi è una routine: documentari, speciali una tantum, frammenti di denunce per sensibilizzare l’opinione pubblica sullo Stato assente… Eh già, perché anch’esso, puntuale come un’orologio scarico, come fossero sincronizzati, più o meno volutamente non spetta a me dirlo, ma ai fatti, nel momento in cui l’attenzione mediatica inizia come d’abitudine la sua omertà, i suoi silenzi, e torna a interessarsi di come tenere a bada l’opinione pubblica e il consenso verso le istituzioni additate come “assenti“, le vittime dei cataclismi iniziano la loro discesa implacabile verso l’emarginazione, passando attraverso una fitta nebbia, che è solo l’anticamera dell’oblio dove verranno – è il caso di dirlo – deportate definitivamente. Immersi nella nebbia, per densa o rada che sia, si può vedere solo fino a una certa distanza, ma quanto più l’attenzione diminuisce, tanto più questa s’infittisce attorno a chi ne è “Stato” circondato. Trovo inutile, oltre che riduttivo, citare qui le catastrofi naturali susseguitesi in questi ultimi decenni, e trovo difficile, non certo solo per motivi di spazio, documentare il numero di famiglie lasciate sole, nella nebbia, dove, alla fine, non si vede a un passo lo Stato, che non manca mai di dichiarare lo “stato di emergenza“, ma che manca sempre, con la spietata sfrontatezza dei suoi silenzi, di dichiarare, e ammettere, lo “stato di responsabilità“, o per meglio dire la “responsabilità di Stato“.
La domanda è nascosta, o piuttosto non scritta ma implicita, e alla fine retorica, ed è sempre la stessa (ma solo questa conosco e riconosco utile alla razionalizzazione): perché?

Degrado esistenziale


Chi siamo? Che ci facciamo su questa terra, in mezzo a quest’universo infinito e sconosciuto? Qual è lo scopo della nostra esistenza? Come è successo tutto questo? Il Big Bang, l’espansione e l’evoluzione di miliardi di milioni di miliardi di milioni di miliardi eccetera di tonnellate di materia e particelle subatomiche che hanno dato origine al nostro universo così come lo conosciamo, sono spiegazioni che non bastano a dare risposte a domande che ci poniamo da millenni. Questa è la parte scientifica, che non spiega i tanti “perché”, ma solo i “come”. Ci sono voluti miliardi di anni per creare questa terra, in questa parte infinitesimale dell’universo che ci inghiotte nel nulla più assoluto, e fra i miliardi e miliardi di pianeti presenti nella nostra galassia sappiamo, o possiamo affermare con determinazione, entro i confini della nostra conoscenza, di essere una presenza quantomeno rara in quest’infinito vuoto apparente.
Oggi la scienza moderna, con i suoi paradossi, gli enigmi della teoria della relatività, della meccanica quantistica e del mondo submicroscopico, trova armonia con lo spirito e la saggezza del passato, con le teorie dei filosofi greci così come con le filosofie orientali.
Ci sono sensazioni, emozioni, pensieri, domande, che tutti noi in un modo o nell’altro cerchiamo di definire, di comprendere, spinti da qualcosa che sentiamo dentro, come fa un bambino appena nato che per la prima volta si attacca al seno e inizia a succhiare latte come lo avesse fatto sempre. È istinto primordiale, desiderio di vivere, di esistere, pur non sapendo cosa ci riserverà il futuro. Abbiamo l’ambizione di vivere, vogliamo crescere, conoscere, sognare… ci evolviamo.

L’evoluzione darwiniana, l’evoluzione esistenziale, l’evoluzione scientifica, l’evoluzione dell’universo: ogni cosa si evolve, e noi siamo il risultato di un processo evolutivo complesso che non si riduce alla sola rigenerazione cellulare, ma a quella dell’universo intero, e nel nostro corpo, nelle nostre cellule, nel nostro DNA, sono impresse tutte quelle informazioni che derivano dal passato, come del resto è stato dimostrato in uno studio recente. Così come la luna determina le basse e le alte maree, lo spazio che ci circonda definisce e condiziona la nostra esistenza.

In realtà, a chi interessa più farsi domande sull’esistenza? Il benessere materiale di cui siamo circondati è un ottimo sostituto, riempie i nostri pensieri, suggerisce scelte, indica direzioni, ci dice dove andare facendoci fare il minimo sforzo possibile; ci dice chi siamo e dove stiamo andando. Miliardi di anni passati ad evolverci per ridurre tutto ad un senso di appagatezza lussureggiante, effimero, dotato di ogni genere di comfort che come un placebo non esistono se non nelle nostre convinzioni. I nostri nonni, nell'”ignoranza” di un epoca tecnologicamente poco sviluppata, avevano inconsapevolmente la consapevolezza armoniosa della vita e della morte. Sapevano che il raggiungimento del benessere era al primo posto tra gli scopi dell’esistenza, e sapevano bene, quindi, che tutto il loro lavoro, tutte le loro scelte e azioni avevano come unico scopo la prosecuzione della specie umana in una società migliore, senza guerre e povertà. Di certo, nessuno si aspettava che questo benessere si sarebbe trasformato in indigenza, in miseria esistenziale, sotto tutti i profili. Lo sapevano però i grandi industriali, chi finanziava la ricerca e lo sviluppo tecnologico per aumentare la quantità produttiva tralasciandone la qualità e ampliare così il loro raggio di vendite. E lo sapevano i grandi pensatori, che non hanno mai mancato, dall’inizio della prima Rivoluzione Industriale, dalla nascita del capitalismo, di evidenziare le profonde lacune della società che oggi abitiamo. E non si doveva certo essere profeti per prevedere che saremmo arrivati a questo. Non sono mai stati presi in considerazione, accecati dall’accumulo indefinito di ricchezza materiale.
Il risultato che abbiamo ottenuto è più cattivo che buono, più inutile che utile, più distruttivo che costruttivo, più degradante che decoroso. Non è un buon risultato.

Sappiamo bene che la nostra presenza qui, su questa terra, è limitata nel tempo e che dopo sarà il turno delle generazioni successive. Non possiamo farci niente, è una condizione esistenziale che constatiamo nell’arco della nostra vita quando la morte ci separa da un familiare, un parente, un amico, un conoscente. Sappiamo che arriverà anche il nostro turno, ma facciamo di tutto per allontanare da noi quest’unica certezza esistenziale. Sostituiamo i nostri “cattivi” pensieri con azioni che ci appagano materialmente, compriamo cose che fanno assumere al tempo un valore astratto, impalpabile, concezione, questa, che ci viene introiettata sistematicamente.
Se pensiamo che il benessere esistenziale derivi tutto dal benessere fisico vuol dire stiamo andando nella direzione sbagliata.
Si stima che la produzione di beni materiali dell’intero globo potrebbe soddisfare le esigenze di ogni singolo individuo, invece nei paesi dove si producono maggiormente questi beni la popolazione versa in una condizione di assoluta povertà, degrado e arretratezza. Un degrado che produciamo noi, che ci definiamo con grande senso di appartenenza etnica “sviluppati”.
Se pensiamo che lo scopo della nostra vita sia quello di sfruttare al massimo le risorse di cui disponiamo, che non sono illimitate, allora non stiamo salvaguardando la prosecuzione della nostra specie. Stiamo andando nella direzione dell’autodistruzione, e non ne comprendiamo i motivi, non percepiamo i risultati delle nostre azioni, e crediamo di arrivare in punto di morte senza lasciare conseguenze negative del nostro passaggio. Il mondo va a rotoli, i sistemi economici mondiali non viaggiano più su linee parallele alla vita sociale; sono su un altro livello, in un’altra dimensione, e il denaro, strumento economico sociale, mezzo di scambio che ha sempre caratterizzato la nostra civiltà, è diventato etereo, invisibile, impalpabile. I sistemi economici moderni si muovono in rete, nessuno più riempie banche con contante; sono macroeconomie che provocano solo l’aumento dei consumi, della produttività e dell’occupazione a basso costo. Noi non comprendiamo certe questioni, o almeno questo è quello che implicitamente ci viene “insegnato”. Parlare di miliardi che si muovono senza muoversi per noi comuni mortali equivale a parlare di meccanica quantistica. Siamo in una dimensione differente da quella economica, siamo quelli che con le nostre domande, i nostri pseudo-desideri, allontaniamo il contatto con la realtà che ci circonda. Non sentiamo più il valore dello scambio commerciale, ci poniamo superficialmente quando facciamo un acquisto poiché altri si interpongono al nostro posto spingendoci a fare determinate scelte in piena condizione eteronoma. Desideriamo solo averla. Come fosse un desiderio normale, consueto, scontato.
Un popolo non vive di PIL, e anche se a questa frase siamo abituati, dovremmo metterci lì e rifletterci sopra, poiché in quella frase è racchiuso il nostro futuro e quello dei nostri figli. È dimostrato sotto tutti i profili filosofici, scientifici, economici, che il PIL e il benessere individuale non hanno alcuna relazione fra loro, ciononostante ci riempiono le orecchie di spread, di pressione fiscale, di politica di austerità, di debito, di credito, di titoli di stato, di borsa, di investimenti, ristrutturazioni economiche, come se questi condizionassero positivamente o negativamente la realtà della nostra vita. In realtà “avvantaggia” oltremisura chi sfrutta l’incapacità nel dare valore alla vita e alle scelte che facciamo, indotte e alimentate da essi.
È un’epoca in cui l’immagine vuole prevalere sulla parola e sulla logicità e onestà di questa, dove la confezione prevale sul contenuto, il corpo sullo spirito. È un’epoca davvero frustrante.

Quell’amore verso la terra, la vita, si è trasformato in fame bulimica, stressante, snervante, e gran parte di quel che facciamo, così come siamo stati indottrinati a fare, si è ridotto a consumare, comprare, produrre, credendo di appagare così il nostro senso esistenziale, il nostro desiderio di vivere una vita degna di essere vissuta, e soprattutto di farla vivere a chi non vuole, a chi non accetta di accomunare il benessere con il PIL. Siamo nel più completo degrado esistenziale.