Sono gli “immigrati” a privarci di lavoro, case e sussidi?


Capisco la rabbia e il significato di quel che si vuole esprimere quando affermiamo che “gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi”, ma detta così è fuorviante, ed è una forma razzista di esprimersi, poiché al sostantivo “immigrato” è stato attribuito nel tempo un significato dispregiativo giacché sovente associato a termini come “rubare”, “lavoro”, “casa” e “sussidi”, ossia a quei costituenti essenziali in una società come la nostra.
Di fatto, quando un microfono si avvicina a un qualsiasi cittadino per chiedergli cosa ne pensa degli immigrati, la risposta “mandata in onda” è prevalentemente la stessa:
«Gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi!» – aggiungendo, generalmente – «Io non sono razzista, ma non è giusto che si dia aiuto prima a loro mentre noi italiani veniamo lasciati per ultimi. Che rimangano a casa loro!».
Attraverso questa forma di informazione manipolatoria, deviante, nell’opinione pubblica viene a radicarsi un sentimento di astio, d’invidia nei confronti di chi “viene nel nostro paese a privarci dei nostri diritti”. Allora siamo esortati a propendere verso chi promette di liberarci dal “male che ci invade” e “ci toglie risorse vitali”. Purtroppo è tutto sbagliato. Più propriamente, sono le politiche economiche internazionali (dettate dalle multinazionali), lo sfruttamento delle risorse, a costringere queste persone ad abbandonare i loro paesi d’origine, massacrati da guerre che hanno lo scopo prevalente di aggiudicarsi o difendere tali risorse. Gli immigrati sono in cerca di un riparo da tutto questo, dal momento che non hanno altra possibilità che scegliere fra vivere la tortura della schiavitù, oppure la morte. Non portano con sé ambizioni di conquista, ma gridi dilaniati in cerca d’aiuto. L’aiuto che possiamo dar loro, se vogliamo aiutare anche noi stessi, è quello di comprendere i motivi per i quali sono costretti a fuggire.

Sono le politiche economiche a togliere lavoro, case e sussidi, a tutti, in Italia come in Europa, e in tutto il mondo “occidentalizzato” nel quale è stato esportato (e si sta esportando) questo modello economico-sociale.

Un’essere umano che scappa da una guerra, è ben più disposto ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione salariale, pur di sopravvivere. Ciò aiuta ad abbassare i costi di produzione, ad arrivare ad “adattamenti a calare” quando si contrattano i diritti, a far aumentare le disuguaglianze sociali e a diminuire il potere d’acquisto nel suo complesso.
Il sostantivo “immigrato”, diventato ormai un’appellativo dispregiativo, non dovrebbe neppure esser preso in considerazione quando vogliamo esprimere la nostra contrarietà a una situazione complessa e drammatica come quella che stiamo vivendo.

Se pensiamo di risolvere i problemi che ci sovrastano votando partiti di estrema destra alle imminenti elezioni europee, sbagliamo. Innalzare un muro per non vedere né sentire, né sapere, cosa accade al di là, non risolverà niente. Dobbiamo comprendere che i problemi nell’antartico riguardano e condizionano anche l’artico e viceversa. È il modello sociale consumistico nel quale viviamo, ad averci trascinati in questo disordine intellettivo, e che sempre più ci impedisce di razionalizzare il mondo che ci circonda.

Chi promette di “scacciare via gli immigrati”, lo fa sfruttando la nostra ignoranza rispetto a un problema molto più ampio, profondo e complesso. E non sarà un semplice muro che ci esonererà dall’affrontarlo. Il compito di una sana politica dovrebbe esser quello di interpretare nel modo giusto la rabbia della popolazione, anziché cavalcarla per raccogliere voti. Ecco poi dove si arriva.

Il pregiudizio


Il pregiudizio è l’arma di chi non sa difendersi con la ragione, il principale alimento di cui si ciba l’ignoranza; è preclusione, superstizione, fissazione e fanatismo. Non ha argomentazioni valutate, ma solo vantaggiose. Il pregiudizio è l’atteggiamento di chi non conosce punti d’incontro, ma solo distanze e convenienze. Non cerca ragioni, ma pretesti. Non contempla, non esamina, bensì sorvola, esclude a priori, emargina, rifiuta, respinge, e si esonera dalla responsabilità di considerare, comprendere, penetrare; non va in fondo alle questioni, ma resta in superficie, ossia nell’unico posto in cui è in grado di risiedere, poiché non ha in sé strumenti e basi che gli consentono di permeare, andare oltre, attraversare. Il pregiudizio osserva la facciata del mondo e delibera il contenuto; preferisce determinare per sentito dire, anziché dopo un’attenta analisi. Non si mette mai nei panni degli altri, poiché ha la convinzione che debbano essere prima gli altri a vestire i suoi.
Il pregiudizio è la forma più spregevole, miserabile e indegna con la quale un essere umano è capace di confrontarsi con un altro, con il mondo attorno a sé, e anzitutto con se stesso.

Euro sì; Euro no: parliamo del niente per risolvere niente


Se un’erbaccia non la si sradica, possiamo potarla tutte le volte che vogliamo: lei rispunterà sempre.

Il problema non è l’Euro, ma la nostra Cultura. Se oggi dovessi fare una campagna elettorale sui manifesti ci scriverei: “Più Cultura per tutti!”
Uscire dalla moneta unica non servirebbe a risolvere problemi che sono di natura “concorrenziale“: determinati dal mercato. Anche se tornassimo alla Lira, non potremmo mai competere con paesi come Cina, India, Africa, Sud America, eccetera, dove i costi di produzione rispetto alla “zona euro” sono infinitamente più bassi. Il problema non è la moneta unica, ma la produzione industriale a basso costo e la libera circolazione delle merci e dei capitali. La gran parte delle aziende delocalizza per andare a spendere meno sui costi di produzione. Tutte le aziende europee, e non solo, stanno delocalizzando o dimezzando il personale, certo non per colpa della moneta unica, che ha sì le sue colpe, ma è l’ultima ruota di un carro lanciato verso il burrone sociale.

La moneta unica è un mezzo a disposizione del fine. Togliendo un mezzo non cancelliamo un fine, poiché chi dispone delle possibilità economiche avrà comunque le condizioni favorevoli per trovare altri mezzi.

La favola che i nostri problemi economici derivino dall’Euro è una emerita arma di distrazione di massa che serve a far distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dal vero problema: la concorrenza. Il vero problema è la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari.

L’unica soluzione sarebbe quella di bloccare le importazioni e le esportazioni “in eccesso” (che sono tante), non indispensabili. Regolamentarle severamente, e seriamente, è l’unica soluzione che abbiamo. Una lenta e graduale riduzione delle importazioni e delle esportazioni, ad esempio alimentari, rispettando tutti i termini delle contrattazioni con le varie aziende produttrici, farebbe aumentare la domanda interna risollevando in un attimo l’economia di ogni Paese. Ad esempio, compriamo le patate fuori dall’Italia? Bene, ci sarà un contratto con l’azienda produttrice; rispettiamo quel contratto fino a scadenza e dopo non lo rinnoviamo. Le aziende agricole italiane se ne gioverebbero: aumenterebbero la produzione e la forza lavoro. Ma possiamo citare le arance, i legumi, i cereali, le carni, eccetera. I McDonald’s ne risentirebbero? Poco male. Dove chiude un McDonald apre McItaly dove si vendono soltanto hamburger nostrani e di qualità ai prezzi dettati dal potere d’acquisto interno, se proprio non ne possiamo fare a meno. E se invece possiamo farne a meno, allora lo sostituiamo con un negozio di alimentari come quelli d’una volta che stavano sotto casa, e che magari con due fette di pane fresco, fatto con soli ingredienti italiani, e due fette di un buon prosciutto crudo, fatto in allevamenti italiani, dà più soddisfazione di un panino fatto di plastica insaporita con gli antibiotici. Certo, dovrebbero farlo tutti i Paesi, ma questo è l’unico rimedio.

Se ogni nazione provvedesse a soddisfare gran parte del fabbisogno interno con le proprie risorse, l’economia nel giro di un paio d’anni rifiorirebbe. Quel che ha distrutto la nostra economia è il consumismo, ovvero la domanda di cose inutili, che non servono a niente. Il consumismo è un comportamento compulsivo, irrazionale, degradante, pericoloso per la stabilità fisica e mentale, individuale e collettiva. Oltre a far aumentare drasticamente l’inquinamento di intere aree, nonché atmosferico, inquina anche il nostro modo di pensare e di rapportarci con tutto quello che ci circonda. La globalizzazione, ossia la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari, è stata voluta dai capitalisti per incrementare illimitatamente, coerentemente con la definizione che li identifica, i loro capitali. Ritornando alla Lira non cambierebbe nulla riguardo alla produzione, all’esportazione e all’importazione delle merci, per questo molti economisti parlano di “sciagura economica” quando si riferiscono a queste nel caso in cui dovessimo tornare alla moneta nazionale. Io non penso che si possa andare incontro alla “sciagura”, semplicemente perché ciò è fuorviante, irrilevante. La sciagura è già in atto. È la produzione illimitata, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, e il conseguente nostro “stile di vita“, condizionato dalle pubblicità, dai modelli esposti e imposti ovunque, a causare sciagure economiche che evidentemente nessuno riesce a controllare e regolamentare, proprio perché le norme sono scritte in favore di chi detiene i capitali finanziari, il potere economico e sociale di intere nazioni. La politica è gestita dai capitali, non dai cittadini. La democrazia non esiste nella misura in cui non esistono regole che impongono alle multinazionali di limitare i loro profitti. Sono 85 le persone che detengono la ricchezza della metà del pianeta; ci vuole la metà restante, tutta insieme, per arrivare a fare il mucchio di soldi che hanno quelle 85 persone. È evidente la disparità, l’errata ridistribuzione della ricchezza, dei profitti. Questo non è un problema che riguarda solo la “zona euro”, ma tutto il mondo. Tutto il mondo soffre a causa di questo tipo di globalizzazione. Al contrario la globalizzazione dovrebbe essere culturale, ossia un arricchimento del nostro patrimonio identitario, comunitario ed egualitario. La globalizzazione in atto invece va nella direzione opposta, favorisce le discriminazioni poiché ci sentiamo in concorrenza fra di noi. Ce l’abbiamo con il bengalese perché apre il suo negozio in centro e fa prezzi bassissimi rispetto ai nostri, e così con i cinesi, con gli africani, gli indiani… Però, in realtà, quel che permette tutto ciò è questo modello economico. È quello che dovremmo combattere, non chi “ci porta via lavoro e case”.

Identificare il problema alla radice è l’unico rimedio a disposizione che abbiamo per estirparlo.

P.s. So che è impossibile ridurre le importazioni e le esportazioni: sono un utopista convinto. Ma non pensiamo che tornando alla Lira possa cambiare qualcosa. È una bugia pari alla profezia dei Maya.

L’ignorante insensibile


Ci sono persone che hanno un’insensibilità e un’ignoranza tali da essere inarrivabili.

L’ignoranza non è sinonimo di insensibilità, ma un suo rinforzo. E quando sono insieme tale è la loro forza che non conoscono, giacché non li possono riconoscere, avversari. Avversari che dovrebbero essere proprio ignoranza e insensibilità. E come potrebbero mai identificarli, se quando si guardano allo specchio passano il tempo ad elogiarsi, ad autocelebrarsi, ad applaudirsi, a vantarsi, a dirsi quanto sono capaci nelle loro faccende e nei loro pensieri? Mai una critica che sia una; mai un dubbio. Solo certezze. Certi di essere la qualità migliore che si possa desiderare da se stessi, e anzi, non provate mai a far notare loro quando sbagliano, poiché accettano una critica solo quando questa fa risaltare la supremazia che ritengono di possedere e alla quale in ogni caso vanno ambendo. Provate a dir loro che tutti gli esseri umani hanno pari dignità e pari diritti; lo sottoscriveranno con determinazione, salvo poi aggiungere, con spiccato senso di patriottismo e nazionalismo, ovvero escludendo a priori tutti coloro che non fanno parte della loro Patria, che pur essendo esseri umani, gli “stranieri” (ma solo quelli provenienti da determinati territori) non meritano di essere soccorsi poiché “ci rubano lavoro e case”. Provate a dir loro che la violenza sulle donne è diabolico; faranno i salti mortali per corroborare questa affermazione, salvo poi infischiarsene se tutte le donne che cercano aiuto sulle nostre, loro, e le loro figlie, vengono ripetutamente violentate nei “lontani” Paesi d’origine.

Bene, oggi e sempre, auguro a tutti coloro che si riempiono la bocca della Costituzione italiana, per chissà quale incomprensibile motivo, di non trovarsi mai nella condizione di dover abbandonare questa Patria, che tanto amano e sbandierano come segno distintivo di egemonia razziale, e di non subire mai le torture dalle quali scappano tutti coloro che sbarcano sulle nostre coste.

L’articolo 3 della nostra Costituzione recita così:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Il compito della Repubblica è quello di non alimentare le discriminazioni, e di operare in modo tale che “tutti i popoli” possano raggiungere l’eguaglianza sociale e pari dignità. “Tutti i popoli”, dal momento che oggi nessuno Stato è svincolato dall’altro, e tutti sono legati fra loro per ragioni di ordine economico-commerciale. Quando compriamo un diamante dobbiamo avere la consapevolezza che con quel gesto contribuiamo a far distruggere un territorio e a far sfruttare un bambino, costretto alla schiavitù per sopravvivere. Quando accendiamo un fornello, o i caloriferi, o una lampadina, o facciamo il pieno di benzina, dobbiamo essere consapevoli del fatto che queste comodità devastano interi territori nei “Paesi in via di sviluppo” (un ossimoro), lasciando quei popoli nella miseria e nelle malattie più terribili che si possano immaginare. Una Repubblica che permette tutto ciò non adempie a quanto sancito nella Costituzione, e favorisce il proliferare di un disordine mentale e sociale che appunto non ha niente di ragionevole. Ci sono partiti come la Lega Nord che campano alla luce del sole grazie a questi disordini, e altri che lo fanno subdolamente, ma ognuno di loro è accomunato dal fatto che si guardano bene dallo spiegare le ragioni per le quali questi popoli cercano la salvezza sulle nostre coste. Nessuno di loro mette mai in luce la necessità di cambiare le politiche economiche internazionali, poiché sono i primi ad arricchirsi, attraverso le loro multinazionali, da tali scempi.

Prendete il Governo italiano attuale, e le nomine che sono state appena fatte nelle società dello Stato: sono tutti privati imprenditori, con i loro legali e commercialisti al seguito, che hanno interessi miliardari nei Paesi più poveri della terra. Invito a verificare ogni nomina per avere un’idea degli interessi privati che ognuna ha, al di là delle dichiarazioni che i diretti interessati rilasciano. Ecco, in un clima politico del genere, l'”ignorante insensibile” continuerà a rafforzare l’opinione (“l’opinione infondata”) che ha nei confronti di coloro che sbarcano sulle nostre coste, e i partiti saranno lì pronti per prenderseli a braccetto e ad incrementare i loro sporchi affari sulla pelle di povera gente che non ha colpe, rassicurandoli che prima o poi prenderanno l’estrema decisione di affondarli in mare prima che riescano a raggiungere la nostra tanto amata Patria; perché la “persona umana” citata nella tanto sbandierata Costituzione, secondo loro, è solo quella che abita entro i nostri confini. E solo quella merita il diritto a una vita dignitosa.

Se esiste un Terzo Mondo, quello è presente nella testa di chi crede di avere la supremazia esistenziale; è vivo nelle menti di tutti coloro che al mattino si guardano allo specchio per celebrare se stessi, e non per cercare di comprendere gli altri attraverso sé, e i propri errori.

C’è chi può, chi non può, e chi non è interessato


Ci vorrebbe un tetto alle ambizioni, per riportare tutti ai piedi della montagna. Non alle emozioni ma alle ambizioni; che sono due elementi che mai si sono conosciuti e mai s’incontreranno, se non per competere, sconfiggersi e annullarsi a vicenda.
Ci vorrebbe un sostegno concreto alle condizioni favorevoli; non per aspirare ad elevarsi materialmente e indefinitamente, ma per restituire consapevolezza all’uomo del fatto che tutto l’eccesso è effimero, destinato a non durare, e innanzitutto a togliere qualcosa a chi non è vicino e caro.

L’ambizione non è cosa da tutti, ma invece tutti ci ostiniamo follemente a credere che ogni cosa sia possibile. “Non tutti” si possono permettere l’ambizione, e “non a tutti” piace inseguirla. “Non tutti” hanno le capacità fisiche e spirituali adatte a scalare una montagna: “non tutti” sono alpinisti. L’umanità è così varia e variegata che anche solo supporlo dimostra quanto nella sua porzione malata ci sia il desiderio di controllare, dominare e soffocare la parte sana, come fa un qualsiasi virus influenzale, e come hanno fatto tragicamente in un recente passato fascisti e nazisti; che hanno lasciato indubbiamente sedimenti. Presupporre che tutti debbano essere uguali è espressione di una forma mentis che ritiene di “possedere” la superiorità assoluta per sancire che tutti possono farcela, e giudicare inadatto e inutile chi invece non riesce, o non è interessato, di fatto, a “farcela”. Il fatto che una persona riesca a raggiungere le proprie aspirazioni, non autorizza a ipotizzare che anche gli altri siano in grado di fare altrettanto. Questo comportamento si chiama “presunzione“. La supponenza non è altro che il risultato d’un processo involutivo che ci ha condotti verso l’inconsapevolezza delle infinite sfaccettature dell’essere umano.

I modelli imposti generano verso noi stessi, e nei confronti degli altri, un’aspettativa che sempre più spesso si rivela irrealizzabile. Aspiriamo a quei modelli, ma senza avere le condizioni sociali favorevoli, né le capacità individuali adatte ad inseguirli, giacché il progresso culturale interiore è stato accuratamente contenuto in uno spazio che non va oltre l’ambizione personale, egoistica e assetata di carriera. Oggi siamo inadatti a fare scelte sagge, e in esse non riusciamo a tener conto delle conseguenze che le nostre precarie ed effimere aspirazioni, e le azioni derivanti, hanno sull’insieme.

Ci dicono che possiamo scegliere, ma non abbiamo scelta quando ci è possibile optare soltanto di fronte a infinite cose inutili. E di fatto sono sempre scelte che impoveriscono, “inconsapevolizzano” culturalmente noi, ma che arricchiscono materialmente un capitalismo senza regole morali né legislative.

Come si fa ad arrogarsi del diritto di pensare che tutti ce la possano fare allo stesso modo, se non tutti hanno le capacità individuali e i mezzi per farlo? C’è chi può, chi non può, e chi “non è interessato” a rincorrere con ansia un mondo sempre più irraggiungibile, ansioso e bramoso. Non ci sono solo “quelli che possono”, e dall’altra parte quelli che “non hanno voglia”. La mente umana è infinitamente divisa in opposti; non si riduce banalmente nell’emettere giudizi pretestuosi, falsi, infondati, nei confronti degli altri. Per fortuna.
L’identità e la realizzazione personale di ognuno di noi non va ricercata nella carriera, ma nell’accettare le diversità sociali e individuali, nel rispettarle, e nel fare in modo che tutti abbiano la possibilità di esprimerle senza rischiare d’essere giudicati inadatti o falliti, e di ritenersi tali. Essere consapevoli delle diversità che “esistono nonostante noi”, sarebbe un grande passo verso il riconoscimento della dignità.

In dubio abstine


Einaudi diceva che “prima bisogna conoscere e poi si può deliberare”. Oggi avviene invece – prepotentemente – l’esatto contrario: ovunque, su ogni argomento, e nei confronti di chiunque. C’è un grande conflitto interiore tra “è” e “potrebbe“, tra “giudizio” e “critica“, “apparenza” ed “essenza“; conflitto che favorisce l’esclusione dell’analisi, che è propria del pensiero valutativo. L’analisi “deve” portare a delle conseguenze logiche, che altrimenti in sua assenza mostrerebbero delle illogicità, delle incoerenze, delle irragionevolezze pregiudizievoli.

C’è una estrema tendenza a categorizzare, classificare, valorizzare, interpretare, giustificare e sbilanciarsi, senza aver prima verificato, controllato, ricercato, sperimentato, osservato, “analizzato” e compreso. Il pregiudizio è, paradossalmente, un atteggiamento coerente con la società dell’immagine nella quale viviamo, che legittima insistentemente giudizi di valore appunto privi di fondamento, di contenuto; e allora un pensiero espresso diventa inconsistente, infiammato di valore e contraddizioni fino a fondersi e liquefarsi. Tutto “è” il contrario di tutto, come “il diavolo e la croce” che alla fine si escludono a vicenda.

Non sappiamo più che pesci prendere.

Ogni questione viene meticolosamente adattata a ciò che “appare“, anziché a ciò che “potrebbe” essere in realtà. Se in passato il dubbio aveva la funzione di sollecitare domande ed esortare la ricerca di risposte seguendo le tracce del passato, ovvero di basi solide a cui fare riferimento, oggi siamo costantemente e forzatamente spronati a non avere dubbi, dal momento che li troviamo già confezionati e “pronti all’uso“, come le eventuali risposte. Perciò non abbiamo motivo di verificare: è tutto come appare e niente più, e quel che appare viene necessariamente associato al contenuto. La celebre locuzione “l’abito non fa il monaco“, oggi è quasi totalmente superflua, giacché il superfluo predomina sul contenuto; contenuto che è ormai pleonastico, improduttivo, infruttuoso, contraddittoriamente superfluo, un ossimoro; un accessorio anch’esso. Non andiamo più “coi piedi di piombo“, ma “a tutta birra“, pertanto “bruciamo le tappe“, “mettiamo il carro innanzi ai buoi“, “partiamo in quarta” e ci perdiamo in “questioni di lana caprina“.

I dubbi arricchiscono e non generano aspettative, mentre le certezze limitano le prospettive, ed esigono il pregiudizio. Or dunque, è vero che “in claris non fit interpretatio“, ciò che è chiaro non ha bisogno di interpretazioni, ma “in dubio abstine“, nel dubbio astieniti.

L’egotista


L’egotista è colui che ha la tendenza a considerare l’interesse personale come base del comportamento. Si dimostra altruista, se a trarne profitto sa che sarà il suo ego; è sensibile, attratto, a volte curioso, suscettibile alla folgorazione e a sua volta folgorante; il tempo sufficiente ad avvalorare e riconfermare le doti intellettuali che suppone di avere: ha bisogno di frequenti certezze, è insicuro e ha un intimo complesso di inadeguatezza. L’egotista si intrattiene con gli altri, quasi sempre per compiacersi: predilige il suono della sua voce; è sofferente e tormentato, soggetto a continui abbassamenti d’umore, generalmente quando non riesce a soddisfare il suo ego. Si approfitta dell’altrui bontà, illudendo e seducendo, pur di trovarsi al centro della scena; l’egotista una volta raggiunti i suoi scopi smette di recitare la sua parte, perde l’interesse nei confronti degli altri, tace o si allontana con un pretesto; pretesto di cui lui per primo ha esigenza, non riuscendo ad essere onesto. L’egotista è spesso all’oscuro della sua pur evidente richiesta di centralità, a volte invece ne è perfettamente consapevole e anzi lo esibisce con risolutezza poiché convinto di essere nel giusto. È in carriera, e non esita a farsi largo tra la folla con astuzie e spintarelle: tutto ciò che è d’ostacolo sul suo cammino lo supera con freddezza pur d’avere successo nelle sue ambizioni; ambizioni che devono necessariamente attestare le sue capacità. L’egotista immancabilmente sfoggia la sua esistenza, la sua bontà, comprensione e capacità, senza però accrescere, arricchire, valorizzare effettivamente tali qualità per il bene comune, ma solo ed esclusivamente per un suo tornaconto personale. L’egotista, a differenza dell’egoista, è colui che essenzialmente inganna se stesso.

L’amicizia


L’amicizia è attenzione, armonia e distacco; è partecipazione spassionata, imparziale, generosa. L’amicizia non ti manca, e anche quando lontana, silenziosa, sospesa, non trascura mai se stessa. L’amicizia è sostanziale, inviolabile, infrangibile, saldamente ancorata nella baia del bisogno… è protezione, rifugio, difesa e soccorso; l’amicizia è un favore non chiesto. È fiducia, è stima, è senza aspettativa… è quella cosa che sta nel mezzo tra una parola e un silenzio, uno schiaffo e un’abbraccio, un sorriso e un pianto, un consiglio e un rimprovero… ma che non giudica, non condanna mai e perdona sempre. L’amicizia è quel tesoro che paga lei il prezzo al tuo posto senza mai avere conti in sospeso; è un valore inestimabile, impagabile, insostituibile… L’amicizia non ti possiede: ti ascolta dai margini.

L’amore


L’amore è comprensione, è penetrazione… disponibilità, disinteresse; l’amore è premura, sovente possessivo, dominante e remissivo; è impetuoso, passionale, forte, irresistibile, irraggiungibile, travolgente… e rovinoso. L’amore non lega, non trattiene, non ingabbia, non ostacola e non comanda, piuttosto avvolge, ripara, copre, scalda, abbraccia, stringe, avvinghia, accoglie, confessa, dedica, sostiene… L’amore protegge se stesso con la fantasia. A volte è egoista, invadente, molesto, pesante, chiuso su se stesso e lo dici con superficialità; altre è impercettibile, oscuro, enigmatico… Ma allora non è amore. L’amore lo sai… e anche se cerchi di apprenderlo e spiegarlo, come fanno tutti, come ho fatto io, sarà sempre inarrivabile a parole.

Può il mondo cambiare?


Si dice che credere di poter cambiare il mondo sia un’utopia. È poi così vero?

Utopia: dal greco Eutopia, cioè «buon-luogo», e Outopia, che significava «nessun-luogo».

Partiamo dalla proposizione che, se si vuole, è possibile cambiare se stessi. Ciò basterebbe a dimostrare che cambiando noi stessi, coerentemente anche il mondo avrebbe “almeno una possibilità” di cambiare; se non altro, almeno la prospettiva che avremmo verso di esso. Si dice sempre che il mondo è relativo, una prospettiva: ognuno di noi ha la propria finestra soggettiva che si apre sul mondo; ognuno di noi èed abita il proprio mondo, il proprio universo. È possibile affermare allora che cambiando prospettiva, cambia anche il mondo.

È dimostrato che l’unione fa la forza, perciò tanti individui volenterosi di formare una comunità, o meglio, resisi consapevoli di costituirla, aggiungono un’altra possibilità affinché il famigerato cambiamento si realizzi. Bauman ad esempio afferma che «la comunità tiene in pugno i singoli finché questi vivono nell’ignoranza di essere una comunità». Quel che andrebbe andrebbe messa in evidenza, infatti, è questa mancanza di consapevolezza.

Allora, potremmo dire che cambiare se stessi significa diventare, ed “essere”, un «buon-luogo», mentre pensare di cambiare il mondo, secondo la veduta “outopica”, sottintenderebbe voler vivere in «nessun-luogo». Non si scorge una certa incongruenza nei due propositi? Cambiare il mondo è un’utopia, tuttavia non la è cambiare se stessi…

Cambiare il mondo da soli è infattibile, eppure legando le forze è quantomeno plausibile: quest’affermazione implica ulteriormente che il mondo può essere cambiato.

Postulando che da soli non possiamo avere la forza di cambiare il mondo (poiché ci sono grandi nomi che indubitabilmente hanno fatto la differenza nel corso della storia), abbiamo però la possibilità di capire chi lo abita. Capire chi abita il mondo, ovvero noi stessi, presuppone si possa comprendere cosa si può fare (o andrebbe fatto) per cambiarlo, il ché non vuol dire necessariamente cambiarlo, bensì potenzialmente: “correggere” noi stessi, anche in questo caso, pertanto consequenzialmente il mondo.

Ma allora non ho capito: il mondo può essere cambiato o no? E è vero oppure no che è sempre stato cambiato (in meglio e in peggio) da un manipolo di persone che hanno fatto la differenza? Se è vero, allora è vero anche che il mondo può cambiare.

E dobbiamo cambiarlo perché?

La nostra è una “società consumistica“; ciò implica la sua distruzione. È un esito logico, ineccepibile. Questa società cambia tutto ciò che tocca in una fonte potenziale di sfruttamento, di arricchimento e di repressione. Grazie ai mezzi di comunicazione di massa – più efficaci di qualsiasi legislazione – tende a ridurre, anzi ad assorbire ogni forma di protesta. Il risultato è l’atrofia di organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative. Un solo uomo, davanti a una telecamera, è in grado di condizionare l’opinione di centinaia di migliaia di persone senza dar loro l’impressione di farlo, e di apparire allo stesso tempo immune alle critiche brandendo sofismi e congetture tipiche degli ambienti politici. È un fatto, appunto, che la politica non vien più fatta negli ambienti preposti, bensì attraverso i media. Ed è proprio attraverso di essi che si opera – più e meno intenzionalmente – affinché venga repressa ogni forma di critica utile ad incoraggiare un’alternativa. L’esibizione del dolore e della protesta, sono un pretesto per dare in pasto all’opinione pubblica, a questo modello sociale, ciò di cui ha bisogno: comfort e sicurezze. Fare da spettatori – comodamente dalle proprie abitazioni – della protesta è meno rischioso, e meno impegnativo, che unirsi ad essa. Ci viene offerta su un piatto d’argento e sapientemente condito, guarnito, la possibilità di partecipare senza partecipare. Che senso avrebbe, quindi, parteciparvi? E quale senso avrebbe riflettere, se già c’è chi lo fa per noi?
Italo Calvino nel suo memorabile “Le città invisibili” sosteneva che: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (“Le città invisibili“, pag. 170).
Tuttavia è vero che coloro che si sforzeranno di capire «chi e cosa non è inferno» si troveranno a fare i conti con pressioni di ogni genere che li spingeranno ad accettare ciò che essi insistono a voler chiamare «inferno».

Quelli che pensano che cambiare il mondo, renderlo migliore, sia un’utopia sono, di fatto, i demoralizzati (e i demoralizzanti), rassegnati, profondamente condizionati (e condizionanti) da coloro che scientemente hanno educato – noi individui, in massa -, dalla nascita, che il mondo scorre in un certo modo, e che di conseguenza poco possiamo fare, noi, per modificare il suo flusso; certamente non perché sia vero, bensì perché così com’è fa comodo a chi vuol persuaderci nel ritenerlo.
Il sociologo statunitense William Thomas affermava che: «Se la gente definisce una situazione come reale, essa produce delle conseguenze reali». Ed è proprio questo stravolgimento della realtà, “realizzato” attraverso i mass media, che ha prodotto la completa alienazione dalla reale «realtà». E la realtà di questo momento non sarebbe assolutamente accettabile, se se ne avesse una percezione incondizionata.

Ecco che allora io voglio credere che la realtà sia quella che il mondo possa cambiare veramente. Non pretendo di cambiarlo da solo, tantomeno di avere le forze di mettere insieme “una” comunità, ma sono fermamente convinto che ciò ha almeno una possibilità di realizzarsi.

Per concludere lascio un’affermazione di Castoriadis, che mi piace richiamare spesso, è vero, ma che rende al meglio l’idea del tipo di cambiamento che noi tutti dovremmo considerare. Alla domanda di uno dei suoi intervistatori:
«Ma allora lei cosa vuole? Cambiare l’umanità?»
Lui rispose:
«No, una cosa molto più modesta: voglio che l’umanità cambi, come ha già fatto due o tre volte».

Il «buon-luogo» non realizza «nessun-luogo», ma ci dà la possibilità di rendere questo certamente migliore.