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Coronavirus: la regola del silenzio


Indosso la mascherina perché la struttura organizzativa dello Stato di cui faccio parte ritiene sia necessaria per limitare il diffondersi del Covid-19. Questo non implica necessariamente che si debba essere d’accordo con questa prescrizione, fermo restando che personalmente lo sono.
Non ho problemi a coprirmi mento, bocca e naso perché ritengo che le privazioni delle libertà individuali siano da identificare altrove.

Scaricare l’App Immuni è facoltativo, non un obbligo, pertanto tutte le discussioni in merito alla questione sono totalmente inutili.

Non mi sento controllato da nessuno, e sono abbastanza sereno ad ammettere che tra “essere comandati” ed “essere governati” c’è una profonda differenza: le società, in tutta la storia dell’uomo, non sono mai state, e mai lo saranno, esentate da organizzazioni atte alla formazione dei popoli. Possono essere giuste o sbagliate, certamente è irrazionale determinarlo sulla base di un obbligo come quello di indossare una mascherina.

Non mi spertico in congetture giuridiche o mediche perché nessuno in tutta la mia esperienza di vita mi ha mai fatto sentire migliore di altri, e soprattutto perché sono profondamente consapevole che se avessi voluto o potuto avventurarmi sulla strada verso uno dei due ambiti avrei dovuto necessariamente studiare. Non l’ho fatto. Taccio perlopiù. Questo non significa che mi senta inferiore, no, significa accettare le competenze e rispettarle.

Riesco a vivere senza paura, con apprensione sicuramente e molta prudenza, perché i pericoli durante il viaggio della vita sono ovunque, da sempre. Questo non debilita il mio stile di vita, anzi, lo fortifica e mi spinge a cercare soluzioni sempre più adatte a semplificare la mia vita e quella della mia famiglia: ciò che è necessario stimola la creatività, e la creatività è una risorsa. Sentirsi impotenti, abbattuti e frustrati è la conseguenza alla convinzione di poter battere tutti e tutto. Non siamo delle creature mitologiche. Non siamo indistruttibili. Abbiamo tutti delle debolezze, e soprattutto deficienze.

Se tutto questo pensi possa condizionare il giudizio che gli altri hanno di te allora dovresti seriamente iniziare a chiederti perché vivi la tua vita sprecando tempo concentrando la tua attenzione su questo, piuttosto che spostarla sul rispetto di semplici norme che, onestamente, non limitano il tuo comportamento ma lo modificano soltanto.

Se sei dell’idea che indossare la mascherina sia un’imposizione sbagliata nessuno ti impedisce di pensarlo, non è illegittimo avere idee diverse. Diverso è imporre concretamente il tuo pensiero sugli altri, che osservano banalmente regole e leggi. Ed il rispetto verso gli altri affonda le sue radici nel terreno delle regole del vivere in comune: non viviamo su un’isola deserta, e non facciamo parte di società anarchiche.

L’unica cosa che dannatamente mi preoccupa è questo delirante accanimento praticato sui social media da parte di tutti. Siamo tormentati dal pensiero di essere controllati, ma al tempo stesso non facciamo altro che esporre quanto di più intimo abbiamo: i nostri pensieri. Non esistono più vergogna, riserbo, modestia, e prevale sempre più la convinzione di poter fare e dire tutto quello che ci passa per la testa senza considerare minimamente che questo modo di essere è l’equivalente di quel che contestiamo attraverso le nostre ossessive esternazioni. È un paradosso talmente lampante che sfugge alla comprensione con la stessa velocità con la quale si presenta. Ci mettiamo in mostra, raccontiamo le nostre giornate nei minimi dettagli, mostriamo chi siamo, cosa pensiamo e cosa facciamo a chiunque, ma al tempo stesso ci dichiariamo succubi di un governo che ci spia, proiettando però sugli altri difetti che appartengono a noi. Non vogliamo seguire le regole però ci lamentiamo se gli altri non seguono le nostre. Tutto ciò è inquietante.

L’inutilità del superfluo, dell’effimero, era ciò cui tutti, chi più e chi meno, profondamente aspiravamo. Il desiderio di riscoprire abitudini e valori, abbandonati a causa del tempo che “preferivamo” impiegare consumando l’inessenziale, è svanito nel nulla, disperso come polvere nel vento, e siamo dunque tornati a consumare pensieri e vita, immersi nel vuoto che lascia questa perpetua perdita di intimità. E insieme alle nostre intimità la nostra dignità.

Ora, sei contro la mascherina, la dittatura mediatica, quella politica (o di una certa politica a tuo giudizio), il sistema giudiziario, quello sanitario, le Forze dell’Ordine, e chissà cos’altro? Bene, fonda un partito e fatti votare, ottieni la maggioranza in parlamento, governa e cambia la società a tua immagine e somiglianza. Perché questa è la democrazia. Sì, proprio quella che tu reclami a gran voce in ogni dove. Ed è l’unico strumento a tua disposizione in grado di realizzare la tua visione della vita. Nel frattempo però rispetta le regole in corso. E se ritieni che questo governo sia illegittimo ripeti il procedimento sopra, perché se insisti allora significa che ti è poco chiaro il concetto. Oppure, se reputi difficoltoso e dispendioso tutto ciò, ingegnati, magari cominciando a supporre di non essere al di sopra di tutti, e su quel principio iniziare il percorso per essere qualcuno. Non uno qualunque: un individuo. E un individuo non si misura sulla base della sua popolarità, bensì sulle sue profondità. Esattamente quelle che incessantemente, ossessivamente sbatti fuori da te stesso invece di curarle e custodirle.

E comunque ogni tanto taci, che male non fa in tutta questa confusione.

La povertà, tra indifferenza, diffidenza e superficialità


Ho, purtroppo, modo di interloquire sempre più spesso con persone che considerano la condizione di povertà l’effetto di un’incapacità esclusivamente personale, una caratteristica di quelle persone che non riescono, giacché non vogliono, a trovare una posizione sociale e quindi a realizzare una vita come quella di tutti gli altri che, invece, riescono a concretizzare perché ne hanno la volontà. Costoro pensano che il mondo sia costituito per una parte da predatori, sciacalli, imbroglioni, astuti, ingegnosi, volenterosi e interessati, di conseguenza immaginano che l’altra sia fatta di ingenui, sprovveduti, imbranati, sfaticati, oziosi, privi di interesse, lamentosi e parassiti. Plagiati quotidianamente da stereotipi, luoghi comuni, banalità e quant’altro capiti di ascoltare o leggere attraverso i media, come dargli torto. E dal momento che “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, il propagarsi di tali preconcetti è inesorabile. A dispetto quindi di quel che conseguentemente una crisi — che nessuno ha voluto — produce, ovvero povertà e degrado sociale, gli indigenti sono tuttavia elaborati come degli incapaci.

È, molto spesso, il povero stesso a ritenersi incapace, non all’altezza delle situazioni e dei problemi che è suo malgrado costretto a fronteggiare. Ed è anche il motivo principale che trascina un individuo alla depressione, e nei casi più estremi anche al suicidio, senza contare le umiliazioni con le quali si scontra ogni giorno e le frustrazioni che ne conseguono. E le umiliazioni sono proprio gli sguardi e i preconcetti di coloro che li considerano degli inetti, per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili nei confronti di chi versa in condizioni di miseria, facendo lo sforzo di comprendere che le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità.

Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in conto alcuni aspetti che una crisi come quella che stiamo vivendo genera: il terreno sul quale camminiamo che si fa sempre più fragile, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali inevitabilmente ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora e che non a tutti riesce facile governare, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e dunque tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche che diventano sempre più difficili da curare a causa della mancanza di risorse economiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.

Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità individuali per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha l’attitudine di diventare predatori, sciacalli, egoisti, astuti a nostra volta. Una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli “attrezzati”. Pensarlo equivale a essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo altezzosamente il resto del mondo. Coprire gli occhi, tappare le orecchie e turare il naso, durante la nostra corsa sfrenata verso il “successo”, poiché vedere, ascoltare i lamenti e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, non serve a nessuno, se non ad alimentare un egoismo e un’inconsapevolezza sempre più diffusi.

Il problema è che non siamo disposti e disponibili a vedere, ascoltare e sentire; l’uomo non è un essere incline a misurarsi con il “brutto”, con la bassezza umana, ma solo con il bello. È ininterrottamente esortato, sollecitato a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, “silenziosi”, e dunque sempre più irraggiungibili, convinto che ciò possa rendere bella, pulita e silenziosa anche la sua coscienza, tranquillo, sicuro di non aver colpe per le disgrazie altrui con il suo comportamento.

Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto ci si possa spruzzare di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare, classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”.

E poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei “loro” confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, ci vengono allora in aiuto espedienti in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà. Primo fra tutti è il metodo più semplice da adottare e anche il più efficace (non in termini di solidarietà; efficace per placare egoisticamente la nostra coscienza): quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione” si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato, inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.

Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere (vedi violenze e reati diffusi); più il numero dei malati di cancro aumenta, più saremo costretti a non vedere, non ascoltare, e a non sentire l’odore. L’indifferenza, la diffidenza e la superficialità dilaganti con le quali affrontiamo certi argomenti, e con le quali mi scontro ogni giorno, lo attestano chiaramente. E quanto vorrei sbagliarmi…

Il pregiudizio


Il pregiudizio è l’arma di chi non sa difendersi con la ragione, il principale alimento di cui si ciba l’ignoranza; è preclusione, superstizione, fissazione e fanatismo. Non ha argomentazioni valutate, ma solo vantaggiose. Il pregiudizio è l’atteggiamento di chi non conosce punti d’incontro, ma solo distanze e convenienze. Non cerca ragioni, ma pretesti. Non contempla, non esamina, bensì sorvola, esclude a priori, emargina, rifiuta, respinge, e si esonera dalla responsabilità di considerare, comprendere, penetrare; non va in fondo alle questioni, ma resta in superficie, ossia nell’unico posto in cui è in grado di risiedere, poiché non ha in sé strumenti e basi che gli consentono di permeare, andare oltre, attraversare. Il pregiudizio osserva la facciata del mondo e delibera il contenuto; preferisce determinare per sentito dire, anziché dopo un’attenta analisi. Non si mette mai nei panni degli altri, poiché ha la convinzione che debbano essere prima gli altri a vestire i suoi.
Il pregiudizio è la forma più spregevole, miserabile e indegna con la quale un essere umano è capace di confrontarsi con un altro, con il mondo attorno a sé, e anzitutto con se stesso.

C’è chi può, chi non può, e chi non è interessato


Ci vorrebbe un tetto alle ambizioni, per riportare tutti ai piedi della montagna. Non alle emozioni ma alle ambizioni; che sono due elementi che mai si sono conosciuti e mai s’incontreranno, se non per competere, sconfiggersi e annullarsi a vicenda.
Ci vorrebbe un sostegno concreto alle condizioni favorevoli; non per aspirare ad elevarsi materialmente e indefinitamente, ma per restituire consapevolezza all’uomo del fatto che tutto l’eccesso è effimero, destinato a non durare, e innanzitutto a togliere qualcosa a chi non è vicino e caro.

L’ambizione non è cosa da tutti, ma invece tutti ci ostiniamo follemente a credere che ogni cosa sia possibile. “Non tutti” si possono permettere l’ambizione, e “non a tutti” piace inseguirla. “Non tutti” hanno le capacità fisiche e spirituali adatte a scalare una montagna: “non tutti” sono alpinisti. L’umanità è così varia e variegata che anche solo supporlo dimostra quanto nella sua porzione malata ci sia il desiderio di controllare, dominare e soffocare la parte sana, come fa un qualsiasi virus influenzale, e come hanno fatto tragicamente in un recente passato fascisti e nazisti; che hanno lasciato indubbiamente sedimenti. Presupporre che tutti debbano essere uguali è espressione di una forma mentis che ritiene di “possedere” la superiorità assoluta per sancire che tutti possono farcela, e giudicare inadatto e inutile chi invece non riesce, o non è interessato, di fatto, a “farcela”. Il fatto che una persona riesca a raggiungere le proprie aspirazioni, non autorizza a ipotizzare che anche gli altri siano in grado di fare altrettanto. Questo comportamento si chiama “presunzione“. La supponenza non è altro che il risultato d’un processo involutivo che ci ha condotti verso l’inconsapevolezza delle infinite sfaccettature dell’essere umano.

I modelli imposti generano verso noi stessi, e nei confronti degli altri, un’aspettativa che sempre più spesso si rivela irrealizzabile. Aspiriamo a quei modelli, ma senza avere le condizioni sociali favorevoli, né le capacità individuali adatte ad inseguirli, giacché il progresso culturale interiore è stato accuratamente contenuto in uno spazio che non va oltre l’ambizione personale, egoistica e assetata di carriera. Oggi siamo inadatti a fare scelte sagge, e in esse non riusciamo a tener conto delle conseguenze che le nostre precarie ed effimere aspirazioni, e le azioni derivanti, hanno sull’insieme.

Ci dicono che possiamo scegliere, ma non abbiamo scelta quando ci è possibile optare soltanto di fronte a infinite cose inutili. E di fatto sono sempre scelte che impoveriscono, “inconsapevolizzano” culturalmente noi, ma che arricchiscono materialmente un capitalismo senza regole morali né legislative.

Come si fa ad arrogarsi del diritto di pensare che tutti ce la possano fare allo stesso modo, se non tutti hanno le capacità individuali e i mezzi per farlo? C’è chi può, chi non può, e chi “non è interessato” a rincorrere con ansia un mondo sempre più irraggiungibile, ansioso e bramoso. Non ci sono solo “quelli che possono”, e dall’altra parte quelli che “non hanno voglia”. La mente umana è infinitamente divisa in opposti; non si riduce banalmente nell’emettere giudizi pretestuosi, falsi, infondati, nei confronti degli altri. Per fortuna.
L’identità e la realizzazione personale di ognuno di noi non va ricercata nella carriera, ma nell’accettare le diversità sociali e individuali, nel rispettarle, e nel fare in modo che tutti abbiano la possibilità di esprimerle senza rischiare d’essere giudicati inadatti o falliti, e di ritenersi tali. Essere consapevoli delle diversità che “esistono nonostante noi”, sarebbe un grande passo verso il riconoscimento della dignità.

L’egotista


L’egotista è colui che ha la tendenza a considerare l’interesse personale come base del comportamento. Si dimostra altruista, se a trarne profitto sa che sarà il suo ego; è sensibile, attratto, a volte curioso, suscettibile alla folgorazione e a sua volta folgorante; il tempo sufficiente ad avvalorare e riconfermare le doti intellettuali che suppone di avere: ha bisogno di frequenti certezze, è insicuro e ha un intimo complesso di inadeguatezza. L’egotista si intrattiene con gli altri, quasi sempre per compiacersi: predilige il suono della sua voce; è sofferente e tormentato, soggetto a continui abbassamenti d’umore, generalmente quando non riesce a soddisfare il suo ego. Si approfitta dell’altrui bontà, illudendo e seducendo, pur di trovarsi al centro della scena; l’egotista una volta raggiunti i suoi scopi smette di recitare la sua parte, perde l’interesse nei confronti degli altri, tace o si allontana con un pretesto; pretesto di cui lui per primo ha esigenza, non riuscendo ad essere onesto. L’egotista è spesso all’oscuro della sua pur evidente richiesta di centralità, a volte invece ne è perfettamente consapevole e anzi lo esibisce con risolutezza poiché convinto di essere nel giusto. È in carriera, e non esita a farsi largo tra la folla con astuzie e spintarelle: tutto ciò che è d’ostacolo sul suo cammino lo supera con freddezza pur d’avere successo nelle sue ambizioni; ambizioni che devono necessariamente attestare le sue capacità. L’egotista immancabilmente sfoggia la sua esistenza, la sua bontà, comprensione e capacità, senza però accrescere, arricchire, valorizzare effettivamente tali qualità per il bene comune, ma solo ed esclusivamente per un suo tornaconto personale. L’egotista, a differenza dell’egoista, è colui che essenzialmente inganna se stesso.

Storie di ex lavoratori


«Se si ha un lavoro che ci consente di avere una vita dignitosa, mentre la si vive non si fa caso al tempo, non si aspetta con ansia e frustrazione che qualcosa possa finalmente cambiare per poter migliorare la propria condizione, si è tutti presi dalla vita e non si fa attenzione ad altro. Io non so più cosa significa una vita così».
– Un ex operaio –

Il motivo di soddisfazione principale di una vita dignitosa è quello di poter far parte, o essere membro, del gruppo, della società, della comunità. Sentirsi utili, a se stessi e alla comunità, equivale ad avere una vita dignitosa, quindi utile a se stessi e agli altri. Non ci si sente e scartati, emarginati, espulsi dal contesto sociale in cui viviamo. Non esiste niente di più umiliante per un essere umano che sentirsi inutile alla società, che sentirsi emarginato. L’umiliazione non viene avvertita limitatamente nel cerchio familiare, ma si estende nelle complessità della della vita, nella loro totalità. Un essere umano, quando costretto a sopravvivere di stenti e a convivere con le umiliazioni quotidiane conseguenti all’emarginazione, perde i suoi equilibri, il suo “senso“, le sue ragioni di vita. Non accetta, intimamente, di essere ridotto a scarto della società, di essere abbandonato a se stesso senza possibilità di riscatto. Quando non riesce a procurare il pane per i suoi figli, per la propria famiglia, nasce e si radica in lui un sentimento di odio verso lo Stato, verso la società che non lo accoglie più. Un odio che ha origine dalla sopraffazione subita, dalla negazione o la soppressione del suo senso di appartenenza, che invece vorrebbe essere libero di esprimere.

Come può un uomo accettare simili umiliazioni? Come può guardare negli occhi i propri figli, pensare di poter dare loro protezione, esempio, giusta educazione, sani princìpi e valori, e rassicurarli dicendogli che va tutto bene, di non temere, che la vita è bella…? Dove può trovare un uomo simili risorse, se lui per primo non riesce a rassicurare se stesso? Gli esseri umani non sono tutti eroi, non hanno tutti a disposizione, indistintamente, un pozzo dal quale attingere speranze, forze, coraggio… Pensare con pretesa che ognuno di noi, senza appelli e dubbi, sia in grado di trovare dentro sé la forza adatta ad affrontare le complessità della vita, allo stesso modo di tutti, significa non conoscere minimamente la vita e le sue infinite sfaccettature. Significa essere mossi dall’arroganza, dalla presunzione, dall’egoismo, dalla saccenteria… Significa non conoscere affatto la vita, e arrogarsi un giudizio che non abbiamo il diritto di emettere, una conoscenza che non conosciamo e dimostriamo di non voler conoscere. Significa avere la presunzione di conoscere risposte a domande che nemmeno ci facciamo, che non “abbassiamo” a farci perché convinti di non averne bisogno. Siamo tutti capaci a piangere davanti una storia raccontata attraverso uno schermo, ma difficilmente dopo, cambiato canale, quella storia, quella rabbia e quelle lacrime ci faranno andare alla ricerca di risposte.

Farsi domande significa qualcosa di più che servirsi di risposte preconfezionate e pronte all’uso. Farsi domande significa confrontarsi, indagare, mettersi continuamente nei panni degli altri, nelle disgrazie e nelle vite degli altri, cercare di conoscerle, di scavare fino alla radice dei problemi che li affliggono e farli nostri.
Le domande non si esauriscono una volta che si è cambiato canale.

Se da una parte lo Stato non aiuta, dall’altra ci siamo noi, singoli di una comunità che non c’è più, completamente conniventi a questo menefreghismo.

Lasciati soli, da soli, non è per tutti facile trovare le forze, e in questo senso di abbandono, che soffoca come un braccio stretto attorno al collo, che schiaccia gli individui fin nell’animo, sfido chiunque a guardare i propri figli negli occhi, tutti con lo stesso coraggio, la stessa risolutezza, la stessa forza d’animo, la stessa eloquenza, e dir loro:
«Non ti preoccupare, ci sono io…»
E come, guardandoli negli occhi, si può avere tutti la stessa fiducia e speranza che anche loro, un giorno, avranno la possibilità di fare lo stesso con i loro figli, se mai ne avranno, mentre dentro, nell’animo, ci sentiamo annullati ogni giorno di più…?

L’ho sempre pensato: l’arroganza di sapere e l’ignoranza di non saper ascoltare, sono i peggiori difetti che un uomo possa avere.

Stato individualista


Thomas Frank (citato da Neal Lowson in “Dare more democracy”, 2005):
Qui Lowson:
«Il governo si è ridotto ad ancella dell’economia globale».
Qui Frank:
«Liberando ulteriormente il mercato e consentendo a esso di estendersi e di inglobare sempre più il settore pubblico, il governo è costretto a pagare il conto del fallimento del mercato, delle esternalità che il mercato rifiuta di conoscere, e deve fungere da rete di sicurezza per gli inevitabili sconfitti dalle forze del mercato».
Bisogna aggiungere, però, che i “fallimenti” occasionali del mercato non sono i soli a stilare la classifica delle priorità di governo. La mancanza di regole alle forze del mercato e la resa dello Stato alla globalizzazione di queste (la globalizzazione degli affari, del crimine o del terrorismo, ma non quella delle istituzioni politiche e giuridiche in grado di controllarli. Ad esempio una legislazione mirata a combattere le mafie è presente in particolare in Italia, ma nel resto del mondo ancora si sta facendo poco o nulla per adeguarsi, quando invece sappiamo bene, come ha affermato in più occasioni il Procuratore aggiunto Nicola Grattieri, che le mafie operano a livello globale: sono laureati e vestono in giacca e cravatta, gestiscono in prima persona, alla luce del sole, i mercati finanziari, della droga, delle armi e del commercio globale), dev’essere pagata, “quotidianamente”, con il disordine e la distruzione sociale: con una fragilità senza precedenti dei legami umani, con la fugacità delle fedeltà collettive e con la deresponsabilizzazione degli impegni e della solidarietà.

I mercati, com’è noto, operano per scopi diversi da quelli dello stato sociale: non hanno interesse affinché si operi a favore della riduzione delle disuguaglianze sociali, e agiscono esclusivamente su un principio di profitto economico “individuale”: ad essi non importa “chi” e “quanti” possono permettersi un posto nella società, ma “quanto” e “quante volte” quei pochi siano invece disposti a mettere le mani nel portafogli.

Woody Allen in “The complete prose of Woody Allen”, con la sua solita ironia pungente afferma che «Più che in ogni altra epoca della storia l’umanità è a un bivio. Una via porta alla disperazione e alla completa assenza di speranze. L’altra porta alla totale estinzione. Preghiamo affinché abbiamo la saggezza di scegliere correttamente […]».

Le politiche dei governi sono sempre più corrotte dai mercati globali.
Non esistono, e non possono esistere, soluzioni locali a problemi che sono di natura globale. Così come non possono esistere soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Le politiche locali agiscono invece per mascherare e compiacere quelle globali. I problemi di natura globale vanno (e devono e possono essere solo) affrontati globalmente. Ciò che invece avviene è l’esatto contrario. L’attenzione alle carenze dello Stato sociale, evidente e palese, si sposta verso quella individuale. Le frustrazioni e le incapacità individuali, che trovano il loro carburante nelle inefficienze dello Stato, sono state dichiarate ormai un problema solo ed esclusivamente di natura individuale. Il “destino”, ovvero il futuro, l’ignoto, che ci hanno esortati a coltivare con cura maniacale affinché possiamo spianarci la strada per una vita migliore, viene “quotidianamente” ridimensionato a dilemma personale, soggettivo, sradicando in noi l’idea che la collettività, la comunità, invece svolge un ruolo fondamentale affinché l’individuo possa trovare terreno fertile sul quale coltivare le proprie aspirazioni e costruire in base ad esse quel “futuro rigoglioso” che invece siamo sollecitati (dai mercati) a cercare scegliendo fra le infinità di prodotti e gadget offerti dal mercato. A noi solo l’imbarazzo della scelta (individuale).
Tanto più si ha la tendenza ad individualizzare problemi di natura sociale quanto più lo Stato sociale è assente.
Oggi infatti siamo convinti che gli altri siano guidati da simili motivazioni egoistiche, dunque non riusciamo ad attenderci da essi più compatimento disinteressato e solidarietà di quanto siamo indotti, allenati e disposti a offrire. In una società che poggia su queste fragili basi, la comunità tende ad essere percepita come un territorio disseminato di trappole e imboscate. A sua volta questa percezione, come in un circolo vizioso, accentua la fragilità cronica dei legami umani che così si autoalimenta.
Uno Stato non può definirsi tale quando opera, legifera, e sostiene pubblicamente teorie individualiste. Siamo davvero a un bivio; oggi più che mai.
Infine, quando la popolazione è frustrata, senza comprendere razionalmente le ragioni effettive della sua frustrazione, a causa dei messaggi contraddittori che assorbe attraverso i mass media (fonti principali di “cultura”, in particolare nel nostro Paese), è conseguenza inevitabile che si verifichino espressioni di violenza, che per loro natura trovano alimento in tali irrazionalità, vendute ovviamente dal mercato.

Nessuna destinazione


La vita è un percorso disseminato di crocevia, di scelte tra una pubblicità e l’altra che le assegnano una direzione, ma che si guardano bene dal darle una destinazione. La destinazione è un punto di arrivo, una meta raggiunta, un traguardo tagliato, un risultato guadagnato, mentre una direzione non implica necessariamente una destinazione, tuttalpiù la promette, la indica, ma niente lascia presagire, poiché il futuro ci è ignoto e non possiamo conoscerlo con certezza, che quella sia la direzione più giusta (per noi, tenendo conto anche degli altri), a meno che prima della partenza non si sia studiato il percorso su una cartina stradale, o lo si sia già fatto in precedenza, dal momento che molti degli incroci della vita sono perlopiù o sprovvisti di segnaletica o ne sono provvisti in eccedenza, spesso piccoli piccoli, nascosti dietro un ramo che ne oscura la vista, come una postilla qualsiasi di un qualsiasi contratto, perciò se non si è studiato da soli il percorso su una cartina, diventa difficile orientarsi, e più facile affidarsi ad altri a nostro rischio e pericolo. D’altronde “la legge non ammette ignoranza“. Ma anche nel caso in cui lo avessimo studiato, si devono sempre mettere in conto gli ostacoli che inevitabilmente si possono incontrare strada facendo: interruzioni, deviazioni, incidenti, eccetera. Pertanto nessuna destinazione: solo tante promesse. Con la sola rassicurazione, chiaramente ambigua, del “soddisfatti o rimborsati“. Come dire: “tu intanto fidati, e se (e solo “se“) e quando arriverai (e solo “quando“) a destinazione sarà diverso da quello che immaginavi, ti rimborseremo il viaggio di ritorno”. Ciò che conta, in ogni caso, è seguire il percorso indicato.
Una volta il grado di soddisfazione si misurava in base allo sforzo fatto per raggiungerla; oggi sembra che tutto venga misurato solo in base alla facilità, alla velocità, all’immediatezza con le quali si arriva all’oggetto del desiderio, e i mezzi dei quali ci serviamo per raggiungere i nostri scopi non hanno più una rilevanza primaria, se non soltanto da un punto di vista puramente semplificativo circa lo svolgimento delle nostre azioni, che siamo stati istruiti ad interpretare come il raggiungimento di un benessere tanto pubblicizzato ed esposto con ostentata spudoratezza nei “medium“, attraverso i media, i social, e per questo tanto agognato dalle masse che continuamente ci sbattono lo sguardo contro, cosicché anche in loro possa nascere il desiderio di mettersi in viaggio andandone alla ricerca, usando quindi le sole forze seduttive della rappresentazione e della visibilità offerte dai medium.
Pena per gli obiettivi mancati (a causa di un’infinità di motivi più o meno consapevoli): la frustrazione.

Il fatto è che quando siamo arrivati, e durante tutto il percorso, non possiamo fare a meno di notare altre indicazioni che promettono destinazioni ancora più allettanti e seducenti di quella precedente, così in un batter d’occhio siamo già preparati e pronti per ripartire verso nuove promettenti destinazioni e in cerca di nuove ed emozionanti avventure. O almeno questo è quanto viene pubblicizzato dalle coreografie e dalle scenografie delle loro ambigue promesse.
Oggi tutti ci affidiamo ai navigatori, e puntualmente i navigatori, nonostante tutti gli aggiornamenti e le migliorie fornite dalla tecnologia più recente, a volte possono sbagliare a calcolare un percorso, non trovano alcune vie, numeri civici, interi paesi, ma questo di certo non basta ad inibirne l’uso che ne facciamo, perché siamo talmente abituati ad affidarci a un medium che ormai non ci facciamo neanche più caso. Se prima la percezione e la concezione di essere-nel-mondo, con-il-mondo, erano quelle determinate dalle interconnessioni con esso senza l’utilizzo di alcun medium esterno, ma solo attraverso criteri empirici dettati ancestralmente dai nostri cinque sensi, da sedimentazioni radicate nel corso della storia delle tradizioni millenarie che hanno fatto la civiltà umana, e l’hanno fatta resistere fino ai giorni nostri, oggi, anziché affidarci ai nostri cinque sensi, ci affidiamo a un medium. Quindi dalla preistoria a ieri, fino ad oggi, dove per la prima volta ci troviamo tutti “mediaticamente connessi“, utilizzando normalmente uno strumento che non solo sostituisce il fedele piccione viaggiatore, ma riscrive completamente dall’inizio la storia delle interdipendenze, delle interazioni fra esseri umani, e fra questi e la natura, causando inevitabilmente delle interferenze che si insinuano nel mezzo: tra noi e gli altri c’è il medium; il medium espone entrambi alle interferenze.
La questione interessante, sotto il profilo psicologico, è che noi non affidiamo un messaggio preciso al medium: gli affidiamo completamente la nostra intimità, che è fatta di messaggi inesauribili, oltre che spesso incomprensibili persino per noi, affinché qualcuno (si spera) possa leggerla e trovarvi dentro quello che più desidera, o che comprende meglio, o che più rappresenta il messaggio che anch’esso vorrebbe gridare al mondo, per sentirci parte di qualcosa, o avere conferma di qualcosa.

Oggi ci serviamo di oggetti che mediano i rapporti interpersonali, le compravendite, le informazioni, persino gli orgasmi. Un vibratore, una bambola gonfiabile o un sito porno sono i medium che separano l’immaginazione dalla realtà. Se tutta la nostra vita è prima fantasticata, immaginata, o anche solo orientata, e poi solo successivamente realizzata, costruita non senza fatica dopo un lungo percorso, come le esperienze ci insegnano, a dispetto invece della facilità e dell’immediatezza delle soddisfazioni tanto pubblicizzate, per quale motivo dovremmo preferire una direzione più faticosa per raggiungere l’estasi di un solo orgasmo quando c’è chi mi “offre” la possibilità di averne quanti ne desidero, e oltre, in qualunque momento, e oltre, in qualunque luogo, e oltre, seppur mediati e distorti dalle interferenze?
Freud ha percorso tutta la sua vita cercando di dare risposte a domande del genere.
E citerò lui alla fine:
La fine improvvisa di un mal di denti può rendere incredibilmente felice chi ne è stato colpito, cosa invece impossibile se i denti non fanno mai male…
Causare mal di denti e offrire le soluzioni più disparate utili a scacciar via il dolore promettendo felicità, anziché istituire un percorso educativo utile a stimolare la conoscenza, ovvero a risvegliare la coscienza, è una caratteristica peculiare della società di oggi. Soddisfatti o rimborsati, ovviamente.

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La società dei consumi


La società dei consumi è impensabile senza la deforestazione, il deterioramento, la distruzione ambientale dovuti all’estrazione di combustibili fossili. È impensabile senza la distruzione dell’intero ecosistema marino dove ogni anno vengono sversate milioni di tonnellate di agenti inquinanti e rifiuti di ogni genere. È impensabile senza una struttura industriale sorretta da forza lavoro a basso costo, possibilmente senza diritti e senza impegni familiari, costretta per sopravvivere a soddisfare i desideri ossessivo-compulsivi dei consumatori. È impensabile senza consumatori incoscienti e inconsapevoli. La società dei consumi è impensabile senza una sensibilità fatta consumare nell’ego.
Allora tanto meglio non pensarci. È più semplice conformarsi al sistema, adattarsi, non opporsi, soprassedere, delegare, fregarsene, accettare, rassegnarsi, stare a guardare.