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2015: NON SARÀ UNA BUONA ANNATA…


In controtendenza, rispetto ai tradizionali auspici, in opposizione ai più affezionati fan dei più fidati oroscopi, infischiandomene dei folcloristici auguri di buon anno, delle ottimistiche previsioni che fantasticano su di un futuro ignorando il presente, voglio qui di seguito stendere due righe di realtà, che pur essendo spiacevole, problematica, spesso antipatica, molesta e intollerante, merita d’esser presa in considerazione.

Di giorno in giorno si susseguono notizie che mostrano tendenze negative in materia di uguaglianza. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha calcolato che tre miliardi di persone vivono oggi sotto il livello della povertà, fissato in 2 dollari di reddito al giorno. Sappiamo che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti, mentre il 20 per cento più povero consuma l’1 per cento. Si stima inoltre che il 40 per cento della ricchezza mondiale è posseduto dall’1 per cento della popolazione totale del mondo, mentre le 20 persone più ricche del mondo hanno risorse pari a quelle del miliardo di persone più povere. Nel 1998 nello Human Development Report delle Nazioni Unite si documentava che il 20 per cento della popolazione mondiale si accaparrava l’86 per cento di tutti i beni e i servizi prodotti nel mondo, mentre il 20 per cento più povero ne consumava solo l’1,3 per cento.
Se negli anni ’60 la retribuzione netta media dei Dirigenti era di 12 volte rispetto a quella media dei lavoratori, vent’anni dopo era di 42 volte, nel 1990 raddoppia a 84 volte, nel 1999 schizza a 400 e nel 2000 a 531 volte.

Tavola 1
Evidentemente qualcosa non va.

Raccogliamo, estremizzandole, quindi le idee di chi indirizza – o di chi crede di fare il bene indirizzandolo così – il mondo e la sua economia in questo senso.

Viviamo in una società che si regge sui consumi, nella quale, quindi, le persone sono vincolate (per non valersi di termini più adatti come “costrette” o “obbligate”) ad essi affinché la sua “organizzazione” non ne soffra e non rifletta conseguenze evidenti. Conseguenze che possono essere appunto più o meno visibili, giacché l’impulso a consumare, penetrato negli anni fra le vocazioni umane sfrattando dai primi posti ogni altra, è sostenuto massicciamente esercitando un’infinità di forme promozionali; è, di conseguenza, sempre più difficile riuscire a vedere quel che si nasconde dietro i cartelloni pubblicitari, dove a caratteri cubitali dominano inesauribili soluzioni ad inesauribili problemi indotti. Questa è infatti la verità indiscussa e indiscutibile sulla quale sta affannosamente tenendosi in equilibrio la nostra economia. Un paradosso, considerato l’enorme squilibrio sociale generato finora.
Tutto ciò ha un nome, una definizione ormai (è il caso di dirlo) celebre e celebrata come indispensabile, come il solo processo di sviluppo possibile per il futuro dell’umanità, smerciato ad essa come una casa di distribuzione discografica schiera sugli scaffali in bella vista, davanti a tutti gli altri, un qualsiasi vincitore di Talent Show spacciandolo proprio per talento:

Neoliberismo.

I Neoliberisti sono degli individualisti convinti, vale a dire: è al singolo individuo che spetta il compito di collocarsi nella società, di realizzare in essa la propria vita con le proprie forze e capacità, escludendo di fatto tutti coloro che non sono all’altezza di sbrogliarsela nell’arzigogolato groviglio realizzato nel tempo attraverso la commercializzazione selvaggia dell’esistenza stessa. È compito, dunque, degli individui cercare fra le soluzioni ingegnosamente disposte sugli scaffali le più adatte a dare risposte a domande tanto più stimolate quanto più infondate, ma necessarie a tenere in piedi il modello economico corrente. In poche parole: competerebbe alla maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, lasciarsi abbindolare da quanto viene offerto e fare del nostro meglio per sostenere l’attività economica. Pena l’esclusione, l’emarginazione da quel che è divenuto un meccanismo comportamentale vizioso, nel quale l’individuo si sentirà un estraneo e sarà considerato tale dalla società, asociale, perciò suscitando la stigmatizzazione del resto del gruppo che lo escluderà ancora di più.
Ancora:
“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire”, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Abbiamo detto che i consumi sono l’anima della nostra economia, ed è implicito che così indirizzata rimpolpa i soli conti in banca di chi produce beni di consumo, siano questi effimeri o necessari alla sopravvivenza. Chi produce ha interesse a minimizzare i costi di produzione massimizzando i profitti, dunque riducendo la manodopera e aumentando la meccanizzazione del lavoro i risultati possono essere sorprendenti… agli occhi di coloro che non perdono occasione di abusarne. E chi ne abusa sono gli avidi e gli avari.
L’avidità e l’avarizia sono due nozioni che hanno significati diversi, ma che se associati fanno assumere, a chi ne è conquistato, connotati più o meno consapevolmente perversi. Ed è attraverso la pubblicità, propinata collettivamente come un’esca per farci desiderare sempre qualcosa di più, che accettiamo l’avidità come modo di essere.

Non è vero quindi che chi produce e si arricchisce crea nuovi posti di lavoro.

Se ancora non basta, avviandoci alla conclusione di questo post, e di questo anno, rendiamo tutto più negativo prendendo in esame l’ultimo Rapporto dell’ILO (International Labour Organization):
“Ai ritmi attuali – si legge nel Rapporto –, da qui al 2018 saranno creati 200 milioni di posti di lavoro supplementari. Questo dato è inferiore al livello necessario per assorbire il numero crescente di nuovi ingressi nel mercato del lavoro”. […] “Il numero dei disoccupati a livello globale è salito di 5 milioni nel 2013, raggiungendo quota 202 milioni, che equivale ad un tasso di disoccupazione mondiale del 6%.
Nel 2013, circa 23 milioni di lavoratori hanno abbandonato il mercato del lavoro.
Entro il 2018 ci si aspetta un aumento di oltre 13 milioni di persone in cerca di lavoro.
Nel 2013, circa 74,5 milioni di persone tra i 15 e i 24 anni erano disoccupate, che equivale ad un tasso di disoccupazione giovanile del 13,1%.
Nel 2013, le persone che vivevano con meno di 2 dollari al giorno erano circa 839 milioni.
Nel 2013, circa 375 milioni di lavoratori vivevano con le loro famiglie con meno di 1,25 dollari al giorno.

La disoccupazione giovanile resta la principale preoccupazione.

Il rapporto sottolinea l’urgenza pressante di integrare i giovani nella forza lavoro. Attualmente, sono 74,5 milioni le donne e gli uomini disoccupati sotto i 25 anni, un tasso di disoccupazione giovanile che ha superato il 13%, ovvero più del doppio del tasso di disoccupazione generale a livello globale.

Nei paesi in via di sviluppo, il lavoro informale resta diffuso e il percorso verso un miglioramento della qualità dell’occupazione sta rallentando. Ciò significa che meno lavoratori riusciranno ad uscire dalla condizione di povertà da lavoro. Nel 2013, il numero di lavoratori in povertà estrema — che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno — è sceso solo del 2,7% a livello globale, uno dei tassi più bassi degli ultimi 10 anni, fatta eccezione degli anni immediatamente successivi alla crisi”.
[…] “La qualità del lavoro nella maggior parte dei paesi della regione (europea) è peggiorata a causa dell’ulteriore aumento dell’incidenza del lavoro temporaneo involontario e part-time, della povertà da lavoro, del lavoro informale, della polarizzazione del lavoro e dei salari, e delle disuguaglianze di reddito.
La ripresa fragile è in parte dovuta al perseguimento delle politiche di austerità nella regione.
Esiste il rischio che le politiche monetarie e fiscali continuino a non essere coordinate in quanto l’austerità fiscale è perseguita con la creazione di liquidità non convenzionale e accomodante da parte delle banche centrali degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone. […] «Con 23 milioni di persone che hanno abbandonato la ricerca di un impiego, è imperativo che le politiche attive del mercato del lavoro siano attuate con maggiore vigore al fine di contrastare l’inattività e il mismatch (condizione di disequilibrio) tra domanda e offerta di competenze», ha dichiarato Ernst, Direttore dell’Unità sulle tendenze globali dell’occupazione del Dipartimento di ricerca dell’ILO.
Una virata verso politiche più favorevoli all’occupazione e un incremento dei redditi da lavoro rafforzerebbe la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, sottolinea il rapporto. Nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, è cruciale rafforzare i sistemi di protezione sociale di base e promuovere transizioni verso l’occupazione formale. Anche questo contribuirebbe a sostenere la domanda aggregata e la crescita globale”.
(Qui il Rapporto completo)

Allora auguro a tutti noi, di cuore, un anno di consapevolezza in più, certo di felicità, e mi auguro non accettiate mai come giuste, cercando di approfondirle, le condizioni umilianti di chi non ha la possibilità materiale e la forza spirituale di lottare contro chi gli ripete che “volere è potere”, che si può tutto nonostante condizioni sociali sempre più avverse. Non è vero. Non credeteci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale.
BUON ANNO!

🙂
Cristiano

(Ultima Parte) Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner.


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª, qui la 4ª)

Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare perché abbiamo bisogno di qualcuno a cui attribuire la colpa per la nostra abominevole e intollerabile condizione, così come per le sconfitte che patiamo allorché tentiamo di migliorare tale condizione e renderla più sicura. Abbiamo bisogno di quel qualcuno per scaricare (e in questo modo eventualmente mitigare) il senso devastante della nostra stessa inadeguatezza. Affinché questo scaricamento abbia successo, c’è comunque bisogno che l’intera operazione nasconda ogni traccia di vendetta personale. L’ultimo legame tra la percezione del carattere disgustoso e odioso dell’obiettivo prescelto e la nostra frustrazione in cerca di uno sfogo deve rimanere segreto. In qualunque maniera sia stato concepito, tenderemo dunque a giustificare la presenza dell’odio, degli altri che ci sono intorno e a noi stessi, con il nostro desiderio di difendere quelle cose buone e nobili che loro, quegli individui maligni e spregevoli, denigrano e contro cui cospirano. Lotteremo per dimostrare che il nostro odio, la nostra determinazione a sbarazzarci di loro, trovano ragione (e giustificazione) nel desiderio che abbiamo che possa sopravvivere una società ordinata e civile. Insisteremo nel sostenere che li odiamo perché vogliamo un mondo libero dall’odio.
Forse non si accorda con la logica delle cosec ma si accorda bene con la logica delle emozioni il fatto che “die unterklasse” (la sottoclasse) e altri come loro – rifugiati senza casa, sradicati, “non apparenti“, richiedenti asilo che non lo ottengono, sans papiers (senza documenti) – tendono ad attirare il nostro risentimento e la nostra avversione. Sembra che tutta questa gente sia stata creata a misura delle nostre paure. Sono disegni animati su cui i nostri incubi incidono incidono le didascalie. Sono tracce viventi (sedimenti, segni, incarnazioni) di tutte quelle forze misteriose, comunemente chiamate “globalizzazione“, a cui attribuiamo la responsabilità per il timore che abbiamo di venire forzatamente strappati dal luogo che amiamo (dal paese o dalla società) e di finire per strada senza alcuna indicazione stradale e senza conoscere la destinazione. Summa summarium, sono adatti, perfino ideali per il ruolo di una effige su cui, anche solo per procura, bruciate quelle forze che non riusciamo a domare e che sono al di là della nostra portata.
Il “leitmotiv” introdotto da da Wozzeck con le parole wie arme Leute (noi povera gente) segnala l’incapacità dei personaggi dell’Opera di trascendere la loro situazione: un’incapacità che i personaggi sulla scena condividono con la folla che assiste alla rappresentazione. Gli artisti romantici vollero vedere l’universo in una goccia d’acqua. I detrattori di Wozzeck, come lui stesso, non potrebbero essere che delle gocce d’acqua, ma, se tentassimo, vedremmo in loro, se non l’Universo, sicuramente la nostra “Lebenswelt” (mondo vitale, il nostro universo, la nostra comunità, società).
Fine.

(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª, qui la 4ª)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (4ª Parte)


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª)

Dennis Smith offre una definizione attuale del termine “umiliazione“:
“Un atto è umiliante se calpesta o contraddice in modo coercitivo la rivendicazione che determinate persone […] sostengono relativamente a chi sono e alle condizioni in cui possono affermare la propria identità. In altre parole, se all’individuo, implicitamente o esplicitamente, è negato il riconoscimento che lui/lei si aspetta per la persona che lui/lei è e per il tipo di vita che lui/lei fa; e se a lui/lei vengono rifiutati quei diritti che gli/le sarebbero stati concessi o che avrebbe continuato a vedere soddisfatti in seguito a quel riconoscimento. Una persona che si sente umiliata quando le viene brutalmente mostrato, con parole, azioni, eventi, che non le è concesso essere ciò che pensa di essere […]. L’umiliazione è l’esperienza di essere sottomessi, repressi, trattenuti o espulsi ingiustamente, irragionevolmente o contro la propria volontà”.

È una sensazione che genera risentimento. Nelle società di individui come le nostre, la sofferenza, il fastidio e il rancore di essere stati umiliati sono probabilmente le forme di risentimento più amare e implacabili che si possono provare, e le più comuni e prolifiche ragioni di conflitto, dissenso e sete di vendetta. Il diniego del riconoscimento, il rifiuto del rispetto e la minaccia dell’esclusione hanno sostituito lo sfruttamento e la discriminazione come formule più comunemente usate per spiegare e giustificare il rancore che gli individui potrebbero provare verso la società, o verso parti o aspetti della società a cui sono direttamente esposti (personalmente o attraverso i media) e di cui dunque hanno esperienza (di prima o di seconda mano). La vergogna dell’umiliazione genera disprezzo e odio verso di sé, un odio che tende a sopraffarci una volta che realizziamo quanto siamo deboli, e decisamente impotenti quando tentiamo di essere coerenti con l’identità delle nostre scelte, quando ci sforziamo di mantenere il nostro posto nella comunità che rispettiamo e che abbiamo a cuore, e di attenerci al tipo di vita che desideriamo fervidamente fosse la nostra e che rimanesse tale per un lungo periodo; ogni volta che scopriamo quanto sia fragile la nostra identità, quanto siano vulnerabili e poco salde le nostre passate conquiste, e quanto incerto debba essere il nostro futuro in vista dell’enormità delle sfide che affrontiamo quotidianamente. Questa vergogna, e così anche l’odio verso di sé, cresce come prova della nostra impotenza accumulata, e come risultato il senso di umiliazione diventa più profondo.

L’odio verso se stessi produce comunque uno stato straziante, intollerabile da vivere e da sopportare: ha bisogno di uno sfogo, e lo cerca disperatamente; deve essere incanalato lontano dal sé più intimo, che altrimenti potrebbe danneggiare seriamente o perfino distruggere. La catena che porta dall’incertezza, attraverso il sentimento di impotenza, vergogna e umiliazione, al disgusto verso se stessi, all’avversione e all’odio di sé, finisce dunque nella ricerca del colpevole “lì fuori“, nel mondo; nella ricerca di qualcuno, ancora sconosciuto e senza nome, invisibile o camuffato, che cospira contro la mia (la nostra) dignità e il mio benessere, e mi (ci) fa patire quest’atroce sofferenza dell’umiliazione. È dunque terribilmente necessario scoprire e smascherare questo qualcuno, poiché abbiamo bisogno di un bersaglio sul quale sia possibile scaricare la rabbia repressa. Le sofferenze devono essere vendicate, anche se non è per nulla chiaro contro chi. Esplodendo, l’odio verso se stessi colpisce i suoi bersagli a casaccio, proprio come ha fatto Wozzeck, e colpisce soprattutto quelli più alla mano, anche se non sono necessariamente quelli con maggiori responsabilità per la caduta, l’umiliazione e la miseria.

(Continua…)-(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª) (Leggi l’Ultima Parte)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (3ª parte)


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte)

Come quello di Wozzeck, oggi il Destino si trova in un vagabondaggio ancora più sfacciato, colpisce a casaccio, e con effetti ancora più devastanti rispetto a quel che sembrava facesse nel periodo successivo alla Guerra mondiale, che si credeva fosse “la guerra che mette fine a tutte le guerre” (e che presto ha dimostrato di esserlo per un tempo tristemente breve), che annunciava tempi di pace, di maggiore benessere, di maggiori opportunità e meno miseria per tutti. Le generazioni passate hanno vissuto con il sogno e la speranza di un’imminente sicurezza esistenziale, mentre quelle di oggi vivono con la convinzione di un’insicurezza duratura, che li accompagnerà lungo tutto il corso della vita, che sarà permanente e forse irrimediabile. Oggi infatti il Destino sembra essere stato individualizzato. Il suo itinerario non è meno irregolare di quanto lo fosse prima, ma la frequenza dei colpi sferrati sembra essere regolare quanto mai prima (monotona, perfino una routine). Come nel “Grande Fratello“, che viene descritto ufficialmente e che comunemente si crede sia un “reality” show, in cui capita che uno dei protagonisti, o anche più di uno, ogni settimana deve essere escluso dal gruppo (buttato fuori con il voto), e in cui la sola cosa che rimane incerta e sconosciuta è chi sarà la persona a cui toccherà, questa o la settimana successiva. L’esclusione è nella natura delle cose, è un elemento inseparabile dell’essere nel mondo, è, per modo di dire, “una legge di natura“, per questo non ha senso ribellarsi a essa. La sola questione su cui valga la pena ragionare, e anche intensamente, è come evitare la prospettiva che “sia io” l’escluso del prossimo giro di eliminazioni servendomi di qualsiasi mezzo di cui dispongo; anche i più meschini.
Nessuno può dichiararsi immune nei confronti del vagabondaggio del Destino. Nessuno può sentirsi realmente garantito nei confronti della minaccia di essere escluso. La maggior parte di noi o ha già sperimentato l’amarezza dell’esclusione, oppure ha avuto il sospetto che in un futuro segreto potrebbe provarla. Sono veramente pochi quelli che potrebbero giurare di essere immuni dal Destino, e ci è concesso sospettare che alla fine molti di quei pochi dimostreranno di aver sbagliato. Soltanto pochi individui possono sperare che non impareranno mai la sensazione che si prova quando si vive un’esperienza simile, in particolare quando si viene disprezzati e umiliati.
Bisogna dire, comunque, che da quando è stata composta l’opera di Berg il significato e la causa principale dell’umiliazione sono cambiati. Oggi la posta in gioco della spietata competizione individuale, inclusa la lotteria dell’esclusione, non è più la sopravvivenza fisica (almeno non nella parte agiata del pianeta, per ora e “fino al prossimo avviso”), non è la soddisfazione dei bisogni biologici primari richiesta dall’istinto di sopravvivenza. E non è neanche il diritto di prendere decisioni, di stabilire da sé i propri obiettivi e di decidere che tipo di vita si preferirebbe fare, poiché, al contrario, oggi si presume che esercitare questi diritti sia un dovere dell’individuo. Inoltre, è diventato un assioma che qualunque cosa accada all’individuo non possa che essere la conseguenza dell’esercizio di tali diritti, del fallimento esecrabile o del colpevole rifiuto di esercitarli: qualunque cosa accada (sia le avversità che i successi) sarà interpretata retrospettivamente come un’ulteriore conferma dell’esclusiva e inalienabile responsabilità degli individui per le loro condizioni individuali.
Resi individui dalla storia, veniamo incoraggiati a ricercare attivamente il “riconoscimento sociale” per delle cose che sono già state pre-interpretate come una nostra scelta individuale: propriamente, quelle forme di vita che noi individui stiamo usando (sia per scelta deliberata che per caso). “Riconoscimento sociale” significa dunque accettazione, da parte degli “altri che contano”, che la forma di vita usata da un particolare individuo è degna e decente, e che su questa base l’individuo in questione merita il rispetto dovuto e generalmente concesso a tutte le persone meritevoli, degne e decenti.
L’alternativa al riconoscimento sociale è la negazione della dignità: l’umiliazione; praticata attraverso la riduzione e la rinegoziazione dei diritti fondamentali di ogni essere umano. E in un mondo in cui i poveri aumentano, le sicurezze traballano, i rapporti si rompono e le responsabilità individuali crescono senza sosta, niente e nessuno può assicurare che il diritto a una vita dignitosa sia garantito in futuro.

(Continua…)-(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte) (Vai alla 4ª Parte)