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Emergenza immigrati: smettiamola di intervenire sugli effetti e agiamo sulle cause


Capisco la rabbia e il significato di quel che si vuole esprimere quando affermiamo che “gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi”, ma detta così è fuorviante, ed è una forma razzista di esprimersi, poiché al sostantivo “immigrato” è stato attribuito nel tempo un significato dispregiativo giacché sovente associato a termini come “rubare”, “violenza”, e “lavoro”, “casa” e “sussidi”, ossia a quei costituenti essenziali in una società come la nostra.

Di fatto, quando un microfono si avvicina a un qualsiasi cittadino per chiedergli cosa ne pensa degli immigrati, la risposta “mandata in onda” è prevalentemente la stessa:

«Gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi!» – aggiungendo, generalmente – «Io non sono razzista, ma non è giusto che si dia aiuto prima a loro mentre noi italiani veniamo lasciati per ultimi. Che rimangano a casa loro!».

Attraverso questa forma di informazione manipolatoria, deviante, nell’opinione pubblica viene a radicarsi un sentimento di astio, d’invidia nei confronti di chi “viene nel nostro paese a privarci dei nostri diritti”. Allora siamo esortati a propendere verso chi promette di liberarci dal “male che ci invade” e “ci toglie risorse vitali”. Purtroppo è tutto sbagliato. Più propriamente, sono le politiche economiche internazionali (dettate dalle multinazionali), lo sfruttamento selvaggio delle risorse, a costringere queste persone ad abbandonare i loro paesi d’origine, massacrati da guerre che hanno lo scopo prevalente di aggiudicarsi o difendere tali risorse. Gli immigrati sono in cerca di un riparo da tutto questo, dal momento che non hanno altra possibilità che scegliere fra vivere la tortura della schiavitù, oppure la morte. Non portano con sé ambizioni di conquista, ma gridi dilaniati in cerca d’aiuto. L’aiuto che possiamo dar loro, se vogliamo davvero aiutare anche noi stessi e fare in modo che questo caos termini, è quello di comprendere a fondo i motivi per i quali sono costretti a fuggire.
Sono le politiche economiche a togliere lavoro, case e sussidi, a tutti, in Italia come in Europa, e in tutto il mondo “occidentalizzato” nel quale è stato esportato (e si sta esportando) questo modello economico-sociale.
Va compreso che un essere umano che scappa da una guerra è ben più disposto ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione salariale, pur di sopravvivere. Ciò contribuisce enormemente ad abbassare i costi di produzione, a ridurre i diritti umani di ognuno di noi, a far aumentare le disuguaglianze sociali e a diminuire il potere d’acquisto nel suo complesso.

Il sostantivo “immigrato”, diventato ormai un’appellativo dispregiativo, non dovrebbe neppure essere preso in considerazione quando vogliamo esprimere la nostra contrarietà a una situazione complessa e drammatica come quella che stiamo vivendo. Stiamo parlando di esseri umani come noi, né più e né meno.
Se pensiamo di risolvere i problemi che ci sovrastano, innalzare muri per non vedere né sentire, né sapere, cosa accade al di là, non risolve niente. Dobbiamo comprendere che i problemi nell’antartico riguardano e condizionano anche l’artico e viceversa. È il modello sociale consumistico nel quale viviamo, ad averci trascinati in questo disordine intellettivo, e che sempre più ci impedisce di razionalizzare il mondo che ci circonda.
Chi promette di “scacciare via gli immigrati”, lo fa sfruttando la nostra ignoranza rispetto a un problema ben più ampio, profondo e complesso. E non sarà un semplice muro che ci esonererà dall’affrontarlo. Il compito di una sana politica dovrebbe esser quello di interpretare nel modo giusto la rabbia della popolazione, anziché cavalcarla per raccogliere voti. Una popolazione che però è composta anche da queste povere persone in cerca di sopravvivenza per i motivi suddetti. Perché il popolo è colui che abita la Terra, una Terra che non ha più confini né identità culturale a causa del capitalismo selvaggio, alle politiche neoliberiste, non a causa di chi è in fuga da esse. Dobbiamo smetterla di giudicare gli effetti e intervenire su di essi, e agire finalmente sulle cause. Ecco poi dove si arriva.

Beneficenza: come farla nel modo giusto


“Aiutare gli altri” non lo si fa donando due euro in beneficenza, bensì andando alla ricerca delle ragioni per le quali gli altri hanno bisogno di aiuto. Donare due euro, dieci, cento, mille o diecimila non serve a risolvere il problema di alcuno, bensì a sollevarci dalle responsabilità, che tutti gli appartenenti alla società hanno, e cioè di operare affinché ognuno abbia pari diritti e pari dignità. Donare qualche euro serve quindi solo a lavare la coscienza di chi non vuol prendersi tali responsabilità, poiché troppo occupato a salvaguardare i confini del proprio giardino, diventato sempre più incapace di gettare lo sguardo oltre siepi e recinti innalzati attorno a sé: sempre più alti e incomprensibili. L’egoismo e l’ignoranza, introiettati e diffusi, sono i veri artefici dell’indigenza nella quale versa gran parte della società. Non serve donare, ma andare invece alla ricerca delle cause, e non alla ricerca di alibi per sollevarci da responsabilità cui nessuno può e deve sfuggire, dal momento che presto o tardi ciò non sarà più possibile. La donazione è un palliativo, un placebo somministrato al popolo per esularlo dall’andare alla ricerca delle vere cause del problema. La donazione è la forma con la quale si alimenta il degrado: quanto più una società ha bisogno di donazioni tanto più significa che lo Stato sociale è assente.


Mentre il fabbisogno dei servizi pubblici aumenta, gli interventi del governo tendono invece a ridurli, lasciando ai singoli individui, e alle famiglie, il compito di sopperire ad essi. I deficit strutturali dello Stato sociale accrescono poiché spalleggiati da forze finanziarie che non hanno alcun interesse economico nel far fronte ad essi. Le privatizzazioni di grossi pezzi dello Stato hanno questo come obiettivo: il profitto; non un’equa ridistribuzione dei guadagni e dei servizi; il bene di pochi (del privato che amministra per incrementare il ricavato), e il peggio per il resto (il popolo) – ovvero la “filosofia” del Neoliberismo –. Pertanto quanto più i governi legiferano a favore di quelle forze, tanto più aumentano i deficit di assistenza sociale. Ai deficit finanziari dello Stato non si interviene accrescendo il “deficit di assistenza”, e cioè tagliando i finanziamenti per scuole, disabili, malati, anziani e disoccupati. 


Va inoltre ricordato che i diritti per lo svolgimento della vita politica sono necessari a porre in essere i “diritti sociali”, e questi ultimi sono indispensabili per garantire il funzionamento dei “diritti politici”, che altrimenti, come dimostra il sempre più crescente disinteresse del popolo nei confronti della politica, non trovano ragione alcuna.


Le due tipologie di diritto hanno appunto bisogno l’una dell’altra per sopravvivere; tale sopravvivenza può essere solo il loro comune successo. Allo stato attuale delle cose entrambi sono “non pervenuti”, e i dati che indicano la disaffezione alla cosa pubblica, alla vita politica, dimostrano che tale assenza non accenna a diminuire; tutt’altro. Andare alla ricerca delle cause è l’unica soluzione, l’unica speranza che noi tutti abbiamo per ridurre degrado, disuguaglianze e deficit culturali. Solo attraverso la ricerca è possibile incanalare le forze nel modo e nella direzione giusti. Altrimenti, degrado, disuguaglianze e deficit culturali saranno inesorabilmente destinati ad aumentare e ad attecchirsi sempre più radicalmente a un concetto di “solidarietà” distorto e incapace di convertire la “società” in un bene “comune”, condiviso, posseduto dalla comunità, che è l’unico rimedio contro “miseria” e “umiliazione”, ossia l’esclusione (il terrore di essere spinti fuori strada o di cadere fuori dalla vettura del progresso che accelera sempre più) e la condanna dell’“esubero” sociale (il terrore di essere privati del rispetto dovuto agli esseri umani e di essere designati come “rifiuti umani”).


Purtroppo versiamo in una società satura di informazioni e i titoli dei media servono soprattutto a cancellare (efficacemente) dalla memoria pubblica i titoli del giorno prima. I mass media non hanno nulla a che vedere con la giusta formazione culturale rispetto alle cause dei problemi sociali in cui versiamo. Credere di ricevere informazioni oneste da apparati costituiti o finanziati da forze economiche estranee al bene comune è un atteggiamento fideistico che non possiamo più permetterci e anzi, che non avremmo mai dovuto lasciare accadere. Delegare l’interesse comunitario a qualcun altro è un paradosso: un’assurdità. Se teniamo veramente all’Altro, anziché donare due euro a una delle tante associazioni spuntate come funghi, andiamo in cerca delle reali cause dei suoi problemi. È questa l’unica polizza di assicurazione che lo Stato (la Comunità) può emettere in suo favore. È questa l’unica donazione efficace a risolvere alla radice i suoi problemi. Se non comprendiamo ciò, disuguaglianza e miseria non arresteranno il loro cammino, e noi ci assicureremo la catastrofe.

2015: NON SARÀ UNA BUONA ANNATA…


In controtendenza, rispetto ai tradizionali auspici, in opposizione ai più affezionati fan dei più fidati oroscopi, infischiandomene dei folcloristici auguri di buon anno, delle ottimistiche previsioni che fantasticano su di un futuro ignorando il presente, voglio qui di seguito stendere due righe di realtà, che pur essendo spiacevole, problematica, spesso antipatica, molesta e intollerante, merita d’esser presa in considerazione.

Di giorno in giorno si susseguono notizie che mostrano tendenze negative in materia di uguaglianza. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha calcolato che tre miliardi di persone vivono oggi sotto il livello della povertà, fissato in 2 dollari di reddito al giorno. Sappiamo che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti, mentre il 20 per cento più povero consuma l’1 per cento. Si stima inoltre che il 40 per cento della ricchezza mondiale è posseduto dall’1 per cento della popolazione totale del mondo, mentre le 20 persone più ricche del mondo hanno risorse pari a quelle del miliardo di persone più povere. Nel 1998 nello Human Development Report delle Nazioni Unite si documentava che il 20 per cento della popolazione mondiale si accaparrava l’86 per cento di tutti i beni e i servizi prodotti nel mondo, mentre il 20 per cento più povero ne consumava solo l’1,3 per cento.
Se negli anni ’60 la retribuzione netta media dei Dirigenti era di 12 volte rispetto a quella media dei lavoratori, vent’anni dopo era di 42 volte, nel 1990 raddoppia a 84 volte, nel 1999 schizza a 400 e nel 2000 a 531 volte.

Tavola 1
Evidentemente qualcosa non va.

Raccogliamo, estremizzandole, quindi le idee di chi indirizza – o di chi crede di fare il bene indirizzandolo così – il mondo e la sua economia in questo senso.

Viviamo in una società che si regge sui consumi, nella quale, quindi, le persone sono vincolate (per non valersi di termini più adatti come “costrette” o “obbligate”) ad essi affinché la sua “organizzazione” non ne soffra e non rifletta conseguenze evidenti. Conseguenze che possono essere appunto più o meno visibili, giacché l’impulso a consumare, penetrato negli anni fra le vocazioni umane sfrattando dai primi posti ogni altra, è sostenuto massicciamente esercitando un’infinità di forme promozionali; è, di conseguenza, sempre più difficile riuscire a vedere quel che si nasconde dietro i cartelloni pubblicitari, dove a caratteri cubitali dominano inesauribili soluzioni ad inesauribili problemi indotti. Questa è infatti la verità indiscussa e indiscutibile sulla quale sta affannosamente tenendosi in equilibrio la nostra economia. Un paradosso, considerato l’enorme squilibrio sociale generato finora.
Tutto ciò ha un nome, una definizione ormai (è il caso di dirlo) celebre e celebrata come indispensabile, come il solo processo di sviluppo possibile per il futuro dell’umanità, smerciato ad essa come una casa di distribuzione discografica schiera sugli scaffali in bella vista, davanti a tutti gli altri, un qualsiasi vincitore di Talent Show spacciandolo proprio per talento:

Neoliberismo.

I Neoliberisti sono degli individualisti convinti, vale a dire: è al singolo individuo che spetta il compito di collocarsi nella società, di realizzare in essa la propria vita con le proprie forze e capacità, escludendo di fatto tutti coloro che non sono all’altezza di sbrogliarsela nell’arzigogolato groviglio realizzato nel tempo attraverso la commercializzazione selvaggia dell’esistenza stessa. È compito, dunque, degli individui cercare fra le soluzioni ingegnosamente disposte sugli scaffali le più adatte a dare risposte a domande tanto più stimolate quanto più infondate, ma necessarie a tenere in piedi il modello economico corrente. In poche parole: competerebbe alla maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, lasciarsi abbindolare da quanto viene offerto e fare del nostro meglio per sostenere l’attività economica. Pena l’esclusione, l’emarginazione da quel che è divenuto un meccanismo comportamentale vizioso, nel quale l’individuo si sentirà un estraneo e sarà considerato tale dalla società, asociale, perciò suscitando la stigmatizzazione del resto del gruppo che lo escluderà ancora di più.
Ancora:
“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire”, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Abbiamo detto che i consumi sono l’anima della nostra economia, ed è implicito che così indirizzata rimpolpa i soli conti in banca di chi produce beni di consumo, siano questi effimeri o necessari alla sopravvivenza. Chi produce ha interesse a minimizzare i costi di produzione massimizzando i profitti, dunque riducendo la manodopera e aumentando la meccanizzazione del lavoro i risultati possono essere sorprendenti… agli occhi di coloro che non perdono occasione di abusarne. E chi ne abusa sono gli avidi e gli avari.
L’avidità e l’avarizia sono due nozioni che hanno significati diversi, ma che se associati fanno assumere, a chi ne è conquistato, connotati più o meno consapevolmente perversi. Ed è attraverso la pubblicità, propinata collettivamente come un’esca per farci desiderare sempre qualcosa di più, che accettiamo l’avidità come modo di essere.

Non è vero quindi che chi produce e si arricchisce crea nuovi posti di lavoro.

Se ancora non basta, avviandoci alla conclusione di questo post, e di questo anno, rendiamo tutto più negativo prendendo in esame l’ultimo Rapporto dell’ILO (International Labour Organization):
“Ai ritmi attuali – si legge nel Rapporto –, da qui al 2018 saranno creati 200 milioni di posti di lavoro supplementari. Questo dato è inferiore al livello necessario per assorbire il numero crescente di nuovi ingressi nel mercato del lavoro”. […] “Il numero dei disoccupati a livello globale è salito di 5 milioni nel 2013, raggiungendo quota 202 milioni, che equivale ad un tasso di disoccupazione mondiale del 6%.
Nel 2013, circa 23 milioni di lavoratori hanno abbandonato il mercato del lavoro.
Entro il 2018 ci si aspetta un aumento di oltre 13 milioni di persone in cerca di lavoro.
Nel 2013, circa 74,5 milioni di persone tra i 15 e i 24 anni erano disoccupate, che equivale ad un tasso di disoccupazione giovanile del 13,1%.
Nel 2013, le persone che vivevano con meno di 2 dollari al giorno erano circa 839 milioni.
Nel 2013, circa 375 milioni di lavoratori vivevano con le loro famiglie con meno di 1,25 dollari al giorno.

La disoccupazione giovanile resta la principale preoccupazione.

Il rapporto sottolinea l’urgenza pressante di integrare i giovani nella forza lavoro. Attualmente, sono 74,5 milioni le donne e gli uomini disoccupati sotto i 25 anni, un tasso di disoccupazione giovanile che ha superato il 13%, ovvero più del doppio del tasso di disoccupazione generale a livello globale.

Nei paesi in via di sviluppo, il lavoro informale resta diffuso e il percorso verso un miglioramento della qualità dell’occupazione sta rallentando. Ciò significa che meno lavoratori riusciranno ad uscire dalla condizione di povertà da lavoro. Nel 2013, il numero di lavoratori in povertà estrema — che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno — è sceso solo del 2,7% a livello globale, uno dei tassi più bassi degli ultimi 10 anni, fatta eccezione degli anni immediatamente successivi alla crisi”.
[…] “La qualità del lavoro nella maggior parte dei paesi della regione (europea) è peggiorata a causa dell’ulteriore aumento dell’incidenza del lavoro temporaneo involontario e part-time, della povertà da lavoro, del lavoro informale, della polarizzazione del lavoro e dei salari, e delle disuguaglianze di reddito.
La ripresa fragile è in parte dovuta al perseguimento delle politiche di austerità nella regione.
Esiste il rischio che le politiche monetarie e fiscali continuino a non essere coordinate in quanto l’austerità fiscale è perseguita con la creazione di liquidità non convenzionale e accomodante da parte delle banche centrali degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone. […] «Con 23 milioni di persone che hanno abbandonato la ricerca di un impiego, è imperativo che le politiche attive del mercato del lavoro siano attuate con maggiore vigore al fine di contrastare l’inattività e il mismatch (condizione di disequilibrio) tra domanda e offerta di competenze», ha dichiarato Ernst, Direttore dell’Unità sulle tendenze globali dell’occupazione del Dipartimento di ricerca dell’ILO.
Una virata verso politiche più favorevoli all’occupazione e un incremento dei redditi da lavoro rafforzerebbe la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, sottolinea il rapporto. Nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, è cruciale rafforzare i sistemi di protezione sociale di base e promuovere transizioni verso l’occupazione formale. Anche questo contribuirebbe a sostenere la domanda aggregata e la crescita globale”.
(Qui il Rapporto completo)

Allora auguro a tutti noi, di cuore, un anno di consapevolezza in più, certo di felicità, e mi auguro non accettiate mai come giuste, cercando di approfondirle, le condizioni umilianti di chi non ha la possibilità materiale e la forza spirituale di lottare contro chi gli ripete che “volere è potere”, che si può tutto nonostante condizioni sociali sempre più avverse. Non è vero. Non credeteci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale.
BUON ANNO!

🙂
Cristiano

Lista Tsipras, Verdi e Movimento 5 Stelle per cambiare l’Europa


Ritenere che l’Euro sia la causa dei nostri mali è come pensare che gli psicologi siano i responsabili dell’aumento delle psicopatie, oppure che la colpa dei vasi rotti sia dell’Attack, o che la musica dipenda tutta dal pianoforte. Non è che se si eliminano i pianoforti poi la musica cambia o finisce: si cambia strumento, ma non la melodia sul pentagramma. Si capisce che non sta in piedi.
L’Euro è soltanto uno strumento, un mezzo per il raggiungimento di uno scopo, ma non la causa; tuttalpiù un contributo. Togli l’euro ma non toglierai il fine. Togli l’euro e si impiegheranno altri strumenti, senza incidere radicalmente sui fini. I fini sono il completo controllo dei mercati finanziari e delle Pubbliche amministrazioni da parte dei privati intenti a soddisfare i loro appetiti infiniti; sono il completo controllo delle coscienze degli individui, delle loro scelte, dei loro bisogni, dei loro pensieri, del loro stile di vita. Dal governo Monti in poi, i tagli al welfare, il decadimento crescente dell’istruzione pubblica, l’assenza di politiche di socializzazione, di integrazione, avrebbero dovuto farci riflettere seriamente.

Non è tagliando all’istruzione che si risolve una crisi, in compenso, però, si alimenta l’inconsapevolezza e conseguentemente la capacità decisionale.

Sono le politiche economiche, scientemente decise e imposte da un potere sovranazionale cui i governi democratici si assoggettano, la causa dei nostri mali. Dobbiamo riprendere il controllo democratico delle nostre decisioni, il contatto con la natura delle cose, e istituire massicciamente gruppi di consapevolezza, e non dobbiamo desiderarlo a livello nazionale, ma globale, giacché pensare di rinchiudersi in casa mentre fuori dalle quattro mura (sicure?) tutto affonda, non ci salverà dall’essere risucchiati. È impossibile pensare di isolarsi in un bunker, anche solo considerando la nostra posizione geografica, che non possiamo certo spostare.

Ben venga quindi la consapevolezza.

Il nostro attuale governo formato dall’asse Renzi-Alfano-Berlusconi è, oltre che incapace e improduttivo, intento solo nel realizzare un disegno organico, estremamente miope e precario, ovvero quello di liquidare la Costituzione italiana e lo Stato di diritto, insieme alla rappresentanza politica dei cittadini e quanto resta dei diritti dei lavoratori. Senza contare l’inefficacia delle leggine esposte in vetrina atte a contrastare l’imponente e sempre più dilagante corruzione endemica italiana.

Oggi siamo difronte a una classe politica privata di ogni capacità di indirizzo dell’economia per effetto dello spostamento del potere reale verso i centri di potere finanziario. Si continuano ad operare sconsiderate privatizzazioni (vedi le Poste) e a promuovere grandi opere inutili, come la Tav, e altri grandi eventi come Expo 2015 sperperando miliardi e costringendo alla schiavitù con lavori non retribuiti ed estremamente precari milioni di persone – sotto questo profilo il caso Expo è esemplare – in tutta Europa, dove ci sono un totale di 27 milioni di disoccupati.

Dare un futuro all’umanità significa aumentare gli strumenti democratici (vedi referendum in Svizzera) e potenziare il welfare, significa liberarci di questa tecnocrazia neoliberista incapace, vorace, fatta da imprenditori privi di spirito imprenditoriale, che vivono sullo sfruttamento accanito dei lavoratori e dei fondi pubblici, buona solo a creare voragini sociali dentro le quali stanno cadendo pezzi sempre più grossi di Comunità, che non si limita ai confini italiani: una comunità è sempre dentro una comunità più ampia e complessa; nessuna esclude l’altra. Ma la moneta, fondamentalmente, non c’entra nulla.

La classe politica attuale in questa campagna elettorale propone agli spettatori l’ennesima fiction facendo credere a tutti di essere critica nei confronti di quest’Europa, dopo aver assecondato e avallato supinamente e spudoratamente ogni decisione presa a favore della mitologica (poiché il rimpallo di responsabilità fa sembrare sia arrivata da una qualche forza divina) “austerità”. E allora tutti si riscoprono antieuropeisti per cavalcare senza ritegno la – giusta – indignazione contro questa Europa; voluta da loro. E partendo dalla Lega, passando da Forza Italia, Partito Democratico, fino a Fratelli d’Italia, la lista è lunga, oltre che ipocrita.

Lista Tsipras, Verdi e Movimento 5 Stelle – sia pure con qualche contraddizione – rappresentano un’alternativa radicale a questa Europa scellerata e corrotta, anche solo considerando il fatto che nessuna di esse si è resa complice del degrado in cui ci troviamo. Al loro interno contengono personalità estremamente competenti ed oneste, e sono più che certo sapranno rappresentare meglio di altri il bene comune.

I popoli europei non devono arrendersi alla subalternità della finanza parassitaria. Il 25 maggio dobbiamo svoltare pagina e scrollarci di dosso qualsiasi cosa che possa “fermentare”, che abbia in sé il rischio, la potenzialità, di corrompersi e corromperci, disconoscendo proprio ciò che la corruzione ri-conosce; ma un paio di questioni su tute devono essere ben chiare:
1. L’imprenditoria DEVE rimanere fuori dalla gestione dello Stato sociale;
2. L’Euro non è né la causa né la soluzione dei nostri problemi: semplicemente è un argomento utile a cavalcare opportunisticamente inconsapevolezza e indignazione diffuse con il solo scopo di raccogliere voti continuando così a lasciare le questioni di fondo come e dove stanno.
Ponderiamo bene le nostre scelte, e facciamolo su una base di buon senso, per un bene comune, fuori dagli schemi dei grafici economici che nulla hanno a che vedere con esso.

Jobs Act: lavoratori come merce di scambio


L’obiettivo, a lungo braccato, di far tornare il lavoratore ad essere merce di scambio a tutti gli effetti, e che sembrava aver raggiunto i massimi risultati con la riforma del mercato del lavoro del Governo Monti, trova oggi la possibilità di nuovi traguardi all’orizzonte grazie al “Jobs Act”. Stando a quanto l’attuale Governo si appresta a mettere in atto, sarà abbattuto ogni diritto, ogni possibilità di fare ricorso contro i soprusi esercitati dal datore di lavoro e così, per la gioia degli sfruttatori, la schiavitù tornerà ad essere di moda: alla luce del sole, ma un po’ nascosta all’ombra del classico mantra «non ci sono alternative». Sarà dato maggior potere al sistema capitalistico-neoliberista, che potranno esercitarlo senza impedimenti concretizzando il totale controllo sul corpo e sull’anima del lavoratore, sostituendo definitivamente la partecipazione dello Stato Sociale che così diventerà un surrogato a tutti gli effetti.

Un’ulteriore precarizzazione del lavoro avrà come conseguenza inevitabile la riduzione dei salari e dei diritti. I costi di produzione si abbasseranno ancora di più, e ad avvantaggiarsene saranno soltanto le grandi cooperative, le multinazionali, i grossi industriali. I piccoli imprenditori, come sappiamo, vivono di professionalità e competenza in determinati settori, non grazie al lavoro dei contratti a tempo determinato che, in aggiunta a quel che si sostiene, favoriscono non solo la compravendita di manodopera nei momenti di maggior produzione, ma “sempre”. Il totale precariato è un generatore di tensioni che avrà conseguenze disastrose (più di quelle già in atto) sull’autonomia dei lavoratori.

Orientare gli individui alla logica del mercato solo perché “i rapporti economici vanno in quella direzione”, non è certo la scelta migliore per contrastare la disoccupazione dilagante o per creare – anche solo in minima quantità – nuovi posti di lavoro. Anzi, i disoccupati accresceranno ancora di più eludendo scientemente i dati occupazionali: maggior flessibilità non comporta maggior impiego, ma ulteriore precarietà del lavoratore, che potrà essere chiamato per qualche ora alla settimana all’abbisogna facendolo risultare “parzialmente occupato”, ossia un “non disoccupato”, che sarà così gettato in un limbo da dentro il quale sarà ancora più complicato affermare la propria esistenza sociale.

Come si può pensare che un mercato senza regole o vincoli sia a sua volta in grado di indirizzare nella giusta direzione la vita dei lavoratori se ha la possibilità di sfruttarli per trarne quanto più profitto possibile? Sappiamo bene quali conseguenze ci hanno riservato la logica dei mercati economici. Il Jobs Act ha pretese che vanno al di là del buon senso, e si prefissa soltanto di agevolare e potenziare la compravendita dei lavoratori da parte delle forze del mercato, facendola diventare a tutti gli effetti una “moderna tratta di essere umani“. La “libera contrattazione” non protegge né salari né diritti, e questo dimostra quanto la politica sia male amministrata e poco equilibrata. Chi potrà più pensare di costruirsi un futuro senza avere quelle basi, quelle certezze sulle quali fino a ieri si è “retto” il nostro modello economico? Sarà ancora meno possibile, tra l’altro, pensare di accendere un mutuo, o chiedere un microprestito per quanto piccolo esso sia. “La regola” fondamentale del Jobs Act recita così: – “Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto d’inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Nessuno è in grado di dare un’interpretazione corretta al Jobs Act, infatti già da tempo ormai, come da tradizione italiana, opinionisti e pseudo, giornalisti e pseudo, ai quali è dato in carico di divulgare all’opinione pubblica il disordine, si stanno contendendo il titolo di “peggiore”. Sappiamo bene però, anche in questo caso, quanto l’eccesso di norme poco chiare che disciplinano il nostro sistema (tutto) abbia offuscato con gli anni il corretto svolgimento della macchina dello Stato. Pertanto, «processo verso un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» lascia spazio alle interpretazioni semantiche più libere da parte dei datori di lavoro. Quali sarebbero le «tutele crescenti»? Chi stabilisce quali sono e in che misura dovranno essere esercitate? Non se ne sa niente ancora; il testo è sostanzialmente blindato. Se il contratto di lavoro prevede termini di rapporto ancora più flessibili, su quali criteri si stabilisce l’avanzamento delle citate tutele? Ci sono vincoli contrattuali che riguardano quale dovrebbe essere la soglia di partenza da cui il lavoratore inizierà il suo percorso? Perché se le tutele sono crescenti, può significare soltanto che l’inizio di ogni percorso in una determinata azienda ne sarà privo, o in ogni caso ridotte al minimo, ma in un sistema nel quale la flessibilità è la regola, e la competenza non necessaria alla grossa produzione e distribuzione, basterà semplicemente assumere lavoratori sempre diversi di modo che la partenza sarà sempre con le tutele ridotte al minimo. Se maggiori tutele equivalgono a maggiori costi di produzione, il datore di lavoro per contenerli al minimo non dovrà far altro che usufruire delle agevolazioni contrattuali che il governo gli offre. È improbabile che qualcosa possa tornare a vantaggio dei lavoratori giacché i “pregi” delle forme di determinazione del salario non sono misurati in base ai loro effetti, ma alle conseguenze che hanno sui rapporti di potere impliciti nella condizione di lavoro: più produttività, meno costi di produzione, salari più bassi, maggior precarietà, meno diritti al lavoratore, minori possibilità di organizzare il proprio futuro.

Questa rivoluzione è in mano alle multinazionali. Aspettiamoci giorni bui.

Neoliberismo e Corruzione


“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire“, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Aggiungo che sono pochi i politici abbastanza temerari a abili da resistere alle loro pressioni; e se (se) ci riescono si trovano davanti avversari formidabili: il capitale extraterritoriale e i suoi seguaci neoliberali. La maggior parte dei politici, a parte davvero poche eccezioni collocate soprattutto nei paesi nordici, come il fresco Rapporto della Commissione europea in merito alla corruzione dei Paesi membri ci fa notare, sceglie l’opzione più facile: la classica formula secondo cui “Non esistono alternative”, detta anche Tina (There Is Not Alternative), abusata per prima dalla scomparsa Thatcher. Oppure, come Polly Toynbee ha ricordato in questo interessantissimo articolo,

«si fa credere alla gente che non esistono alternative a qualche malvagia forza economica incontrollabile da parte dell’uomo. La verità è che la miseria e l’ingordigia sono scelte politiche, e non un destino economico; che possiamo decidere di essere nordici […] e di difendere i diritti umani […]».

(Polly Toynbee, “Free-market buccaneers“, in “The Guardian”, 19 agosto 2005.)