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OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

Homo “haud” Sapiens


In un mondo dove nessuno sa né leggere né scrivere ad andare avanti sono gli sciacalli con la convinzione che l’esistenza consista nel depredare le risorse del prossimo così da assicurarsi la propria sopravvivenza. Del resto come dar loro torto se in effetti le sole alternative che gli vengono presentate sono la disfatta, il fallimento, l’umiliazione, la distruzione, l’abbandono, e l’insuccesso inteso esclusivamente come sconfitta personale, individuale anziché collettiva, sociale, comunitaria. Una società che vive nella menzogna di poter riuscire a fare tutto solo grazie all’istinto e alle presunte capacità di sopravvivenza individuali, escludendo un fatto ineludibile, la “con-vivenza”, non può essere consapevole di star scavando la propria fossa. L’uomo non vive di sola caccia e conquista. È un essere sociale con anche il bisogno di crescere intellettualmente, culturalmente, eticamente; elementi grazie ai quali ha realizzato opere senza tempo che hanno determinato la sua evoluzione, ma che a causa della loro progressiva e inesorabile deriva vengono abbandonate al degrado generato dall’ignoranza in attesa che facciano il loro tempo.
Una società resa ignorante non potrà mai riuscire ad apprezzare quel che ha, poiché non è consapevole di averlo.

Integrazione: siamo all’Era glaciale dei sentimenti


Viaggiamo, con la mente aperta alla ricerca di qualcosa di diverso, di luoghi diversi, di culture diverse, di facce diverse, di suoni diversi, di colori e odori diversi, per scappare dalla frenetica quotidianità cui siamo costretti, ma quando è il diverso a raggiungere la nostra “terra privata”, non siamo pronti né disposti ad accettarlo, poiché istruiti a decidere noi dove e quando incontrarlo, anche se coviamo spesso in silenzio un’altra vita, un nuovo inizio in terre meno deliranti. E allora dal rifiuto all’emarginazione del diverso è un passo, e ne basta un altro affinché da quest’ultima si elaborino i nostri spazi come terreni di battaglia sui quali combattere per assicurarsi la supremazia esistenziale, in un mondo proclamato sempre più angusto.

Capita inoltre che chi non ha viaggiato mai non sia preparato ad accettare il diverso, perché sperimentato soltanto attraverso i filtri di un documentario (anche se viaggiare non implica di per sé sensibilità, disponibilità, espansività, dato che sempre più frequentemente ci releghiamo in spazi dedicati al turista – specie per motivi di sicurezza – che a sua volta richiede servizi standardizzati), e lo considera quindi come una minaccia imminente, che priva di risorse – paventate insufficienti – la “nostra terra”.
Le politiche d’integrazione multiculturale poco sono prese in considerazione dai governi occidentali, ed è principalmente a causa della loro carenza che il diverso fatica ad essere compreso e accettato. Al contrario, perfettamente integrata nel tessuto sociale, nell’immaginario collettivo dei popoli occidentali, è la dottrina del PIL.

I governi occidentali infatti si spendono corruttivamente affinché beni e servizi transitino liberamente da una terra all’altra e siano ben presenti nelle nostre case, e ha poca importanza se è lo sfruttamento utilizzato per produrli a generare l’esodo di massa cui noi tutti stiamo assistendo. Poco spendono invece per insegnare il degrado sociale e culturale creato per inseguire il profitto, indirizzando furbescamente il sentimento collettivo verso dispotismi, egoismi, diffidenze, invidia, così chi è costretto a scappare da quelle realtà si ritrova a sbattere ancora contro la stessa insensibilità.
Perché è grazie ai potenti mezzi oggi a disposizione se siamo capaci di credere, come ingenui fanciulli incantati dalle favole, nella reale esistenza di Babbo Natale (un Salvini qualunque) e dell’Uomo Nero (un immigrato qualsiasi). E allora ti capita sovente di ascoltare in giro ragazzini che per offendersi si scambiano epiteti come «sei un marocchino», e ti accorgi di quanti passi è retrocessa l’umanità, e di quanti invece è avanzata la spietatezza.
Viviamo così nell’Era glaciale dei sentimenti, nel pieno di una catastrofe, e questo mondo somiglia sempre più a un mondo privo di umanità, e di comprensione, pietà, accoglienza, sostituita da marionette senz’anima, né calore né ombra. E non è un caso che in numero sempre maggiore l’uomo venga sostituito nei suoi compiti dalle macchine, come non lo è il fatto che ad un aumento del degrado corrisponda una diminuzione della coscienza.
Nessuno ha più responsabilità in questo carosello di scaricabarili, dove il colpevole si è fatto invisibile, attore di questa tragicommedia che è la vita, in cui svolge le sue attività solo su comando, e dove non è concesso, poiché non ne ha facoltà, domandare, avere dubbi, per non destabilizzare il fragile equilibrio economico da cui dipende la sua esistenza. L’oppressione della libertà di pensiero, della consapevolezza di un mondo alienato, dà origine a tensioni fra popoli che nulla hanno di opposto, e che anzi hanno in comune tutti la stessa oppressione e la stessa incolpevolezza. L’inciviltà verso la quale siamo diretti reprimerà quel po’ di empatia che ancora sopravvive educandoci a considerare la “nostra razza” superiore, e come l’unica degna di occupare terre. Ebbene sarà sempre guerra, una guerra stabilita dalla favola del PIL. Nel frattempo, quanto più il mercato è libero, tanto meno ci sentiamo sicuri. Ma è solo un caso.

Jobs Act: lavoratori come merce di scambio


L’obiettivo, a lungo braccato, di far tornare il lavoratore ad essere merce di scambio a tutti gli effetti, e che sembrava aver raggiunto i massimi risultati con la riforma del mercato del lavoro del Governo Monti, trova oggi la possibilità di nuovi traguardi all’orizzonte grazie al “Jobs Act”. Stando a quanto l’attuale Governo si appresta a mettere in atto, sarà abbattuto ogni diritto, ogni possibilità di fare ricorso contro i soprusi esercitati dal datore di lavoro e così, per la gioia degli sfruttatori, la schiavitù tornerà ad essere di moda: alla luce del sole, ma un po’ nascosta all’ombra del classico mantra «non ci sono alternative». Sarà dato maggior potere al sistema capitalistico-neoliberista, che potranno esercitarlo senza impedimenti concretizzando il totale controllo sul corpo e sull’anima del lavoratore, sostituendo definitivamente la partecipazione dello Stato Sociale che così diventerà un surrogato a tutti gli effetti.

Un’ulteriore precarizzazione del lavoro avrà come conseguenza inevitabile la riduzione dei salari e dei diritti. I costi di produzione si abbasseranno ancora di più, e ad avvantaggiarsene saranno soltanto le grandi cooperative, le multinazionali, i grossi industriali. I piccoli imprenditori, come sappiamo, vivono di professionalità e competenza in determinati settori, non grazie al lavoro dei contratti a tempo determinato che, in aggiunta a quel che si sostiene, favoriscono non solo la compravendita di manodopera nei momenti di maggior produzione, ma “sempre”. Il totale precariato è un generatore di tensioni che avrà conseguenze disastrose (più di quelle già in atto) sull’autonomia dei lavoratori.

Orientare gli individui alla logica del mercato solo perché “i rapporti economici vanno in quella direzione”, non è certo la scelta migliore per contrastare la disoccupazione dilagante o per creare – anche solo in minima quantità – nuovi posti di lavoro. Anzi, i disoccupati accresceranno ancora di più eludendo scientemente i dati occupazionali: maggior flessibilità non comporta maggior impiego, ma ulteriore precarietà del lavoratore, che potrà essere chiamato per qualche ora alla settimana all’abbisogna facendolo risultare “parzialmente occupato”, ossia un “non disoccupato”, che sarà così gettato in un limbo da dentro il quale sarà ancora più complicato affermare la propria esistenza sociale.

Come si può pensare che un mercato senza regole o vincoli sia a sua volta in grado di indirizzare nella giusta direzione la vita dei lavoratori se ha la possibilità di sfruttarli per trarne quanto più profitto possibile? Sappiamo bene quali conseguenze ci hanno riservato la logica dei mercati economici. Il Jobs Act ha pretese che vanno al di là del buon senso, e si prefissa soltanto di agevolare e potenziare la compravendita dei lavoratori da parte delle forze del mercato, facendola diventare a tutti gli effetti una “moderna tratta di essere umani“. La “libera contrattazione” non protegge né salari né diritti, e questo dimostra quanto la politica sia male amministrata e poco equilibrata. Chi potrà più pensare di costruirsi un futuro senza avere quelle basi, quelle certezze sulle quali fino a ieri si è “retto” il nostro modello economico? Sarà ancora meno possibile, tra l’altro, pensare di accendere un mutuo, o chiedere un microprestito per quanto piccolo esso sia. “La regola” fondamentale del Jobs Act recita così: – “Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto d’inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Nessuno è in grado di dare un’interpretazione corretta al Jobs Act, infatti già da tempo ormai, come da tradizione italiana, opinionisti e pseudo, giornalisti e pseudo, ai quali è dato in carico di divulgare all’opinione pubblica il disordine, si stanno contendendo il titolo di “peggiore”. Sappiamo bene però, anche in questo caso, quanto l’eccesso di norme poco chiare che disciplinano il nostro sistema (tutto) abbia offuscato con gli anni il corretto svolgimento della macchina dello Stato. Pertanto, «processo verso un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» lascia spazio alle interpretazioni semantiche più libere da parte dei datori di lavoro. Quali sarebbero le «tutele crescenti»? Chi stabilisce quali sono e in che misura dovranno essere esercitate? Non se ne sa niente ancora; il testo è sostanzialmente blindato. Se il contratto di lavoro prevede termini di rapporto ancora più flessibili, su quali criteri si stabilisce l’avanzamento delle citate tutele? Ci sono vincoli contrattuali che riguardano quale dovrebbe essere la soglia di partenza da cui il lavoratore inizierà il suo percorso? Perché se le tutele sono crescenti, può significare soltanto che l’inizio di ogni percorso in una determinata azienda ne sarà privo, o in ogni caso ridotte al minimo, ma in un sistema nel quale la flessibilità è la regola, e la competenza non necessaria alla grossa produzione e distribuzione, basterà semplicemente assumere lavoratori sempre diversi di modo che la partenza sarà sempre con le tutele ridotte al minimo. Se maggiori tutele equivalgono a maggiori costi di produzione, il datore di lavoro per contenerli al minimo non dovrà far altro che usufruire delle agevolazioni contrattuali che il governo gli offre. È improbabile che qualcosa possa tornare a vantaggio dei lavoratori giacché i “pregi” delle forme di determinazione del salario non sono misurati in base ai loro effetti, ma alle conseguenze che hanno sui rapporti di potere impliciti nella condizione di lavoro: più produttività, meno costi di produzione, salari più bassi, maggior precarietà, meno diritti al lavoratore, minori possibilità di organizzare il proprio futuro.

Questa rivoluzione è in mano alle multinazionali. Aspettiamoci giorni bui.

“Volere è potere”…?


È il concetto forse più diffuso nel mondo: volere è potere. Bene, vediamo quanta verità c’è in tutto ciò.

Considerando questa una società fondata sul reddito, ovvero sui salari, il lavoro, che è fonte di reddito, permette agli individui che ne fanno parte di trovare e ottenere una collocazione, un ruolo in essa. Il lavoro è il principale strumento messo a disposizione degli individui, per garantire loro un’esistenza, d’essere riconosciuti, di avere un’identità (l'”etica del lavoro“, storicamente, è stata fondata su questo genere di postulati), essendo questo appunto un modello sociale strutturato su di esso. Stabilito quanto appena detto, dobbiamo far lo sforzo di inquadrare l’attuale crisi economica (come quelle che l’hanno preceduta) come l’espressione di un problema ben più profondo di quel che immaginano o siamo portati a credere. È come la febbre: indica una “malattia in corso“, una malattia che è causa di ben più vittime di quante ne abbiamo percezione.

Facciamoci dunque qualche domanda.

“Questa società è una società sana?”
La consapevolezza gioca un ruolo fondamentale quando cerchiamo di rispondere a questa domanda. La coscienza è uno stato che si può raggiungere soltanto attraverso la comprensione dei problemi che ci circondano, e mai con il “pre-giudizio“. La società, e la convivenza “in e con essa“, peggiora proprio a causa della carenza di consapevolezza. Sovrastati come siamo di notizie, tutte in contraddizione fra loro, non siamo più in grado di definire ed identificare i problemi che ci circondano, poiché inconsapevolmente ci asteniamo dall’affrontare un’analisi più approfondita. Lasciamo che siano altri a sbrigarsela. Ci sono così tante verità, che non siamo in grado di valutare coscienziosamente cosa è più giusto per la comunità (quindi per noi stessi) e cosa invece non lo è; inversamente non ci troveremmo in questa situazione.

“Volere è potere”.
La “volontà” è un concetto fideistico, astratto, metafisico, indipendente dalla ragione, mentre il “potere“, di contro (semanticamente), significa “avere la possibilità“, “il diritto”, “il permesso”, e deve essere “possibile”, “consentito”, “lecito”, “probabile”, pertanto chi ne fa uso deve disporre dei mezzi affinché “possa esprimerlo“, concretizzarlo. Perfino il Papa (oggettivamente il più sociologo di tutti i Papi) chiama fuori la fede nel caso dell’esclusione sociale, ovvero quella condizione che esclude tutti coloro che non hanno le possibilità materiali e spirituali adatte ad esercitare un potere. Il potere oggi è inteso perlopiù come espressione di comando, di supremazia, di controllo (su di sé e su quanto gira intorno), di sopraffazione psicologica e materiale, perciò siamo esortati a pensare che “volere è potere”. È un’astrazione ambiziosa, e gli esseri umani – strano ma vero – non sono tutti ambiziosi, seppur oggi siamo condizionati ostinatamente (efficacemente) a concepire il contrario. La società è (dovrebbe essere) fatta di individui uguali, con eguali diritti e doveri, ma con diversità interiori, intime, riconosciute e accettate da tutte, e il fatto che oggi l’individualità (che noi confondiamo ormai con l'”individualismo” egoistico) sia continuamente schiacciata dagli stereotipi, non legittima a pensare che non esista. È un’opinione irrazionale, radicalmente errata: fa acqua da tutte le parti.
Il “potere“, inoltre, è oggi sempre più un concetto che concerne al materialismo, al positivismo (che in filosofia sono intesi come tutto ciò che concerne ai problemi “pratici della vita”), al meccanicismo (la vita intesa come movimento spaziale dei corpi, in senso materialistico-meccanico, ovvero il predominio della materia sullo spirito), nonché all’ambizione, alla pre-supponenza, alla presuntuosità. I due termini, “volere” e “potere” non vanno necessariamente d’accordo. “Volere è potere” è una locuzione che esclude implicitamente tutti coloro che non ci riescono.

“Quali sono quindi le conseguenze?”
Gli individui sono spesso portavoce inconsapevoli delle istituzioni, delle influenze, degli interessi incorporati al tessuto economico-sociale. E secondo questo modello sociale, fondato appunto su interessi economici, essi sono esortati a pensare che ognuno debba provvedere per sé, acquistando le soluzioni ai loro problemi da chi li crea, e promette di risolverglieli. Chi non ha reddito, e non può procurarselo poiché non ci sono le condizioni materiali sociali, viene automaticamente escluso dal “cerchio magico” delle soluzioni esposte e pubblicizzate in ogni dove e quando, pertanto ragionevolmente non potrà che esprime frustrazioni; proprio per il fatto che intimamente si considera incapace, di conseguenza tende a somatizzare tali frustrazioni attraverso atti di violenza, psicopatie, disturbi del comportamento in generale, astio e repulsione nei confronti delle istituzioni che «mi hanno abbandonato». L’astensione elettorale dovrebbe far riflettere molti, “riflettere” però in modo più approfondito. I problemi individuali odierni derivano dalla società che ci circonda, e non viceversa: non sono gli individui ad affrontare male la società, ma è la società, così indirizzata, e governata da interessi privati, a mettere a disposizione dei cittadini scelte sbagliate affinché se ne tragga il maggior profitto economico possibile. Ma appunto, sono scelte sbagliate.

Oggi c’è un rimedio a tutto, e tutti consigliano “come si deve essere“, e “cosa si deve fare” per “star meglio“. Ognuno provvede per sé, dimenticando un fatto imprescindibile: viviamo in una comunità, e che le nostre distrazioni, le nostre scelte, e le nostre ambizioni personali, escludono di fatto gli altri membri, ossia coloro che non hanno ambizioni, che non si riconoscono in una società nella quale si è considerati solo se si consuma, se si ha un reddito da spendere e se si ha una marcata attitudine alla competizione, appunto alle ambizioni e alla realizzazione (costi quel che costi) di esse .

“Non bisogna deprimersi, abbattersi, e non dobbiamo utilizzare come alibi il malfunzionamento della società”.

Proviamo a metterci nei panni di chi “vorrebbe“, ma non può.
L’esclusione sociale è una cosa seria, come lo è la depressione. Chi ci è entrato sa quanto si è fragili, e soprattutto inconsapevoli delle proprie potenzialità, quando si è depressi. Di fatto, i suicidi dall’inizio dell’anno sono stati centinaia. Il suicidio è uno dei termometri più efficaci per misurare la febbre a una società. Gli altri sono, nell’ordine, l’occupazione, dunque il livello di povertà, la qualità dell’esistenza pertanto i salari e le disposizioni materiali rispetto al costo di una vita degna, l’inquinamento, lo sfruttamento delle risorse, l’astensione elettorale, e la salute, che è la somma conseguente di tutti i succitati fattori. In un modello economico come questo si riesce a vivere solo se si ha un reddito. Se non si dispone di un salario, conseguentemente anche la vita viene vissuta male, indegnamente.

La società ha una struttura molto più complessa rispetto alle semplificazioni e le generalizzazioni stereotipate che recepiamo attraverso i mezzi di comunicazione. E purtroppo crediamo tutti che le questioni siano o bianche o nere, senza sfumature. Allora, noi siamo tutti uguali quando ci dicono che “volere è potere”, mentre le istituzioni si giustificano dichiarando che non hanno scelta, che “vorrebbero ma non possono”, che “non ci sono alternative” (metodo TINA, escamotage politico utilizzato pesantemente dalla Tatcher in poi: “There Is No Alternative“). Noi, individualmente, “se vogliamo possiamo“, mentre le istituzioni “vorrebbero ma non possono“. Appare almeno un po’ contraddittorio?

Eppure dovrebbe esser facile pensare che la medesima situazione alcuni la vivono in un modo, mentre altri in maniera diversa. Come dovrebbe esser facile sapere che i mali della società derivano da scelte politiche; scelte fondate indubbiamente sul profitto economico. Ma evidentemente non lo è, e io non me la sento di dar la colpa a chi non riesce a comprenderlo, a metterlo a fuoco. Non sono nessuno per giudicare, ma uno sforzo dobbiamo cercare di farlo tutti, insieme, per dare il giusto significato a quanto ci circonda. Guardiamo la società nel suo complesso, dove “non ci è possibile” individualizzare, scaricare sul singolo individuo tutti i suoi mali. Non avrebbe (e non lo ha) alcun senso. In ogni caso, tutti i più grandi studiosi dei fenomeni sociali indicano questo modello di società come un qualcosa di malato, di perverso. Forse allora sbagliano? Se sì, dove e perché? Perché se sbagliano, oggi dovremmo vivere tutti in un paradiso.

La povertà, tra indifferenza, diffidenza e superficialità


Ho, purtroppo, modo di interloquire sempre più spesso con persone che considerano la condizione di povertà l’effetto di un’incapacità esclusivamente personale, una caratteristica di quelle persone che non riescono, giacché non vogliono, a trovare una posizione sociale e quindi a realizzare una vita come quella di tutti gli altri che, invece, riescono a concretizzare perché ne hanno la volontà. Costoro pensano che il mondo sia costituito per una parte da predatori, sciacalli, imbroglioni, astuti, ingegnosi, volenterosi e interessati, di conseguenza immaginano che l’altra sia fatta di ingenui, sprovveduti, imbranati, sfaticati, oziosi, privi di interesse, lamentosi e parassiti. Plagiati quotidianamente da stereotipi, luoghi comuni, banalità e quant’altro capiti di ascoltare o leggere attraverso i media, come dargli torto. E dal momento che “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, il propagarsi di tali preconcetti è inesorabile. A dispetto quindi di quel che conseguentemente una crisi — che nessuno ha voluto — produce, ovvero povertà e degrado sociale, gli indigenti sono tuttavia elaborati come degli incapaci.

È, molto spesso, il povero stesso a ritenersi incapace, non all’altezza delle situazioni e dei problemi che è suo malgrado costretto a fronteggiare. Ed è anche il motivo principale che trascina un individuo alla depressione, e nei casi più estremi anche al suicidio, senza contare le umiliazioni con le quali si scontra ogni giorno e le frustrazioni che ne conseguono. E le umiliazioni sono proprio gli sguardi e i preconcetti di coloro che li considerano degli inetti, per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili nei confronti di chi versa in condizioni di miseria, facendo lo sforzo di comprendere che le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità.

Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in conto alcuni aspetti che una crisi come quella che stiamo vivendo genera: il terreno sul quale camminiamo che si fa sempre più fragile, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali inevitabilmente ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora e che non a tutti riesce facile governare, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e dunque tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche che diventano sempre più difficili da curare a causa della mancanza di risorse economiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.

Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità individuali per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha l’attitudine di diventare predatori, sciacalli, egoisti, astuti a nostra volta. Una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli “attrezzati”. Pensarlo equivale a essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo altezzosamente il resto del mondo. Coprire gli occhi, tappare le orecchie e turare il naso, durante la nostra corsa sfrenata verso il “successo”, poiché vedere, ascoltare i lamenti e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, non serve a nessuno, se non ad alimentare un egoismo e un’inconsapevolezza sempre più diffusi.

Il problema è che non siamo disposti e disponibili a vedere, ascoltare e sentire; l’uomo non è un essere incline a misurarsi con il “brutto”, con la bassezza umana, ma solo con il bello. È ininterrottamente esortato, sollecitato a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, “silenziosi”, e dunque sempre più irraggiungibili, convinto che ciò possa rendere bella, pulita e silenziosa anche la sua coscienza, tranquillo, sicuro di non aver colpe per le disgrazie altrui con il suo comportamento.

Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto ci si possa spruzzare di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare, classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”.

E poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei “loro” confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, ci vengono allora in aiuto espedienti in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà. Primo fra tutti è il metodo più semplice da adottare e anche il più efficace (non in termini di solidarietà; efficace per placare egoisticamente la nostra coscienza): quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione” si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato, inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.

Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere (vedi violenze e reati diffusi); più il numero dei malati di cancro aumenta, più saremo costretti a non vedere, non ascoltare, e a non sentire l’odore. L’indifferenza, la diffidenza e la superficialità dilaganti con le quali affrontiamo certi argomenti, e con le quali mi scontro ogni giorno, lo attestano chiaramente. E quanto vorrei sbagliarmi…

“Bisogna avere più cervello e meno cuore…”, perché siam bravi tutti a parole


Riprendendo il filo da dove avevo lasciato, come già detto, finita la Seconda Guerra mondiale dopo la Liberazione rientrarono nelle case, 20 mesi più tardi, 200.000 partigiani e circa 500.000 italiani nascosti o fuggiti all’estero nonché 1 milione e 360.000 di prigionieri sparsi in tutto il mondo, senza contare quelli che non sono mai più tornati, fondando e radicando comunità in ogni angolo del pianeta. Inevitabilmente fu un esodo di massa, che però non riusciamo neppure a paragonare con quello che sta avvenendo oggi nei paesi schiacciati dalle guerre. Perché? Eppure le affinità ci sono tutte: dittatori che opprimono e schiavizzano le popolazioni ai loro voleri per soddisfare una personalissima concezione del mondo che si erge sulla supremazia come pure sugli interessi economici. Non c’è la “razza ariana” a fare da capro espiatorio, ma c’è quel comune impulso avido a controllare e annullare gli Altri, considerati unicamente come strumenti per raggiungere i propri scopi, atti ad affermare un vantaggio competitivo in un mondo che fa del dominio e della competizione le sue ragioni d’esistenza.

Quando le Guerre si conclusero, l’Europa fu liberata, ma non finirono i disagi e le violenze da un giorno all’altro. Era tutto distrutto; c’era tutto da ricostruire. La produzione industriale italiana era bassissima: se 100 era quella del 1938, nel 1942 scese a 89, nel 1943 a 69, e alla fine della guerra era piombata a 29. C’era una diffusa indigenza: con la tessera alimentare si arrivava ad appena 900 calorie al giorno, gli altri saltavano i pasti o erano costretti trovare il modo di arrangiarsi. Iniziava in questo clima “la grande avventura della ricostruzione”, non solo materiale ed economica, ma anche dei valori, spirituale. Possiamo oggi dire di esserci riusciti?

Prendiamo il Sud. Era la parte del paese che più aveva risentito dalla guerra. Oltre ai danni provocati dalle bombe, l’economia era al tracollo, le regioni del sud si trovavano in serie difficoltà, isolate dal resto del paese, e questo non aiutava la popolazione ad avere fiducia.
Nel ’50, tra disagi e rivolte popolari (contro i latifondisti) generate dopo varata l’inefficace riforma agraria, meglio nota come Riforma Segni, fu creata la Cassa del Mezzogiorno, con l’intento di istituire un’ente autonomo in grado di garantire la realizzazione di strutture e attività economiche nel meridione, ma che finì per trasformarsi in un ente politicizzato che dipendeva intrinsecamente dalle direttive delle diverse coalizioni politiche che si alternavano al governo. Così, invece di incentivare la crescita delle regioni del Sud, contribuì a incrementare il mercato per le imprese del Nord favorendo la crescita del reddito e dell’occupazione nelle zone meno disastrate. Quanto è cambiato da allora?

L’Italia dunque, da paese aggressore e oppressore, riscattatasi alla fine della guerra, divenne nuovamente preda dell’avidità istituitasi attraverso interessi economico-politico-strategici. A chi poteva permetterselo non rimaneva che emigrare, non solo verso l’Italia settentrionale, ma anche verso la Svizzera, la Germania, il Canada, le americhe, l’Australia, eccetera. Gli italiani sono numerosi e ovunque nel mondo.
È inoltre doveroso ricordare, per comprendere le allora condizioni, che insieme alla fame e alla grande miseria, alla fine della guerra furono molte le donne costrette a prostituirsi, ed erano costretti a vendersi per 2 o 3 dollari (300 lire) anche ragazzini e ragazzine di 10 anni, che venivano valutati a palpeggi prima di essere sceglierli. Costava molto di più un chilo di carne che una ragazza o un ragazzino.

C’era una dignità da ricostruire ma l’indigenza, le ruberie delle amministrazioni e le discriminazioni rendevano tutto più difficile; certo è che le emigrazioni non si arrestavano.

Tuttavia, il sentimento di solidarietà e umanità non si estinse, ma era più diffuso fra gli italiani emigrati all’estero che non fra coloro rimasti sul territorio. Nella storia dell’emigrazione italiana hanno prevalso a lungo sentimenti di appartenenza locale, generati dalla sostanziale assenza dello Stato nei confronti dei propri emigranti ma anche di quella dello stato che li ospitava. Più o meno è quanto accade fra gli immigrati stranieri presenti in Italia e altrove: escluse le necessarie cure di primo soccorso, di fatto gli stranieri fuggiti dalle guerre e richiedenti aiuto sono prevalentemente lasciati a se stessi, senza alcuna struttura che si occupi minimamente della loro integrazione (le strutture di accoglienza sono sempre più simili a lager). Accade allora che pur di sopravvivere c’è chi è costretto a delinquere, chi a mendicare, chi a fare lo schiavo di qualche padroncino in cambio di un pasto, chi cerca in tutti i modi di raggiungere parenti sparsi in Europa, ma ognuno di loro è sostanzialmente lasciato allo sbando. Per fare un paradosso (neanche tanto), in Brasile, che ospiterà i prossimi Mondiali di calcio, le prostitute (la prostituzione è legale in Brasile) stanno recandosi in massa a studiare l’inglese (gratuitamente nelle strutture preposte sul territorio), in modo tale da essere pronte a fronteggiare l’invasione dei turisti provenienti da ogni parte del globo per seguire la competizione (ma anche per riuscire a comunicare meglio evitando di trovarsi in situazioni pericolose – che certo non mancheranno lo stesso, ma non per questo debbono essere abbandonate a se stesse). I Mondiali di calcio non sono un evento che si può interrompere, come non si può reprimere la prostituzione, come pure gli esodi di massa generati dalle guerre, e giacché non c’è la volontà di fermare nessuna di queste “contingenze”, l’unica via intelligentemente, razionalmente e umanamente praticabile è quella dell’integrazione: predisporre servizi di assistenza e tutela sul piano culturale ed educativo è sempre meglio che reprimere. La consapevolizzazione e l’istruzione hanno sempre aiutato la gestione di situazioni che altrimenti sarebbero lasciate totalmente in mano alla criminalità, come del resto avviene quando le istituzioni vengono a mancare. Basta vedere le condizioni in cui versa l’Italia.

Ad ogni modo, fosse per me i mondiali di calcio non si farebbero, almeno non in mezzo a sprechi colossali che portano solo violenza e dividono il popolo, ma non ho il potere di cancellarli, e in ogni caso il calcio è uno sport che piace, evidentemente così com’è; per alcuni la prostituzione è da condannare senza appello, per altri andrebbe legalizzata, ma nessuno ha il potere di eliminare le prostitute, anche se i fatti di cronaca a volte fanno supporre il contrario; e così vale per la guerra: per alcuni va fatta, è un’esigenza, un’urgenza, una fatalità (?), mentre per altri è inservibile, corrotta, indecente, disumana, immonda, ma nessuno — tantomeno noi italiani — può arrogarsi del potere di decidere “chi” e “se” deve essere aiutato quando da essa scappa. Gli animali in moltissimi casi hanno dimostrato di essere migliori di noi. Ma il punto centrale è che i fattori più importanti, il “come” e il “perché”, non sfiorano alcuno, introiettati di paura come siamo che ci portino via le risorse vitali da un momento all’altro. La stessa paura verso gli immigrati italiani ce l’avevano in molti, ma i governi li facevano entrare poiché servivano a sviluppare le economie infrastrutturali dei paesi stranieri che li accoglievano, non certo per una questione di solidarietà umana, che esisteva solo endemicamente per le ragioni sopra dette. Infatti le condizioni lavorative erano paragonabili alla quelle della schiavitù. L’emarginazione sociale gli italiani all’estero l’hanno sperimentata, e chi l’ha vissuta sa quanto sia da condannare, ma chi si atteggia come coloro che quando non ci sono problemi sono tutti fratelli e allora è giusto darsi una mano, però se ce ne sono “sparisci dalla mia vista”, è ancora più deprecabile, specie se il “sermone” arriva da chi si diverte a elogiare figure come quella di Gandhi, incarnazione della non-violenza e dei Diritti umani, o di Gino Strada, il fondatore di Emergency, l’associazione umanitaria fatta da volontari che si occupa di portare assistenza sanitaria nei paesi distrutti dalle guerre, e che ogni giorno rischiano la loro vita per salvarne altre, innocenti.

La responsabilità che abbiamo nel ricordare certi momenti storici, non si deve limitare ai soli confini nazionali o familiari, ma si deve estendere in tutto quel senso di solidarietà che dobbiamo coltivare per impedire che appassisca definitivamente.

Pur essendo inconsapevoli abbiamo comunque delle responsabilità.

Ci consideriamo in grado di decidere chi deve morire e chi invece vivere, giustificandoci con argomenti impraticabili — ma efficaci — come la mancanza di risorsein un mondo che produce tre volte tanto quello che consuma, così tanto che sarebbe più che abbastanza per tutti. Non è assecondando queste politiche che si risolvono certe questioni sociali.

Quali sono stati dunque gli eventi e i comportamenti che hanno favorito la nascita del sentimento di paura che gran parte dei cittadini europei ha nei confronti di queste povere persone incolpevoli? Sappiamo ormai perché si fanno le guerre, e allora perché non riusciamo ad andare oltre la propaganda mediatica capace solo di infondere odio, paura, persino invidia verso chi fugge da esse? È chiaro che la realtà mediatica prevale su quella effettiva, ma la storia deve pur averci insegnato qualcosa. Già alla fine dell’800 le comunità italiane all’estero erano importanti, proviamo allora a immaginare come avrebbero potuto sentirsi i nostri avi difronte a un eventuale respingimento: sarebbero stati costretti a rimanere in patria a subire le violenze e le ingiustizie, abbandonati a se stessi e ai loro problemi, senza ricevere il minimo aiuto da parte di nessuno. Se un bambino innocente ci tende una mano in cerca di aiuto è difficile girarsi dall’altra parte e far finta di niente, eppure è quello che vogliamo fare, che stiamo chiedendo di poter fare. Qualcuno ha dichiarato che per affrontare certi problemi “bisogna avere più cervello e meno cuore”… come se le due cose, a prescindere, non fossero capaci di esistere parallelamente in comune accordo, eppure gli esempi che dimostrano che se si ha la volontà possono coesistere tranquillamente ce ne sono e sono formidabili, autorevoli, come quelli su citati, anche se i loro lasciti oggi sembrano essere più in mano alle multinazionali che ne hanno fatto dei brand. È rispettoso nei loro confronti? E verso chi crede nei valori che hanno lasciato?

Così come quando c’era il fascismo il sentimento di rivalsa nazionalistica era ben amplificato dalla propaganda di regime, allo stesso modo il moderno regime mediatico instilla nelle menti più deboli e sottomesse un senso di egoismo distogliendo la loro attenzione dalle vere cause generatrici di tanto caos sociale e dai valori centrali che tengono insieme una società fatta di comunità che vivono l’una in simbiosi con l’altra. I sentimenti pseudo-anti-straniero e le misure di respingimento degli immigrati “nemici” che ci accingiamo ad avallare vanno contro ogni principio di convivenza fra i popoli per i quali dovremmo batterci pacificamente. L’unico terreno di guerra sul quale dobbiamo combattere contro le ingiustizie si trova nelle nostre menti e nei nostri cuori, in parti uguali. I Diritti Umani sono di tutti. Tutti. Non facciamoci condizionare dalla propaganda di regime. Chi detiene l’informazione sono gli stessi che hanno interesse a mantenere bassa la consapevolezza verso certe questioni poiché chiaramente li colpiscono da vicino. Chi ha pozzi di petrolio in Niger siede nei consigli di amministrazione dei più grandi conglomerati mediatici (questi sì con un gran senso di comunità), come ci siede chi è nel tessile, nel minerario, nel settore alimentare e via di seguito. Essere consapevoli del fatto che lo sfruttamento di tali risorse distrugge e inquina interi territori lasciando le popolazioni nell’indigenza che noi tutti siamo abituati a vedere solo in foto, come potrebbe farci scegliere le politiche di respingimento? Essere consapevoli del fatto che consumiamo più di quanto ne abbiamo necessità, come potrebbe farci pensare che le risorse non possono non bastare per tutti lasciando entrare chi ci chiede aiuto? Ancora una volta: sosteniamo di essere contro la vivisezione, gli stupri, la pedofilia, gli omicidi, i femminicidi, i genocidi, ma siamo pronti a girarci dall’altra parte davanti alla prova dei fatti. E questo dimostra quanto siamo bravi a parole. Solo a parole. Di atavico ci è stato espropriato tutto, in compenso abbiamo acquisito il linguaggio, la personalità, il carattere comunicativo e apprensivo dei media. Dovremmo esserne fieri? Le amministrazioni hanno sempre rubato, in particolare quelle italiane, ma non è questo un buon motivo per continuare ad essere i loro sottoposti inconsapevoli. Anzi, forse questo è il momento giusto per smettere.

“Bisogna avere più cervello e meno cuore…”, perché siam bravi tutti a parole


Dicono che non siamo razzisti ma xenofobici, poiché la xenofobia è la paura dello straniero (quella che con tanta veemenza ci viene attribuita), mentre il razzismo si esprime con un sentimento di odio verso una determinata etnia. Pensandoci bene, però, cos’altro potrebbe mai essere, se non odio, quel sentimento che ci induce a pensare che i respingimenti in mare degli immigrati sono l’unica politica perseguibile? Abbiamo forse paura degli americani in vacanza? Dei turisti giapponesi o cinesi? I tedeschi non ci facevano paura quando in massa venivano in villeggiatura da noi, come pure i ricchi russi di oggi non ce ne fanno, eppure anch’essi sono stranieri. Non sarà che discriminiamo solo chi non ha denari da spendere? Non proviamo forse odio verso coloro che “invadono” il nostro territorio privandoci delle risorse? Siamo disposti a lasciarli egoisticamente al loro destino certo di morte e violenze, e non vogliamo ammettere che si tratti di odio? Siamo certi non si tratti di una grande ipocrisia?

La xenofobia è come l’aracnofobia o la musofobia (la paura dei topi) e, come tutte le “fobie” conosciute fino ad oggi, che possono manifestarsi più o meno acutamente, esprimono repulsioni perlopiù ingiustificate verso qualcosa o qualcuno: proviamo a mettere un ragno davanti agli occhi di un aracnofobico e osserviamone le reazioni. Se andiamo in un ristorante costoso e ci mettiamo accanto al tavolo dove è seduto un africano pieno di soldi vestito in giacca e cravatta, viene mica da pensare di scacciarlo via? Eppure è uno straniero, e uno straniero con i soldi non è pur sempre uno straniero? E i ragni di qualunque specie non sono pur sempre ragni? Si penserà allora che non si tratta nemmeno di razzismo, ma non è proprio così. Anche razzisticamente, paradossalmente, facciamo discriminazioni. Negli ambienti comuni non conta più il colore della pelle o la provenienza etnica di taluni ma quello dei fogli di carta dentro i loro portafogli. Il razzismo oggi è andato oltre la razza e la xenofobia è andata oltre lo straniero: sono entrambi sentimenti liquidi (che si conformano in base alle circostanze) che trovano sempre più motivazioni nei conti in banca. Le razze sono due e sono valutate distintamente in base alle disposizioni economiche di ognuno, così il povero viene implicitamente sistemato all’interno della “razza inferiore” o marginale, mentre il ricco in quella “superiore” o centrale. Tuttavia a un bambino povero italiano concediamo più volentieri il diritto di vivere rispetto a un bambino straniero nelle stesse condizioni: “prima vengono i nostri bambini” è il mantra in voga negli ultimi anni. Se non ci importa della sofferenza di un povero bambino straniero, come ci potremmo definire? Non sono tutti uguali i bambini? Ci dichiariamo contro la vivisezione, gli stupri, la pedofilia, gli omicidi, i femminicidi, i genocidi, ma siamo pronti a girarci dall’altra parte davanti alla prova dei fatti. Ciò dimostra chiaramente il clima di contraddizioni nel quale siamo caduti, e quanto bravi sappiamo essere a parole.

Ci troviamo così difronte a un modo inconsueto di considerare il prossimo. L’aumento delle discriminazioni ha fatto sì che questo genere di valutazioni immotivate prendessero il sopravvento, al punto che il carattere umano di ciascuno venisse oscurato prima dalla provenienza etnica, poi dalle apparenze e infine dalle sole possibilità economiche. È un pensiero sempre più comune, infatti, ritenere capaci e degne solo le persone che dimostrano di possedere la volontà di arricchirsi e avere successo all’interno della società.

Siamo dunque tutti un po’ xenofobi, un po’ razzisti, un po’ egoisti, ma soprattuto nazionalisti e disumani, però nessuno sa più come autodefinirsi, perciò devono suggerircelo: da soli non ne siamo più capaci.

Dopo le recenti elezioni europee, uno dei messaggi più chiari che il popolo ha espresso è stato quello di voler chiudere le frontiere. Dopo anni che i mezzi di comunicazione di massa presentano all’opinione pubblica rivolte, violenze, attentati, massacri, che avvengono nei paesi più poveri descrivendoli implicitamente come gli effetti provocati da popoli e culture inferiori alla nostra, incapaci di farsi governare, adatti solo a parassitare d’elemosina — essendo esseri intellettualmente inetti —, dediti alla sottomissione e all’annullamento del sesso femminile, abituati a vivere dentro baracche igienicamente lontane millenni dalle nostre moderne case con giardino e sanitari, a non lavarsi e a non cospargersi di creme di bellezza, a mangiare con le mani sporche di terra… quella terra che esiste sempre meno nell’immaginario collettivo del popolo europeo… dicevo, dopo anni di oppressione attuata dalla propaganda di regime, siamo finalmente pronti a scegliere di essere ciò che ci è stato viscidamente imposto.

Parliamo del limbo in cui è caduta la coscienza rispetto a fatti avvenuti negli anni delle Guerre, del fascismo, durante i quali fu messa in atto una delle oppressioni più violente che l’umanità abbia mai conosciuto, e che dovremmo aver desiderio di ricordare proprio per non dimenticare le atroci sofferenze che le generazioni passate furono costrette a subire affinché non si ripetano. Tuttavia, ricordare un’evento è oggi una pratica buona solo a scrollarci di dosso la responsabilità che abbiamo proprio per evitare che simili disumanità ricompaiano sulla scena della civiltà: ricordiamo limitatamente, in maniera contenuta, circoscritta, in un determinato giorno dell’anno, fatti e avvenimenti che invece meriterebbero di essere affrontati facendo lo sforzo di immergerci “empaticamente” nel clima sociale di quegli anni.

Oggi molti hanno dubbi (molti altri non sanno nemmeno di cosa stia parlando), ad esempio, sulla responsabilità diretta dell’Italia e di Mussolini nell’esplosione della Seconda Guerra mondiale che, ricordiamolo, fu dichiarata di comune accordo dal governo fascista e da quello nazista tedesco. Furono oltre 56 milioni i morti su tutto il pianeta, e in gran parte civili, ma i civili non erano solo tra i morti, poiché molti altri sostennero la dittatura, come quelli che riempivano le piazze italiane per esprimere amore e sostegno al Duce. E i dubbi sono proprio figli di coloro che hanno fatto di tutto per mantenere vivo il ricordo di un fascismo “utile ed efficiente”, omettendo, naturalmente, o arrivando perfino a giustificare, tutte le nefandezze di cui si è macchiato. Forse questo lo abbiamo dimenticato, e forse proprio perché nessuno lo ricorda mai abbastanza, quasi a voler nascondere l’errore per sottrarsi dall’impegno quotidiano dell’ammenda, che interessa ognuno di noi, nessuno escluso. E abbiamo dimenticato anche quanti furono gli italiani fuggiti all’estero durante il periodo nazifascista. Consideriamo solo che dopo la Liberazione rientrarono nelle case, 20 mesi più tardi, i 200.000 partigiani e i circa 500.000 italiani nascosti o fuggiti all’estero nonché i 1.360.000 prigionieri sparsi in tutto il mondo, senza contare quelli che sono rimasti e mai più tornati, fondando e radicando comunità in ogni angolo di esso. Come poteva essere la vita in un paese in quelle condizioni?

Emerge così il problema dell’informazione. Abbiamo, in Italia, ma non solo, dei poteri che controllano i media e tutto quello che ci passa dentro, che sono arrivati a sconvolgere la realtà e la storia con una efficacia pari solo al periodo propagandistico nazifascista. Alcuni di questi sono così spudorati da essere capaci perfino di spacciarsi come le vittime delle campagne mediatiche. Abbiamo giornali, televisioni, convegni, che diffondono in abbondanza la propaganda egemone-nazionalista, riuscendo a offuscare valori e ricordi che piuttosto andrebbero custoditi con cura e rispetto. Il risultato è che si è delineato un vero e proprio odio nei confronti di chi chiede aiuto, non solo verso lo straniero: odiamo “la razza inferiore in difficoltà” poiché la consideriamo un’ostacolo per il nostro benessere. Siamo xenofobici, dicono, ma la verità è che si tratta di un po’ di tutto: razzismo, xenofobia, nazionalismo, disumanità.

Sorprendono, per esempio, le enormi contraddizioni che emergono fra tutti coloro che si dichiarano solidali, e che ritengono personaggi come Grandhi, Papa Francesco, Madre Teresa di Calcutta, modelli di umanità da seguire e emulare, quando invece alla prova dei fatti viene a galla quel che in realtà sono diventati: dei perfetti egoisti amanti delle belle frasi ad effetto. È diffuso infatti il sentimento patriottico che sembra non avere più attenzione per gli altri, giacché tantomeno ne riceve. Un sentimento che raggiunge connotazioni di vero entusiasmo e sentita passione in ormai troppi casi. Un protagonismo egemone entrato di soppiatto nella nostra cultura, insinuandosi nelle nostre menti come i più “ingegnosi” e potenti virus informatici fanno con i cervelli elettronici. Quelli più esposti sono difatti coloro che guardano e sperimentano la vita attraverso uno schermo qualsiasi, ovvero prevalentemente i giovani, schermo-dotati ormai fin dalla nascita. È stato ed è, quello della gioventù, un mondo percorso attraverso evoluzioni mediatiche sempre più presenti ed efficaci e viceversa.

Continua…

Alan Friedman: come preparare psicologicamente al sacrificio un’intera generazione, in nome di “una splendida opportunità”


Avete presente Alan Friedman, il giornalista-economista, quello che parla simpaticamente come Ollio, che ha occupato il mondo della comunicazione per promuovere il suo libro Ammazziamo il gattopardo, da poco tempo prima che Matteo Renzi si insediasse a Palazzo Chigi con le modalità che noi tutti conosciamo? Ecco, guardate un po’ che ho trovato sul New York Time del ’98:
(un estratto dell’articolo)
“[…] quella splendida opportunità (Unione Monetaria Europea), se debitamente sfruttata, avrebbe significato per i paesi europei che non facevano parte dell’Unione:
[…] Provocherà un ulteriore ridimensionamento complessivo e, inizialmente, un aumento della disoccupazione
. Friedman prosegue citando Kim Schoenholtz, economista rinomato del Salomon Smith Barney di Londra, e l’opinione di “molti altri economisti del settore privato”, secondo cui, perché la moneta unica europea determini il previsto “miglioramento dell’efficienza”, “sono necessari profondi cambiamenti strutturali. L’articolo di Friedman è chiaro in merito ai cambiamenti strutturali da apportare che costituiranno “l’elemento mancante che i politici devono ancora aggiungere”. Il cambiamento strutturale, spiega Friedman, è “la chiave per rendere più semplici l’assunzione e il licenziamento, ridurre la spesa pubblica per le pensioni e altri benefici concessi dallo stato sociale, e diminuire gli elevati contributi previdenziali e gli oneri sociali che gravano sui datori di lavoro dell’Europa continentale […]”.

In quegli anni si parla anche che il raggiungimento di tali obiettivi (voluti dal Fondo Monetario Internazionale – FMI -) richiederà il sacrificio di una generazione, come spiegano un gruppo di leader religiosi dell’FMI degli Stati Uniti.
Mi sembra, considerate le riforme strutturali messe in campo da questo Governo, che tutto segua alla perfezione il disegno prestabilito. Poco importa del sacrificio di milioni di esseri umani. Sì, davvero “una splendida opportunità”. Anche se non è ben chiaro a favore di chi. O forse sì, dato che sappiamo con certezza a svantaggio di chi.

Qui l’articolo originale:

http://www.nytimes.com/1998/05/02/news/02iht-simpact.t.html

Euro sì; Euro no: parliamo del niente per risolvere niente


Se un’erbaccia non la si sradica, possiamo potarla tutte le volte che vogliamo: lei rispunterà sempre.

Il problema non è l’Euro, ma la nostra Cultura. Se oggi dovessi fare una campagna elettorale sui manifesti ci scriverei: “Più Cultura per tutti!”
Uscire dalla moneta unica non servirebbe a risolvere problemi che sono di natura “concorrenziale“: determinati dal mercato. Anche se tornassimo alla Lira, non potremmo mai competere con paesi come Cina, India, Africa, Sud America, eccetera, dove i costi di produzione rispetto alla “zona euro” sono infinitamente più bassi. Il problema non è la moneta unica, ma la produzione industriale a basso costo e la libera circolazione delle merci e dei capitali. La gran parte delle aziende delocalizza per andare a spendere meno sui costi di produzione. Tutte le aziende europee, e non solo, stanno delocalizzando o dimezzando il personale, certo non per colpa della moneta unica, che ha sì le sue colpe, ma è l’ultima ruota di un carro lanciato verso il burrone sociale.

La moneta unica è un mezzo a disposizione del fine. Togliendo un mezzo non cancelliamo un fine, poiché chi dispone delle possibilità economiche avrà comunque le condizioni favorevoli per trovare altri mezzi.

La favola che i nostri problemi economici derivino dall’Euro è una emerita arma di distrazione di massa che serve a far distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dal vero problema: la concorrenza. Il vero problema è la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari.

L’unica soluzione sarebbe quella di bloccare le importazioni e le esportazioni “in eccesso” (che sono tante), non indispensabili. Regolamentarle severamente, e seriamente, è l’unica soluzione che abbiamo. Una lenta e graduale riduzione delle importazioni e delle esportazioni, ad esempio alimentari, rispettando tutti i termini delle contrattazioni con le varie aziende produttrici, farebbe aumentare la domanda interna risollevando in un attimo l’economia di ogni Paese. Ad esempio, compriamo le patate fuori dall’Italia? Bene, ci sarà un contratto con l’azienda produttrice; rispettiamo quel contratto fino a scadenza e dopo non lo rinnoviamo. Le aziende agricole italiane se ne gioverebbero: aumenterebbero la produzione e la forza lavoro. Ma possiamo citare le arance, i legumi, i cereali, le carni, eccetera. I McDonald’s ne risentirebbero? Poco male. Dove chiude un McDonald apre McItaly dove si vendono soltanto hamburger nostrani e di qualità ai prezzi dettati dal potere d’acquisto interno, se proprio non ne possiamo fare a meno. E se invece possiamo farne a meno, allora lo sostituiamo con un negozio di alimentari come quelli d’una volta che stavano sotto casa, e che magari con due fette di pane fresco, fatto con soli ingredienti italiani, e due fette di un buon prosciutto crudo, fatto in allevamenti italiani, dà più soddisfazione di un panino fatto di plastica insaporita con gli antibiotici. Certo, dovrebbero farlo tutti i Paesi, ma questo è l’unico rimedio.

Se ogni nazione provvedesse a soddisfare gran parte del fabbisogno interno con le proprie risorse, l’economia nel giro di un paio d’anni rifiorirebbe. Quel che ha distrutto la nostra economia è il consumismo, ovvero la domanda di cose inutili, che non servono a niente. Il consumismo è un comportamento compulsivo, irrazionale, degradante, pericoloso per la stabilità fisica e mentale, individuale e collettiva. Oltre a far aumentare drasticamente l’inquinamento di intere aree, nonché atmosferico, inquina anche il nostro modo di pensare e di rapportarci con tutto quello che ci circonda. La globalizzazione, ossia la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari, è stata voluta dai capitalisti per incrementare illimitatamente, coerentemente con la definizione che li identifica, i loro capitali. Ritornando alla Lira non cambierebbe nulla riguardo alla produzione, all’esportazione e all’importazione delle merci, per questo molti economisti parlano di “sciagura economica” quando si riferiscono a queste nel caso in cui dovessimo tornare alla moneta nazionale. Io non penso che si possa andare incontro alla “sciagura”, semplicemente perché ciò è fuorviante, irrilevante. La sciagura è già in atto. È la produzione illimitata, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, e il conseguente nostro “stile di vita“, condizionato dalle pubblicità, dai modelli esposti e imposti ovunque, a causare sciagure economiche che evidentemente nessuno riesce a controllare e regolamentare, proprio perché le norme sono scritte in favore di chi detiene i capitali finanziari, il potere economico e sociale di intere nazioni. La politica è gestita dai capitali, non dai cittadini. La democrazia non esiste nella misura in cui non esistono regole che impongono alle multinazionali di limitare i loro profitti. Sono 85 le persone che detengono la ricchezza della metà del pianeta; ci vuole la metà restante, tutta insieme, per arrivare a fare il mucchio di soldi che hanno quelle 85 persone. È evidente la disparità, l’errata ridistribuzione della ricchezza, dei profitti. Questo non è un problema che riguarda solo la “zona euro”, ma tutto il mondo. Tutto il mondo soffre a causa di questo tipo di globalizzazione. Al contrario la globalizzazione dovrebbe essere culturale, ossia un arricchimento del nostro patrimonio identitario, comunitario ed egualitario. La globalizzazione in atto invece va nella direzione opposta, favorisce le discriminazioni poiché ci sentiamo in concorrenza fra di noi. Ce l’abbiamo con il bengalese perché apre il suo negozio in centro e fa prezzi bassissimi rispetto ai nostri, e così con i cinesi, con gli africani, gli indiani… Però, in realtà, quel che permette tutto ciò è questo modello economico. È quello che dovremmo combattere, non chi “ci porta via lavoro e case”.

Identificare il problema alla radice è l’unico rimedio a disposizione che abbiamo per estirparlo.

P.s. So che è impossibile ridurre le importazioni e le esportazioni: sono un utopista convinto. Ma non pensiamo che tornando alla Lira possa cambiare qualcosa. È una bugia pari alla profezia dei Maya.