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Euro sì; Euro no: parliamo del niente per risolvere niente


Se un’erbaccia non la si sradica, possiamo potarla tutte le volte che vogliamo: lei rispunterà sempre.

Il problema non è l’Euro, ma la nostra Cultura. Se oggi dovessi fare una campagna elettorale sui manifesti ci scriverei: “Più Cultura per tutti!”
Uscire dalla moneta unica non servirebbe a risolvere problemi che sono di natura “concorrenziale“: determinati dal mercato. Anche se tornassimo alla Lira, non potremmo mai competere con paesi come Cina, India, Africa, Sud America, eccetera, dove i costi di produzione rispetto alla “zona euro” sono infinitamente più bassi. Il problema non è la moneta unica, ma la produzione industriale a basso costo e la libera circolazione delle merci e dei capitali. La gran parte delle aziende delocalizza per andare a spendere meno sui costi di produzione. Tutte le aziende europee, e non solo, stanno delocalizzando o dimezzando il personale, certo non per colpa della moneta unica, che ha sì le sue colpe, ma è l’ultima ruota di un carro lanciato verso il burrone sociale.

La moneta unica è un mezzo a disposizione del fine. Togliendo un mezzo non cancelliamo un fine, poiché chi dispone delle possibilità economiche avrà comunque le condizioni favorevoli per trovare altri mezzi.

La favola che i nostri problemi economici derivino dall’Euro è una emerita arma di distrazione di massa che serve a far distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dal vero problema: la concorrenza. Il vero problema è la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari.

L’unica soluzione sarebbe quella di bloccare le importazioni e le esportazioni “in eccesso” (che sono tante), non indispensabili. Regolamentarle severamente, e seriamente, è l’unica soluzione che abbiamo. Una lenta e graduale riduzione delle importazioni e delle esportazioni, ad esempio alimentari, rispettando tutti i termini delle contrattazioni con le varie aziende produttrici, farebbe aumentare la domanda interna risollevando in un attimo l’economia di ogni Paese. Ad esempio, compriamo le patate fuori dall’Italia? Bene, ci sarà un contratto con l’azienda produttrice; rispettiamo quel contratto fino a scadenza e dopo non lo rinnoviamo. Le aziende agricole italiane se ne gioverebbero: aumenterebbero la produzione e la forza lavoro. Ma possiamo citare le arance, i legumi, i cereali, le carni, eccetera. I McDonald’s ne risentirebbero? Poco male. Dove chiude un McDonald apre McItaly dove si vendono soltanto hamburger nostrani e di qualità ai prezzi dettati dal potere d’acquisto interno, se proprio non ne possiamo fare a meno. E se invece possiamo farne a meno, allora lo sostituiamo con un negozio di alimentari come quelli d’una volta che stavano sotto casa, e che magari con due fette di pane fresco, fatto con soli ingredienti italiani, e due fette di un buon prosciutto crudo, fatto in allevamenti italiani, dà più soddisfazione di un panino fatto di plastica insaporita con gli antibiotici. Certo, dovrebbero farlo tutti i Paesi, ma questo è l’unico rimedio.

Se ogni nazione provvedesse a soddisfare gran parte del fabbisogno interno con le proprie risorse, l’economia nel giro di un paio d’anni rifiorirebbe. Quel che ha distrutto la nostra economia è il consumismo, ovvero la domanda di cose inutili, che non servono a niente. Il consumismo è un comportamento compulsivo, irrazionale, degradante, pericoloso per la stabilità fisica e mentale, individuale e collettiva. Oltre a far aumentare drasticamente l’inquinamento di intere aree, nonché atmosferico, inquina anche il nostro modo di pensare e di rapportarci con tutto quello che ci circonda. La globalizzazione, ossia la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari, è stata voluta dai capitalisti per incrementare illimitatamente, coerentemente con la definizione che li identifica, i loro capitali. Ritornando alla Lira non cambierebbe nulla riguardo alla produzione, all’esportazione e all’importazione delle merci, per questo molti economisti parlano di “sciagura economica” quando si riferiscono a queste nel caso in cui dovessimo tornare alla moneta nazionale. Io non penso che si possa andare incontro alla “sciagura”, semplicemente perché ciò è fuorviante, irrilevante. La sciagura è già in atto. È la produzione illimitata, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, e il conseguente nostro “stile di vita“, condizionato dalle pubblicità, dai modelli esposti e imposti ovunque, a causare sciagure economiche che evidentemente nessuno riesce a controllare e regolamentare, proprio perché le norme sono scritte in favore di chi detiene i capitali finanziari, il potere economico e sociale di intere nazioni. La politica è gestita dai capitali, non dai cittadini. La democrazia non esiste nella misura in cui non esistono regole che impongono alle multinazionali di limitare i loro profitti. Sono 85 le persone che detengono la ricchezza della metà del pianeta; ci vuole la metà restante, tutta insieme, per arrivare a fare il mucchio di soldi che hanno quelle 85 persone. È evidente la disparità, l’errata ridistribuzione della ricchezza, dei profitti. Questo non è un problema che riguarda solo la “zona euro”, ma tutto il mondo. Tutto il mondo soffre a causa di questo tipo di globalizzazione. Al contrario la globalizzazione dovrebbe essere culturale, ossia un arricchimento del nostro patrimonio identitario, comunitario ed egualitario. La globalizzazione in atto invece va nella direzione opposta, favorisce le discriminazioni poiché ci sentiamo in concorrenza fra di noi. Ce l’abbiamo con il bengalese perché apre il suo negozio in centro e fa prezzi bassissimi rispetto ai nostri, e così con i cinesi, con gli africani, gli indiani… Però, in realtà, quel che permette tutto ciò è questo modello economico. È quello che dovremmo combattere, non chi “ci porta via lavoro e case”.

Identificare il problema alla radice è l’unico rimedio a disposizione che abbiamo per estirparlo.

P.s. So che è impossibile ridurre le importazioni e le esportazioni: sono un utopista convinto. Ma non pensiamo che tornando alla Lira possa cambiare qualcosa. È una bugia pari alla profezia dei Maya.

L’ignorante insensibile


Ci sono persone che hanno un’insensibilità e un’ignoranza tali da essere inarrivabili.

L’ignoranza non è sinonimo di insensibilità, ma un suo rinforzo. E quando sono insieme tale è la loro forza che non conoscono, giacché non li possono riconoscere, avversari. Avversari che dovrebbero essere proprio ignoranza e insensibilità. E come potrebbero mai identificarli, se quando si guardano allo specchio passano il tempo ad elogiarsi, ad autocelebrarsi, ad applaudirsi, a vantarsi, a dirsi quanto sono capaci nelle loro faccende e nei loro pensieri? Mai una critica che sia una; mai un dubbio. Solo certezze. Certi di essere la qualità migliore che si possa desiderare da se stessi, e anzi, non provate mai a far notare loro quando sbagliano, poiché accettano una critica solo quando questa fa risaltare la supremazia che ritengono di possedere e alla quale in ogni caso vanno ambendo. Provate a dir loro che tutti gli esseri umani hanno pari dignità e pari diritti; lo sottoscriveranno con determinazione, salvo poi aggiungere, con spiccato senso di patriottismo e nazionalismo, ovvero escludendo a priori tutti coloro che non fanno parte della loro Patria, che pur essendo esseri umani, gli “stranieri” (ma solo quelli provenienti da determinati territori) non meritano di essere soccorsi poiché “ci rubano lavoro e case”. Provate a dir loro che la violenza sulle donne è diabolico; faranno i salti mortali per corroborare questa affermazione, salvo poi infischiarsene se tutte le donne che cercano aiuto sulle nostre, loro, e le loro figlie, vengono ripetutamente violentate nei “lontani” Paesi d’origine.

Bene, oggi e sempre, auguro a tutti coloro che si riempiono la bocca della Costituzione italiana, per chissà quale incomprensibile motivo, di non trovarsi mai nella condizione di dover abbandonare questa Patria, che tanto amano e sbandierano come segno distintivo di egemonia razziale, e di non subire mai le torture dalle quali scappano tutti coloro che sbarcano sulle nostre coste.

L’articolo 3 della nostra Costituzione recita così:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Il compito della Repubblica è quello di non alimentare le discriminazioni, e di operare in modo tale che “tutti i popoli” possano raggiungere l’eguaglianza sociale e pari dignità. “Tutti i popoli”, dal momento che oggi nessuno Stato è svincolato dall’altro, e tutti sono legati fra loro per ragioni di ordine economico-commerciale. Quando compriamo un diamante dobbiamo avere la consapevolezza che con quel gesto contribuiamo a far distruggere un territorio e a far sfruttare un bambino, costretto alla schiavitù per sopravvivere. Quando accendiamo un fornello, o i caloriferi, o una lampadina, o facciamo il pieno di benzina, dobbiamo essere consapevoli del fatto che queste comodità devastano interi territori nei “Paesi in via di sviluppo” (un ossimoro), lasciando quei popoli nella miseria e nelle malattie più terribili che si possano immaginare. Una Repubblica che permette tutto ciò non adempie a quanto sancito nella Costituzione, e favorisce il proliferare di un disordine mentale e sociale che appunto non ha niente di ragionevole. Ci sono partiti come la Lega Nord che campano alla luce del sole grazie a questi disordini, e altri che lo fanno subdolamente, ma ognuno di loro è accomunato dal fatto che si guardano bene dallo spiegare le ragioni per le quali questi popoli cercano la salvezza sulle nostre coste. Nessuno di loro mette mai in luce la necessità di cambiare le politiche economiche internazionali, poiché sono i primi ad arricchirsi, attraverso le loro multinazionali, da tali scempi.

Prendete il Governo italiano attuale, e le nomine che sono state appena fatte nelle società dello Stato: sono tutti privati imprenditori, con i loro legali e commercialisti al seguito, che hanno interessi miliardari nei Paesi più poveri della terra. Invito a verificare ogni nomina per avere un’idea degli interessi privati che ognuna ha, al di là delle dichiarazioni che i diretti interessati rilasciano. Ecco, in un clima politico del genere, l'”ignorante insensibile” continuerà a rafforzare l’opinione (“l’opinione infondata”) che ha nei confronti di coloro che sbarcano sulle nostre coste, e i partiti saranno lì pronti per prenderseli a braccetto e ad incrementare i loro sporchi affari sulla pelle di povera gente che non ha colpe, rassicurandoli che prima o poi prenderanno l’estrema decisione di affondarli in mare prima che riescano a raggiungere la nostra tanto amata Patria; perché la “persona umana” citata nella tanto sbandierata Costituzione, secondo loro, è solo quella che abita entro i nostri confini. E solo quella merita il diritto a una vita dignitosa.

Se esiste un Terzo Mondo, quello è presente nella testa di chi crede di avere la supremazia esistenziale; è vivo nelle menti di tutti coloro che al mattino si guardano allo specchio per celebrare se stessi, e non per cercare di comprendere gli altri attraverso sé, e i propri errori.

L’industria dei consumi


Dovrebbe essere ovvio che tutta questa insistenza sulla necessità di smaltire gli oggetti, abbandonarli, liberarsene, invece che sull’appropriarsene, si adatta alla perfezione alla logica della nostra economia orientata al consumatore. Se la gente si tenesse stretti i vestiti, i computer, gli smartphone o i cosmetici di ieri sarebbe un disastro (e lo è) per un’economia la cui preoccupazione principale, la condizione della sua sopravvivenza, è destinare in tempi rapidi e sempre più serrati i prodotti al “consumatore”, che acquista e vende ormai vicino ai cassonetti della spazzatura; e in un’economia come questa, la velocità di smaltimento dei rifiuti è (dovrebbe essere) l’industria di punta. Ma non è così, quando a mettere le mani su questa sono corrotti e corruttori. La “Terra dei fuochi” è (dovrebbe essere) per noi emblematica; e anche se a prima vista potrebbe sembrare che nelle nostre coscienze tutto questo passi senza lasciare alcuna traccia, è in realtà quanto di più sbagliato si possa pensare: i rifiuti non sono soltanto le confezioni di ciò che acquistiamo e consumiamo; sono tutto ciò che prepotenza, avidità, egoismo e incoscienza fabbricano ogni volta che ci spingono ad oltrepassare i limiti del buon senso e del bene comune, perciò, inevitabilmente, inesorabilmente, sedimentano in noi, rendendo comportamenti illogici, irrazionali e impulsivi normali abitudini, inquinando la nostra coscienza e il nostro senso di appartenenza e di rispetto altrui; nonostante l’industria dello spettacolo e del divertimento si prodighi, ovviamente, per convincerci del contrario.

Catastrofi di Stato


Se le catastrofi naturali non sono (dichiaratamente, per definizione) un prodotto dell’uomo, la successiva sciattezza degli uomini certamente lo è. La vera catastrofe, dopo una catastrofe naturale, è la trascuratezza dello Stato nel far fronte alle sue conseguenze. Negare il sostegno a chi è stato colpito dalla mano della natura, nel tempo a venire, è la vera tragedia che si abbatte sull’uomo, poiché di sua mano, irresponsabilmente, ne amplifica l’impatto distruttivo, morale, materiale, psicologico, esistenziale. Abbiamo imparato, a nostre spese, che una catastrofe non dura mai il tempo che passa ad abbattersi sull’uomo. Oggi abbiamo smesso di attribuire a Dio la colpa per lo stato del mondo, e la moderna comprensione delle responsabilità, grazie alla scienza, ci fa essere in grado di farle ricadere sull’uomo, ma paradossalmente possiamo constatare come l’essere umano invece neghi di volersele assumere. La moderna concezione dell’esistenza è stata sviluppata nel tentativo di razionalizzare eventi catastrofici che in precedenza ci erano incomprensibili, introducendoci in una società costruita e modellata a immagine e somiglianza dell’ingegno, e delle più profonde fantasie, estrosità, nonché paure, dell’uomo. Secondo questo principio di costituzione e costruzione della società – sulla base degli eventi passati – l’uomo moderno avrebbe dovuto essere preparato ad affrontare, quantomeno, molti dei cataclismi che sempre con maggior frequenza si abbattono sulla sua testa, invece, nel tentativo di ripararsi dietro alla “casualità” e alla “cecità” degli eventi climatici, nega la possibilità di ammettere che possa esserci un rimedio “preventivo“. Il mantra è sempre lo stesso: non esiste alternativa. È più che certo che nessuno è in grado di prevedere quando, dove, e con quale forza distruttiva un evento catastrofico possa abbattersi su di noi, ma è pur vero che gran parte della comunità scientifica concorda nel sentenziare che la causa della frequenza con la quale negli ultimi anni si sono verificate immani tragedie, sia da attribuirsi alla mano dell’uomo: l’eccessivo inquinamento con conseguente aumento delle temperature, la cementificazione di intere aree che avremmo dovuto invece proteggere e tenere lontane dalle mani dei costruttori omicida, sono solo alcune delle principali cause che scatenano la reazione chimica, sempre meno indulgente, della natura.
Ogni volta che veniamo a conoscenza di catastrofi abbattutesi in qualche parte del pianeta, accade che la macchina sociale, gli eserciti, le protezioni civili, la Croce Rossa, e quant’altro serva a tirar su assistenza, come su un campo di battaglia, si mettono in moto e lavorano incessantemente per dare aiuto e sostegno, materiale e morale, alle vittime; e si mettono in moto, come un ingranaggio di un orologio che ha appena ricevuta la carica, campagne mediatiche per inviare un contributo economico, e di seguito i quotidiani ci informano sulla situazione in “stile bollettino di guerra”: vittime, sopravvissuti, sciacallaggio, e una lunga lista del necessario, che non abbonda mai, anzi. Questo va avanti per giorni, anche settimane, persino mesi, quando poi, tutt’a un tratto, i titoli in prima pagina iniziano a cambiare, e ritroviamo quelli della tragedia in seconda, in terza, in un cammino inesorabile fino alla cronaca locale, per poi scomparire definitivamente del tutto. Quello che avviene nei mesi, negli anni successivi è una routine: documentari, speciali una tantum, frammenti di denunce per sensibilizzare l’opinione pubblica sullo Stato assente… Eh già, perché anch’esso, puntuale come un’orologio scarico, come fossero sincronizzati, più o meno volutamente non spetta a me dirlo, ma ai fatti, nel momento in cui l’attenzione mediatica inizia come d’abitudine la sua omertà, i suoi silenzi, e torna a interessarsi di come tenere a bada l’opinione pubblica e il consenso verso le istituzioni additate come “assenti“, le vittime dei cataclismi iniziano la loro discesa implacabile verso l’emarginazione, passando attraverso una fitta nebbia, che è solo l’anticamera dell’oblio dove verranno – è il caso di dirlo – deportate definitivamente. Immersi nella nebbia, per densa o rada che sia, si può vedere solo fino a una certa distanza, ma quanto più l’attenzione diminuisce, tanto più questa s’infittisce attorno a chi ne è “Stato” circondato. Trovo inutile, oltre che riduttivo, citare qui le catastrofi naturali susseguitesi in questi ultimi decenni, e trovo difficile, non certo solo per motivi di spazio, documentare il numero di famiglie lasciate sole, nella nebbia, dove, alla fine, non si vede a un passo lo Stato, che non manca mai di dichiarare lo “stato di emergenza“, ma che manca sempre, con la spietata sfrontatezza dei suoi silenzi, di dichiarare, e ammettere, lo “stato di responsabilità“, o per meglio dire la “responsabilità di Stato“.
La domanda è nascosta, o piuttosto non scritta ma implicita, e alla fine retorica, ed è sempre la stessa (ma solo questa conosco e riconosco utile alla razionalizzazione): perché?

Cambiare


Il mondo cambia, si trasforma, corre… Ma in che modo? E corre verso quale direzione? Badiamo bene che l’Italia è un paese tecnologicamente arretrato, oltre che culturalmente involuto, ma il cambiamento che ci propinano i “nuovi” sceneggiatori della politica siamo sicuri sia riferito a un cambiamento culturale, sociale e tecnologicamente evoluto, senza discriminazioni di alcun tipo, o è piuttosto a quel cambiamento che tutti gli Stati occidentalizzati e “occidentalizzandi” vanno rincorrendo, ossia la globalizzazione dei mercati finanziari, mediatici, il consumismo sfrenato, quindi culturalmente degradanti, a cui si fa riferimento? “Cambiamento” è un concetto-contenitore del tutto aperto, e ognuno è libero di riempirlo con quello che più desidera trovarci; racchiude in sé un’infinità di aspettative, che se dato in pasto all’elettorato addestrato efficacemente attraverso i mezzi di comunicazione a pensare che per cambiare sia necessario correre, inseguire, stare al passo, nel momento in cui arriva qualcuno che sembra avere tutte queste caratteristiche (che non sono necessariamente qualità), ecco che pensiamo di aver trovato il salvatore della patria. Il mondo corre, si trasforma, e non accenna rallentamenti o soste, perciò inseguirlo significherebbe non raggiungerlo mai. Un cambiamento richiede sopra ogni cosa “consapevolezza“, e noi siamo davvero certi di essere consapevoli del cambiamento del quale siamo sempre più spettatori passivi? Di che genere di cambiamento parliamo? Quando sentiamo dire che il mondo corre mentre noi rimaniamo indietro, che si vuol far intendere con ciò? Che anche noi dovremmo tenere il passo adattandoci alle regole dei mercati globali? Che anche noi dovremmo investire sfruttando al massimo il nostro territorio depredandolo di tutte le risorse di cui dispone per trarne il maggior profitto economico possibile? Che dovremmo deturpare anche noi il paesaggio poiché è questo il (giusto?) prezzo da pagare per il cambiamento e per rincorrere la globalizzazione? È una contraddizione in termini pedonalizzare un centro cittadino e allo stesso tempo agevolare le politiche dettate dal mondo finanziario, quello stesso mondo che ci ha immersi nella crisi economico/culturale che stiamo subendo. Questo andrebbe compreso.
Che genere di cambiamento abbiamo in mente quando pensiamo al cambiamento? Non si conosce il modo in cui le persone immaginano il “mondo-dopo il cambiamento“, né sappiamo se ne abbiano una visione chiara. Votare per il cambiamento significa scappare da qualcosa, ma questa fuga non ci dice molto sul dove vogliono andare, e ancora di meno sul dove correranno una volta che la febbre per il cambiamento si sarà abbassata e la realtà, vecchia e nuova, dovrà essere affrontata da zero. Ed è da qui che il compito degli amministratori si farà difficile, poiché impedire che le speranze degli elettori si trasformino in frustrazione sarà davvero un compito arduo. Forse mai come prima nella storia dell’umanità.
Per me il cambiamento è restare immobili in mezzo a un mondo che si deforma, degrada e consuma; per me il cambiamento è combattere contro chi, in nome della globalizzazione, priva gli esseri umani dei diritti fondamentali, di una vita dignitosa; per me il cambiamento è ritrovare nei valori del passato quei pregi e quel senso di comunità che abbiamo completamente dimenticato; per me il cambiamento è fare tesoro del passato per migliorare il presente e costruire un futuro per tutti senza discriminazioni; per me il cambiamento è riuscire a comprendere che questo mondo va a rotoli perché c’è chi vuol cambiare solo il suo conto in banca.
Dobbiamo prima cambiare il nostro stile di vita, il nostro approccio verso le informazioni e le pubblicità che ci investono, e recepire il mondo non come un pianeta sul quale correre e consumare terreno, ma come un paesaggio da ponderare e proteggere. Ricordandoci anche che non a tutti gli esseri umani piace correre, perciò lasciarli indietro, come del resto sta accadendo, è una enorme, profonda discriminazione. “Il mondo è bello perché è vario”, ma dobbiamo anche difenderle e rispettarle queste varietà.

A questo proposito rimando la riflessione a questo articolo.

Degrado esistenziale


Chi siamo? Che ci facciamo su questa terra, in mezzo a quest’universo infinito e sconosciuto? Qual è lo scopo della nostra esistenza? Come è successo tutto questo? Il Big Bang, l’espansione e l’evoluzione di miliardi di milioni di miliardi di milioni di miliardi eccetera di tonnellate di materia e particelle subatomiche che hanno dato origine al nostro universo così come lo conosciamo, sono spiegazioni che non bastano a dare risposte a domande che ci poniamo da millenni. Questa è la parte scientifica, che non spiega i tanti “perché”, ma solo i “come”. Ci sono voluti miliardi di anni per creare questa terra, in questa parte infinitesimale dell’universo che ci inghiotte nel nulla più assoluto, e fra i miliardi e miliardi di pianeti presenti nella nostra galassia sappiamo, o possiamo affermare con determinazione, entro i confini della nostra conoscenza, di essere una presenza quantomeno rara in quest’infinito vuoto apparente.
Oggi la scienza moderna, con i suoi paradossi, gli enigmi della teoria della relatività, della meccanica quantistica e del mondo submicroscopico, trova armonia con lo spirito e la saggezza del passato, con le teorie dei filosofi greci così come con le filosofie orientali.
Ci sono sensazioni, emozioni, pensieri, domande, che tutti noi in un modo o nell’altro cerchiamo di definire, di comprendere, spinti da qualcosa che sentiamo dentro, come fa un bambino appena nato che per la prima volta si attacca al seno e inizia a succhiare latte come lo avesse fatto sempre. È istinto primordiale, desiderio di vivere, di esistere, pur non sapendo cosa ci riserverà il futuro. Abbiamo l’ambizione di vivere, vogliamo crescere, conoscere, sognare… ci evolviamo.

L’evoluzione darwiniana, l’evoluzione esistenziale, l’evoluzione scientifica, l’evoluzione dell’universo: ogni cosa si evolve, e noi siamo il risultato di un processo evolutivo complesso che non si riduce alla sola rigenerazione cellulare, ma a quella dell’universo intero, e nel nostro corpo, nelle nostre cellule, nel nostro DNA, sono impresse tutte quelle informazioni che derivano dal passato, come del resto è stato dimostrato in uno studio recente. Così come la luna determina le basse e le alte maree, lo spazio che ci circonda definisce e condiziona la nostra esistenza.

In realtà, a chi interessa più farsi domande sull’esistenza? Il benessere materiale di cui siamo circondati è un ottimo sostituto, riempie i nostri pensieri, suggerisce scelte, indica direzioni, ci dice dove andare facendoci fare il minimo sforzo possibile; ci dice chi siamo e dove stiamo andando. Miliardi di anni passati ad evolverci per ridurre tutto ad un senso di appagatezza lussureggiante, effimero, dotato di ogni genere di comfort che come un placebo non esistono se non nelle nostre convinzioni. I nostri nonni, nell'”ignoranza” di un epoca tecnologicamente poco sviluppata, avevano inconsapevolmente la consapevolezza armoniosa della vita e della morte. Sapevano che il raggiungimento del benessere era al primo posto tra gli scopi dell’esistenza, e sapevano bene, quindi, che tutto il loro lavoro, tutte le loro scelte e azioni avevano come unico scopo la prosecuzione della specie umana in una società migliore, senza guerre e povertà. Di certo, nessuno si aspettava che questo benessere si sarebbe trasformato in indigenza, in miseria esistenziale, sotto tutti i profili. Lo sapevano però i grandi industriali, chi finanziava la ricerca e lo sviluppo tecnologico per aumentare la quantità produttiva tralasciandone la qualità e ampliare così il loro raggio di vendite. E lo sapevano i grandi pensatori, che non hanno mai mancato, dall’inizio della prima Rivoluzione Industriale, dalla nascita del capitalismo, di evidenziare le profonde lacune della società che oggi abitiamo. E non si doveva certo essere profeti per prevedere che saremmo arrivati a questo. Non sono mai stati presi in considerazione, accecati dall’accumulo indefinito di ricchezza materiale.
Il risultato che abbiamo ottenuto è più cattivo che buono, più inutile che utile, più distruttivo che costruttivo, più degradante che decoroso. Non è un buon risultato.

Sappiamo bene che la nostra presenza qui, su questa terra, è limitata nel tempo e che dopo sarà il turno delle generazioni successive. Non possiamo farci niente, è una condizione esistenziale che constatiamo nell’arco della nostra vita quando la morte ci separa da un familiare, un parente, un amico, un conoscente. Sappiamo che arriverà anche il nostro turno, ma facciamo di tutto per allontanare da noi quest’unica certezza esistenziale. Sostituiamo i nostri “cattivi” pensieri con azioni che ci appagano materialmente, compriamo cose che fanno assumere al tempo un valore astratto, impalpabile, concezione, questa, che ci viene introiettata sistematicamente.
Se pensiamo che il benessere esistenziale derivi tutto dal benessere fisico vuol dire stiamo andando nella direzione sbagliata.
Si stima che la produzione di beni materiali dell’intero globo potrebbe soddisfare le esigenze di ogni singolo individuo, invece nei paesi dove si producono maggiormente questi beni la popolazione versa in una condizione di assoluta povertà, degrado e arretratezza. Un degrado che produciamo noi, che ci definiamo con grande senso di appartenenza etnica “sviluppati”.
Se pensiamo che lo scopo della nostra vita sia quello di sfruttare al massimo le risorse di cui disponiamo, che non sono illimitate, allora non stiamo salvaguardando la prosecuzione della nostra specie. Stiamo andando nella direzione dell’autodistruzione, e non ne comprendiamo i motivi, non percepiamo i risultati delle nostre azioni, e crediamo di arrivare in punto di morte senza lasciare conseguenze negative del nostro passaggio. Il mondo va a rotoli, i sistemi economici mondiali non viaggiano più su linee parallele alla vita sociale; sono su un altro livello, in un’altra dimensione, e il denaro, strumento economico sociale, mezzo di scambio che ha sempre caratterizzato la nostra civiltà, è diventato etereo, invisibile, impalpabile. I sistemi economici moderni si muovono in rete, nessuno più riempie banche con contante; sono macroeconomie che provocano solo l’aumento dei consumi, della produttività e dell’occupazione a basso costo. Noi non comprendiamo certe questioni, o almeno questo è quello che implicitamente ci viene “insegnato”. Parlare di miliardi che si muovono senza muoversi per noi comuni mortali equivale a parlare di meccanica quantistica. Siamo in una dimensione differente da quella economica, siamo quelli che con le nostre domande, i nostri pseudo-desideri, allontaniamo il contatto con la realtà che ci circonda. Non sentiamo più il valore dello scambio commerciale, ci poniamo superficialmente quando facciamo un acquisto poiché altri si interpongono al nostro posto spingendoci a fare determinate scelte in piena condizione eteronoma. Desideriamo solo averla. Come fosse un desiderio normale, consueto, scontato.
Un popolo non vive di PIL, e anche se a questa frase siamo abituati, dovremmo metterci lì e rifletterci sopra, poiché in quella frase è racchiuso il nostro futuro e quello dei nostri figli. È dimostrato sotto tutti i profili filosofici, scientifici, economici, che il PIL e il benessere individuale non hanno alcuna relazione fra loro, ciononostante ci riempiono le orecchie di spread, di pressione fiscale, di politica di austerità, di debito, di credito, di titoli di stato, di borsa, di investimenti, ristrutturazioni economiche, come se questi condizionassero positivamente o negativamente la realtà della nostra vita. In realtà “avvantaggia” oltremisura chi sfrutta l’incapacità nel dare valore alla vita e alle scelte che facciamo, indotte e alimentate da essi.
È un’epoca in cui l’immagine vuole prevalere sulla parola e sulla logicità e onestà di questa, dove la confezione prevale sul contenuto, il corpo sullo spirito. È un’epoca davvero frustrante.

Quell’amore verso la terra, la vita, si è trasformato in fame bulimica, stressante, snervante, e gran parte di quel che facciamo, così come siamo stati indottrinati a fare, si è ridotto a consumare, comprare, produrre, credendo di appagare così il nostro senso esistenziale, il nostro desiderio di vivere una vita degna di essere vissuta, e soprattutto di farla vivere a chi non vuole, a chi non accetta di accomunare il benessere con il PIL. Siamo nel più completo degrado esistenziale.

Tempi moderni


Si ha l’accezione che la società sia incapace di organizzarsi e interagire, come invece avviene nelle comunità locali, che debba quindi essere consigliata necessariamente da qualcuno, e che naturalmente abbia bisogno di esser guidata da un ristretto e privilegiato numero di persone, semplicemente perché la storia antropologica sociale ci racconta questo. Secondo la logica evolutiva, di fatto, esseri umani e animali vivono le loro esistenze basandole su società strutturate gerarchicamente con la funzione di definire ruoli, stabilire regole di convivenza, organizzare le classi sociali e, in particolare nell’uomo, servirsi di simboli intersoggettivi (religiosi, sociali, culturali, etnici) in grado di indicare una direzione, un ideale condiviso da un gruppo. Tutto vero, ovviamente. Ogni epoca è stata caratterizzata da società strutturate gerarchicamente. Generalmente a definire le classi sociali sono le succitate persone privilegiate. Esse, grazie alle conoscenze acquisite proprio per la loro posizione privilegiata (non hanno problemi economici a mandar i loro figli nelle scuole più prestigiose e hanno più facilità nel trovare lavoro nell’ambito dei loro ceti), hanno deciso e decidono il corso della storia dell’uomo, organizzandolo, educandolo, e impartendogli ordini. Sempre la storia ci insegna che solo quando l’oppressione raggiunge metodi insostenibili, nelle società si verificano situazioni in cui gli individui prendono coscienza di sé. In termini marxisti (più moderni) questa consapevolezza viene definita “coscienza di classe”. Le classi sociali più basse prendono coscienza della loro condizione, le ingerenze non vengono più sopportate e si ribellano. È un meccanismo, anche questo, connaturato nell’essere umano. Nelle società moderne questo comportamento fa grande fatica a presentarsi. La debolezza e la superficialità con cui ci poniamo verso la concezione dell’esistenza rallenta, e spesso sopprime sul nascere, segnali di rivolta servendosi di metodi che non erano a disposizione in passato, come la psicologia e il conglomerato dell’informazione. Indebolire psicologicamente il nemico vuol dire aver già vinto metà della battaglia.
Mi chiedo se davvero è possibile far funzionare una società senza differenziazioni sociali.
Ci viene raccontato che la globalizzazione avrebbe dovuto portare uniformizzazione dei consumi e dei modelli culturali, ma nei fatti ci ha condotto verso il consumismo più sfrenato, potendo avere a disposizione qualunque genere di cosa proveniente da qualunque parte del mondo. Questo ha provocato l’aumento della produzione, quindi maggior consumo di risorse e l’aumento dell’inquinamento dovuto in gran parte al trasporto delle merci. Su questo fronte l’essere umano ha fallito, scegliendo un modello di società che amplifica enormemente le differenze fra le varie etnie, per non parlare del grave disequilibrio tra i vari ceti. Chi apparteneva il cosiddetto ceto medio adesso si ritrova di svariati gradini sotto, mentre chi già era ai livelli inferiori ha la sensazione di non esistere più. Non è difficile notare che le popolazioni a fatica riescono a far sentire i loro disagi e la loro rabbia. Quando i mass-media smettono di interessarsi di un problema, possiamo stare sicuri che quel problema scomparirà anche dai nostri pensieri. Da quando è iniziata questa crisi economica abbiamo sentito parlare esperti, luminari, scienziati, premi Nobel, santoni, sensitivi, economisti di ogni genere, cultura e religione, preti, papi, presentatori, show man, politici, maghi, netturbini, calzolai e schiaccianoci! Sono anni che l’informazione ci dà appuntamento al giorno dopo. Sono anni che ci viene detto “questo si può fare”, “domani ci sediamo a un tavolo”, “abbiamo presentato una proposta”, ma soprattutto sono anni che sentiamo dire che “la colpa è tutta sua”. Solo che non si è ancora capito chi è “costui”, e perché tutti dicono la stessa cosa.
La repressione della rabbia, del disagio, della drammaticità in cui versano gran parte delle società mondiali viene fatta con metodo e sistematicità, con un’organizzazione meticolosa di cui non ci rendiamo conto. Sappiamo di star male, lo diciamo, ne parliamo con i nostri amici, con i nostri conoscenti, col passante, col panaio, con la commessa del supermercato, col barista, col fruttivendolo, col tabaccaio, con l’impiegata delle poste, con le persone in coda alle poste! Ne parliamo continuamente, poi torniamo a casa, accendiamo la tivù per sapere cosa è accaduto durante il giorno, guardiamo un tg o aspettiamo il giornale del mattino, ma tutti dicono la stessa cosa, tutti i giorni, incessantemente, inesorabilmente, inquietantemente. Giornalisti che criticano alcuni politici, alcuni politici che criticano giornalisti, politici che criticano la legge ma non la cambiano, domande senza risposta, visioni personali dei fatti, opinioni imbarazzanti, analisi scientifiche di qualunque frase venga pronunciata da chiunque si trovi sotto il fuoco di un microfono o di una telecamera; esperti del comportamento e del linguaggio che si affannano per dire la loro, che sovraffollano il già gremito palco delle analisi ideologiche.
Sarebbe ora di fare un po’ di silenzio, oppure di dare veramente parola a chi se lo merita. Il merito è un altro argomento su cui riflettere più approfonditamente, perché non concerne solo nell’ambito delle virtù e delle capacità individuali. Il concetto di merito non è disciplinato da norme giuridiche; sostanzialmente esprime un’attività del tutto discrezionale, compie valutazioni ed apprezzamenti circa l’opportunità, l’utilità, la convenienza e la giustizia di una certa scelta. Il merito non è l'”X-Factor”. Quanta giustizia c’è nel voler rendere la società indecifrabile? E quanta nel lasciare che questo accada?

Nella storia, si sono avute circa cinquemila società diverse, classificate in base a vari criteri fra i quali: il tipo di religione, le forme dell’economia, il linguaggio, l’istituzione dominate. Questa è la peggiore in termini di libertà psicologica.

Ci sono però segnali positivi.

In tempi recenti si è visto che non è necessario il contatto fisico o la vicinanza geografica per creare un’identità comunitaria, se ci sono comunicazioni efficienti e comuni obiettivi. Si sono, ad esempio, create delle comunità virtuali tramite internet. C’è chi afferma che le suddette comunità virtuali sono frutto di scelte ben precise degli utenti, i quali possono quindi, volendo, entrare e uscirne a loro piacimento, e andare a far parte di altre comunità senza particolari problemi e in tempi ristretti, perdendo così parte del concetto stesso di comunità e facendo in modo che le regole applicabili allo studio delle comunità “materiali” (comunità locali su tutte) non siano universalmente applicabili alle nuove comunità virtuali. Non ci sono ancora studi universalmente riconosciuti riguardo la funzionalità o meno di un modello di società come questo, sappiamo solo che il merito a cui ho fatto riferimento sopra, se lo stanno riprendendo con intelligenza e scrupolo tutti quelli che lo meritano veramente (è il caso di dirlo) e che la storia ha sempre soppresso: gli ultimi. Staremo a guardare. Ma nel frattempo vorrei la smettessero tutti di servirsi dei mezzi di informazione come strumento narciso andando a professare h24 di avere la coscienza pulita. Vorrei si facesse un po’ di silenzio, e che si mettessero a lavorare chi veramente vuole migliorare questa società, e non chi vuole distruggerla proseguendo un modello dichiaratamente fallimentare. Il problema è riuscire a prendere coscienza, e comprendere a chi dare questo merito.

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La società dei consumi


La società dei consumi è impensabile senza la deforestazione, il deterioramento, la distruzione ambientale dovuti all’estrazione di combustibili fossili. È impensabile senza la distruzione dell’intero ecosistema marino dove ogni anno vengono sversate milioni di tonnellate di agenti inquinanti e rifiuti di ogni genere. È impensabile senza una struttura industriale sorretta da forza lavoro a basso costo, possibilmente senza diritti e senza impegni familiari, costretta per sopravvivere a soddisfare i desideri ossessivo-compulsivi dei consumatori. È impensabile senza consumatori incoscienti e inconsapevoli. La società dei consumi è impensabile senza una sensibilità fatta consumare nell’ego.
Allora tanto meglio non pensarci. È più semplice conformarsi al sistema, adattarsi, non opporsi, soprassedere, delegare, fregarsene, accettare, rassegnarsi, stare a guardare.