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Spirito di contraddizione


La nostra è un’esistenza che contraddice se stessa, in preda all’ansia da prestazione, in perpetua aspettativa di un’occasione da non perdere, fra le infinite che il Paese delle Meraviglie ci destina.Aspettiamo di svegliarci per sognare e di sognare per vivere il mondo reale, che ci sia data la caccia per nasconderci o combattere, che il mondo ci si riversi contro per reagire alle sue ingiustizie, di soffrire per non dover soffrire più, di essere felici per ignorare le altrui sofferenze, di avere fede, quando in verità siamo tutti atei, che l’ambiente si risani, quando poi siamo i primi a rovinarlo, che la società torni ad essere una comunità, quando invece ognuno nei fatti pensa per sé. Amiamo fare la guerra per avere pace, fare beneficenza a patto che nessuno bussi alle nostre porte, e contemplare in solitudine paesaggi deserti non per sentirci parte di un tutto sterminato, ma perché intimamente non sopportiamo l’idea di condividerli. Non amiamo essere considerati razzisti, giacché gli esseri umani son tutti uguali: davanti alla Legge, alle Tasse, alla Dignità, alle Necessità, all’Esistenza, purché i figli dell’amata Patria abbiano la precedenza di fronte alle indigenze. Parliamo tutti d’amore, ma solo perché tutti ci odiamo. Ti amo, anzi no: ti odio. Non amiamo la polvere, la sporcizia, l’incuria e privilegiamo le cure alternative, perciò puliamo e lucidiamo, verniciamo e inceriamo, disinfettiamo e depuriamo, ma gli spazi in comune sono discariche a cielo aperto, assumiamo farmaci attraverso il cibo, ci imbottiamo di antidepressivi, antinfiammatori, analgesici e integratori dietetici. Non ci consideriamo superiori, però bisogna ammettere che da lassù c’è una vista migliore. Facciamo tutto alla luce del sole, non abbiamo bisogno di nasconderci, tuttavia la nostra privacy è sacra, salvo poi esporla sulla bacheca pubblica di un social, giacché sappiamo ben distinguere la vita reale da quella virtuale… Viviamo alla giornata, poiché il Futuro è un’incognita: nella vita, è cosa arcinota, non si può mai sapere… Però speriamo tutti in un futuro migliore, perché la speranza, quella no, non va mai perduta. Ma al tempo stesso il Destino va costruito, creato, agevolato, sollecitato, e allora siamo noi i Padroni del Nostro Destino, pur essendo l’unico elemento sul quale sappiamo di non esercitare alcun potere… anzi sì, perché sono le occasioni che cerchiamo e rincorriamo con ansia a costituirlo; anzi no, perché il futuro è un’incognita: una disgrazia, un intoppo inaspettato, un ostacolo non segnalato sul cammino e finisce tutto, pertanto bisogna vivere alla giornata; anzi sì, perché “volere è potere”; anzi no, perché chi s’accontenta gode; anzi sì, perché nella vita bisogna rischiare e aspirare sempre a qualcosa di più. Insomma, chi fa da sé fa per tre, ma insieme è meglio, però da soli lo è ancora di più, che sennò poi si deve tener conto anche delle esigenze degli altri… Però la solidarietà è cosa buona; anzi no, che poi se gli dai un dito si prendono tutto il braccio.

Oggi piove, anzi no, o forse sì, mah…, a dire il vero non saprei… Chi guarda il cielo e poi mi fa sapere?

La pazienza


Et ex hac parte – dice Tommaso d’Aquino – habet affinitatem cum fortitudine patientia.” La pazienza, in quanto parte della fortezza, è virtù attiva: sarebbe un grave errore confonderla con la pura e semplice rassegnazione. L’uomo paziente non si adatta al dolore, ma lo governa; soprattutto non lo accetta come una condizione definitiva.
Salvatore Natoli da “Dizionario dei vizi e delle virtù” ed. Feltrinelli pag. 104

L’autocelebrazione


L’autocelebrazione inganna l’autostima; è l’ammirazione verso il contenitore alienato dal contenuto. È il comportamento artificioso con cui il narcisismo esprime se stesso; è specchiarsi per guardarsi intorno agli occhi. È l’autoscatto degenerato in selfie. È la perversione del sé. È la convinzione di essere speciali emulando un mondo di replicanti. È pretendere il riconoscimento egemone della propria diversità escludendo l’uguaglianza; è rivendicare la propria diversità a svantaggio delle varietà. L’autocelebrazione non è analisi ma sintesi. È voler scrivere un capitolo di un libro che non si è letto. È ambire ad esser conosciuti, non a conoscere; è fare pubblicità a se stessi, è annuncio, propaganda, è la mercificazione dell’Io che diventa un articolo su uno scaffale: è il soggetto che diviene oggetto. L’autocelebrazione è in eterna competizione per aggiudicarsi il primo posto, perché arriva sempre al secondo.
“Nulla è più terribile dell’ignoranza attiva”.

Johann Wolfgang von Goethe

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(Ultima Parte) Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner.


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª, qui la 4ª)

Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare perché abbiamo bisogno di qualcuno a cui attribuire la colpa per la nostra abominevole e intollerabile condizione, così come per le sconfitte che patiamo allorché tentiamo di migliorare tale condizione e renderla più sicura. Abbiamo bisogno di quel qualcuno per scaricare (e in questo modo eventualmente mitigare) il senso devastante della nostra stessa inadeguatezza. Affinché questo scaricamento abbia successo, c’è comunque bisogno che l’intera operazione nasconda ogni traccia di vendetta personale. L’ultimo legame tra la percezione del carattere disgustoso e odioso dell’obiettivo prescelto e la nostra frustrazione in cerca di uno sfogo deve rimanere segreto. In qualunque maniera sia stato concepito, tenderemo dunque a giustificare la presenza dell’odio, degli altri che ci sono intorno e a noi stessi, con il nostro desiderio di difendere quelle cose buone e nobili che loro, quegli individui maligni e spregevoli, denigrano e contro cui cospirano. Lotteremo per dimostrare che il nostro odio, la nostra determinazione a sbarazzarci di loro, trovano ragione (e giustificazione) nel desiderio che abbiamo che possa sopravvivere una società ordinata e civile. Insisteremo nel sostenere che li odiamo perché vogliamo un mondo libero dall’odio.
Forse non si accorda con la logica delle cosec ma si accorda bene con la logica delle emozioni il fatto che “die unterklasse” (la sottoclasse) e altri come loro – rifugiati senza casa, sradicati, “non apparenti“, richiedenti asilo che non lo ottengono, sans papiers (senza documenti) – tendono ad attirare il nostro risentimento e la nostra avversione. Sembra che tutta questa gente sia stata creata a misura delle nostre paure. Sono disegni animati su cui i nostri incubi incidono incidono le didascalie. Sono tracce viventi (sedimenti, segni, incarnazioni) di tutte quelle forze misteriose, comunemente chiamate “globalizzazione“, a cui attribuiamo la responsabilità per il timore che abbiamo di venire forzatamente strappati dal luogo che amiamo (dal paese o dalla società) e di finire per strada senza alcuna indicazione stradale e senza conoscere la destinazione. Summa summarium, sono adatti, perfino ideali per il ruolo di una effige su cui, anche solo per procura, bruciate quelle forze che non riusciamo a domare e che sono al di là della nostra portata.
Il “leitmotiv” introdotto da da Wozzeck con le parole wie arme Leute (noi povera gente) segnala l’incapacità dei personaggi dell’Opera di trascendere la loro situazione: un’incapacità che i personaggi sulla scena condividono con la folla che assiste alla rappresentazione. Gli artisti romantici vollero vedere l’universo in una goccia d’acqua. I detrattori di Wozzeck, come lui stesso, non potrebbero essere che delle gocce d’acqua, ma, se tentassimo, vedremmo in loro, se non l’Universo, sicuramente la nostra “Lebenswelt” (mondo vitale, il nostro universo, la nostra comunità, società).
Fine.

(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª, qui la 4ª)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (4ª Parte)


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª)

Dennis Smith offre una definizione attuale del termine “umiliazione“:
“Un atto è umiliante se calpesta o contraddice in modo coercitivo la rivendicazione che determinate persone […] sostengono relativamente a chi sono e alle condizioni in cui possono affermare la propria identità. In altre parole, se all’individuo, implicitamente o esplicitamente, è negato il riconoscimento che lui/lei si aspetta per la persona che lui/lei è e per il tipo di vita che lui/lei fa; e se a lui/lei vengono rifiutati quei diritti che gli/le sarebbero stati concessi o che avrebbe continuato a vedere soddisfatti in seguito a quel riconoscimento. Una persona che si sente umiliata quando le viene brutalmente mostrato, con parole, azioni, eventi, che non le è concesso essere ciò che pensa di essere […]. L’umiliazione è l’esperienza di essere sottomessi, repressi, trattenuti o espulsi ingiustamente, irragionevolmente o contro la propria volontà”.

È una sensazione che genera risentimento. Nelle società di individui come le nostre, la sofferenza, il fastidio e il rancore di essere stati umiliati sono probabilmente le forme di risentimento più amare e implacabili che si possono provare, e le più comuni e prolifiche ragioni di conflitto, dissenso e sete di vendetta. Il diniego del riconoscimento, il rifiuto del rispetto e la minaccia dell’esclusione hanno sostituito lo sfruttamento e la discriminazione come formule più comunemente usate per spiegare e giustificare il rancore che gli individui potrebbero provare verso la società, o verso parti o aspetti della società a cui sono direttamente esposti (personalmente o attraverso i media) e di cui dunque hanno esperienza (di prima o di seconda mano). La vergogna dell’umiliazione genera disprezzo e odio verso di sé, un odio che tende a sopraffarci una volta che realizziamo quanto siamo deboli, e decisamente impotenti quando tentiamo di essere coerenti con l’identità delle nostre scelte, quando ci sforziamo di mantenere il nostro posto nella comunità che rispettiamo e che abbiamo a cuore, e di attenerci al tipo di vita che desideriamo fervidamente fosse la nostra e che rimanesse tale per un lungo periodo; ogni volta che scopriamo quanto sia fragile la nostra identità, quanto siano vulnerabili e poco salde le nostre passate conquiste, e quanto incerto debba essere il nostro futuro in vista dell’enormità delle sfide che affrontiamo quotidianamente. Questa vergogna, e così anche l’odio verso di sé, cresce come prova della nostra impotenza accumulata, e come risultato il senso di umiliazione diventa più profondo.

L’odio verso se stessi produce comunque uno stato straziante, intollerabile da vivere e da sopportare: ha bisogno di uno sfogo, e lo cerca disperatamente; deve essere incanalato lontano dal sé più intimo, che altrimenti potrebbe danneggiare seriamente o perfino distruggere. La catena che porta dall’incertezza, attraverso il sentimento di impotenza, vergogna e umiliazione, al disgusto verso se stessi, all’avversione e all’odio di sé, finisce dunque nella ricerca del colpevole “lì fuori“, nel mondo; nella ricerca di qualcuno, ancora sconosciuto e senza nome, invisibile o camuffato, che cospira contro la mia (la nostra) dignità e il mio benessere, e mi (ci) fa patire quest’atroce sofferenza dell’umiliazione. È dunque terribilmente necessario scoprire e smascherare questo qualcuno, poiché abbiamo bisogno di un bersaglio sul quale sia possibile scaricare la rabbia repressa. Le sofferenze devono essere vendicate, anche se non è per nulla chiaro contro chi. Esplodendo, l’odio verso se stessi colpisce i suoi bersagli a casaccio, proprio come ha fatto Wozzeck, e colpisce soprattutto quelli più alla mano, anche se non sono necessariamente quelli con maggiori responsabilità per la caduta, l’umiliazione e la miseria.

(Continua…)-(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª) (Leggi l’Ultima Parte)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (3ª parte)


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte)

Come quello di Wozzeck, oggi il Destino si trova in un vagabondaggio ancora più sfacciato, colpisce a casaccio, e con effetti ancora più devastanti rispetto a quel che sembrava facesse nel periodo successivo alla Guerra mondiale, che si credeva fosse “la guerra che mette fine a tutte le guerre” (e che presto ha dimostrato di esserlo per un tempo tristemente breve), che annunciava tempi di pace, di maggiore benessere, di maggiori opportunità e meno miseria per tutti. Le generazioni passate hanno vissuto con il sogno e la speranza di un’imminente sicurezza esistenziale, mentre quelle di oggi vivono con la convinzione di un’insicurezza duratura, che li accompagnerà lungo tutto il corso della vita, che sarà permanente e forse irrimediabile. Oggi infatti il Destino sembra essere stato individualizzato. Il suo itinerario non è meno irregolare di quanto lo fosse prima, ma la frequenza dei colpi sferrati sembra essere regolare quanto mai prima (monotona, perfino una routine). Come nel “Grande Fratello“, che viene descritto ufficialmente e che comunemente si crede sia un “reality” show, in cui capita che uno dei protagonisti, o anche più di uno, ogni settimana deve essere escluso dal gruppo (buttato fuori con il voto), e in cui la sola cosa che rimane incerta e sconosciuta è chi sarà la persona a cui toccherà, questa o la settimana successiva. L’esclusione è nella natura delle cose, è un elemento inseparabile dell’essere nel mondo, è, per modo di dire, “una legge di natura“, per questo non ha senso ribellarsi a essa. La sola questione su cui valga la pena ragionare, e anche intensamente, è come evitare la prospettiva che “sia io” l’escluso del prossimo giro di eliminazioni servendomi di qualsiasi mezzo di cui dispongo; anche i più meschini.
Nessuno può dichiararsi immune nei confronti del vagabondaggio del Destino. Nessuno può sentirsi realmente garantito nei confronti della minaccia di essere escluso. La maggior parte di noi o ha già sperimentato l’amarezza dell’esclusione, oppure ha avuto il sospetto che in un futuro segreto potrebbe provarla. Sono veramente pochi quelli che potrebbero giurare di essere immuni dal Destino, e ci è concesso sospettare che alla fine molti di quei pochi dimostreranno di aver sbagliato. Soltanto pochi individui possono sperare che non impareranno mai la sensazione che si prova quando si vive un’esperienza simile, in particolare quando si viene disprezzati e umiliati.
Bisogna dire, comunque, che da quando è stata composta l’opera di Berg il significato e la causa principale dell’umiliazione sono cambiati. Oggi la posta in gioco della spietata competizione individuale, inclusa la lotteria dell’esclusione, non è più la sopravvivenza fisica (almeno non nella parte agiata del pianeta, per ora e “fino al prossimo avviso”), non è la soddisfazione dei bisogni biologici primari richiesta dall’istinto di sopravvivenza. E non è neanche il diritto di prendere decisioni, di stabilire da sé i propri obiettivi e di decidere che tipo di vita si preferirebbe fare, poiché, al contrario, oggi si presume che esercitare questi diritti sia un dovere dell’individuo. Inoltre, è diventato un assioma che qualunque cosa accada all’individuo non possa che essere la conseguenza dell’esercizio di tali diritti, del fallimento esecrabile o del colpevole rifiuto di esercitarli: qualunque cosa accada (sia le avversità che i successi) sarà interpretata retrospettivamente come un’ulteriore conferma dell’esclusiva e inalienabile responsabilità degli individui per le loro condizioni individuali.
Resi individui dalla storia, veniamo incoraggiati a ricercare attivamente il “riconoscimento sociale” per delle cose che sono già state pre-interpretate come una nostra scelta individuale: propriamente, quelle forme di vita che noi individui stiamo usando (sia per scelta deliberata che per caso). “Riconoscimento sociale” significa dunque accettazione, da parte degli “altri che contano”, che la forma di vita usata da un particolare individuo è degna e decente, e che su questa base l’individuo in questione merita il rispetto dovuto e generalmente concesso a tutte le persone meritevoli, degne e decenti.
L’alternativa al riconoscimento sociale è la negazione della dignità: l’umiliazione; praticata attraverso la riduzione e la rinegoziazione dei diritti fondamentali di ogni essere umano. E in un mondo in cui i poveri aumentano, le sicurezze traballano, i rapporti si rompono e le responsabilità individuali crescono senza sosta, niente e nessuno può assicurare che il diritto a una vita dignitosa sia garantito in futuro.

(Continua…)-(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte) (Vai alla 4ª Parte)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (2ª parte)


Quel che risulta tanto terrificante nella “povera gente” è il Destino di cui sono, così evidentemente, delle vittime. Destino è il nome che attribuiamo agli avvenimenti che non possiamo né prevedere né prevenire: eventi che non desideriamo né causiamo. Il nome di qualcosa che ‘ci capita’, ma che non è riconducibile alla nostra volontà, e tanto meno alle nostre azioni; il nome dei cambiamenti di fortuna che ci piombano addosso che il proverbiale fulmine a ciel sereno. Il Destino ci spaventa precisamente per il fatto che è imprevedibile e inevitabile. Ci ricorda che esistono limiti a quel che possiamo fare per decidere delle nostre vite come vorremmo che fossero; limiti che non possiamo superare, cose che non possiamo controllare, per quanto affannosamente provassimo a farlo. Destino è la vera epitome dell’Ignoto, di qualcosa che non possiamo né spiegare né comprendere, ed è per questo che ci spaventa così tanto. Per citare Wittgeinstein, “comprendere” significa “sapere come andare avanti“; allo stesso modo, se accade qualcosa che non comprendiamo, non sappiamo cosa fare, e allora ci sentiamo sfortunati e vulnerabili, indifesi. Essere sfortunati è sempre umiliante, ma mai così tanto come nei casi in cui il Destino ci colpisce “individualmente“: quando sono “io stesso” quello che viene toccato, mentre gli “altri attorno a me” vengono oltrepassati dal disastro e continuano a procedere come se niente fosse accaduto. Altre persone sembrano essere riuscite a uscirne illese e senza conseguenze, mentre io ho fallito in modo esecrabile, dunque ci deve essere stato qualcosa di sbagliato in me, qualcosa che ha ‘invitato’ la catastrofe, che ha orientato il disastro nella mia direzione mentre altra gente, ovviamente più abile, perspicace e ingegnosa di quanto non sia io, l’ha evitata. Il sentimento di umiliazione erode sempre l’autostima e il senso di sicurezza di coloro che vengono umiliati, ma mai così profondamente come quando l’umiliazione viene sofferta in solitudine; in questi casi infatti all’ingiuria si aggiunge la beffa, l’insulto: si suppone che ci sia un’unità connessione tra il duro destino e i fallimenti individuali della vittima.

È per questo che Wozzeck cerca disperatamente di ‘de-individualizzare‘ sia la sua miseria che la sua inettitudine. E di riformularle semplicemente con un caso di sofferenza comune alla moltitudine della “povera gente“. Quelli che lo puniscono e lo deridono cercano al contrario di ‘individualizzare’ la sua indolenza. Non vorrebbero sentir parlare di “povera gente” e di destino comune. E cercano di addossare la colpa sulle spalle, personali, di Wozzeck, così come lui cerca disperatamente di de-individualizzare la sua sfortuna. Wozzeck, insistono rumorosamente costoro sperando di ridurre al silenzio la propria ansia, ha attirato la cattiva sorte su di sé. Con le sue azioni o con la sua inazione ha scelto il proprio destino. Noi invece, i suoi denigratori, scegliamo un diverso tipo di vita, e in questo modo non può capitarci la stessa miseria che è capitata a Wozzeck. In modo simile, recentemente un miliardario di Londra ha cercato di convincere duo curiosi giornalisti che la disparità tra il suo benessere e la povertà degli altri fosse dovuta interamente a ragioni di ordine morale:
“Parecchia gente ha lavorato bene perché voleva avere successo, e molta gente non l’ha fatto perché non lo voleva”.
Proprio così: chi vuol fare bene, lo fa, e chi non lo vuol fare, non lo fa.
Dubbi, premonizioni, sensazioni di ansia, tutto questo genere di cose, di qualunque tipo esse siano, vengono placate, almeno per un certo periodo: come le sconfitte di quanto falliscono sono dovute interamente ai loro difetti di volontà, così i miei successi sono dovuti interamente alla mia volontà e alla mia determinazione. Come Wozzeck deve nascondersi dietro il destino della “povera gente” per mettere in salvo quel che è rimasto della sua autostima, così il Capitano e il Dottore devono ricondurre il destino di Wozzeck alle nude ragioni dei suoi fallimenti individuale per mettere in salvo quel che è rimasto della loro sicurezza di sé.

Come ha sottolineato Aristotele quasi due millenni e mezzo fa, non si può essere umani, e se lo si è non si può sopravvivere, al di fuori di una ‘polis’; e ha aggiunto che solo gli angeli e le bestie possono esistere al di fuori di una ‘polis‘. Scorate deve essere stato della stessa opinione, dal momento che, non essendo né un angelo né una bestia, ha preferito una ciotola di cicuta all’esilio da Atene.

(Fine 2ª Parte)-(Torna alla 1ª Parte) (Vai alla 3ª parte)

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (1ª parte)


«Wir arme Leute…», “noi povera gente”. È ciò che dice Wozzeck nel corso del primo atto dell’opera, mentre canta difendendosi contro le accuse di indecenza e impudicizia che il Capitano e il Dottore gli scaricano addosso. Wozzeck ha fallito nel vivere secondo gli standard di decenza e decoro che il Capitano e il Dottore hanno fissato. Quegli standard che credono di rispettare e a cui chiedono che tutti gli altri obbediscano; questo almeno è ciò che hanno dichiarato il Capitano e il Dottore, i quali scherniscono Wozzeck, lo deridono e lo oltraggiano per il fatto che, in modo così stridente, “non è come loro”. Lo incolpano della sua bassezza, della sua grossolanità e volgarità come di un peccato abominevole e imperdonabile. «Wir arme Leute», «noi povera gente – replica Wozzeck – non potremmo vivere come voi, per quanto appassionatamente tentassimo di farlo. Nel gioco del vizio e delle virtù, le regole sono state stabilire da voi e da quelli ‘come voi’, ed è per questo che trovate facile seguirle; ma lo trovereste difficile se foste poveri come lo siamo ‘noi, povera gente’». Vi prego di notare che Wozzeck dice “wir” (noi), non “ich” (io)! In altre parole: “Quello di cui mi rimproverate – avrebbe potuto spiegare – non è una mia colpa ‘personale’. Non sono soltanto io che non rispetto gli standard che avete stabilito. Ci sono molte altre persone fallite come me. E biasimandomi, biasimate tutte queste persone, tutti noi“.
Ma chi sono quei “noi” che Wozzeck chiama in sua difesa? Wozzeck non si riferisce a una classe, a una razza, a un’etnia, a una fede, a una nazione. Non fa riferimento a nessuno di quei nomi generalmente invocati, che presumono in modo tacito o che dichiarano rumorosamente di essere delle comunità; gruppi che ritengono di essere uniti (bene o male) dal passato comune, dalla presente condizione e dal destino futuro, dalle poche gioie e dai molti dolori, dai pochi colpi di fortuna e dalle molte disgrazie. Quei gruppi che richiedono ai propri membri la lealtà, che nascono proprio sulla base di questa lealtà, e che risorgono quotidianamente grazie alla dedizione continua dei propri membri. Quei gruppi che si aspettano che ognuno dei propri membri condivida la responsabilità per il benessere di ogni altro, e che si combatta insieme per ovviare alle cattive condizioni di ciascuno. Quei gruppi che sanno chi è un membro (“uno di noi“), e chi non lo è (e che dunque è “uno di loro“), che tracciano un confine tra “noi” e “loro” e cercano con ogni mezzo di controllare il traffico al confine. Nel riferimento di Wozzeck a “wir arme Leute“, questa comunità è presente solo come un fantasma: presente attraverso la sua (deplorevole, incresciosa) “assenza“. Ma vi prego di notare che nell’opera di Georg Büchner quel che più importa non sono i pochi, sobri discorsi di Wozzeck, ma i suoi eloquenti silenzi, ampi e raramente interrotti. È come se Wozzeck obbedisse all’ingiunzione di Wittgenstein: “di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere“. Della “comunità” Wozzeck tace, dal momento che non è mai esistita e non esiste comunità di cui potrebbe parlare. E così, nella sua disperata ricerca di scuse e di qualche forma di autodifesa, ha preferito invocare la povera gente, “arme Leute“. “Arme Leute” non forma una comunità. La miseria di chi ne fa parte, piuttosto che unire, differenzia e divide. La povera gente sopporta le proprie sofferenze individualmente, e individualmente viene accusata per le proprie sconfitte e miserie (individualmente causate e individualmente sofferte). Ciascuno degli appartenenti alla povera gente è piombato nella categoria “arme Leute” a causa delle proprie colpe individuali, e ognuno e ognuna si lecca le proprie ferite da solo. Arme Leute può invidiare o temere gli altri; a volte può provare pena, o può darsi perfino che apprezzi qualcun altro (sebbene non troppo spesso). Nessuno che ne fa parte, però, “rispetterebbe” mai un’altra creatura “come lui” (o come lei). Infatti, se quest’altra persona è “come” sono io, allora anch’essa non sarà degna di rispetto, meriterà disprezzo e derisione come li merito io! Arme Leute ha una buona ragione per rifiutare di concedere rispetto e, a sua volta, per non attendersi di essere rispettata: la sua povertà, la sua mancanza di risorse materiali e dunque anche spirituali, che segnalano privazione materiale e condizioni indubitabilmente miserabili e dolorose, sono infatti delle tracce indelebili e una vivida prova della mancanza di dignità e di rispetto sociale. Testimoniano che coloro che detengono l’autorità, la gente che ha il potere di concedere o revocare diritti, ha rifiutato di assicurargli i diritti dovuti agli altri esseri umani “normali“. Se solo il nome che Wozzeck ha potuto usare quando si è riferito agli “altri come me” è stato arme Leute, noi povera gente, allora, in maniera indiretta, che ne sia stato consapevole oppure no, ha palesato la sua esclusione dalla famiglia degli esseri umani “normali“, e allo stesso tempo il suo esilio dalle comunità che conosceva e da cui era conosciuto, e il fatto che non avesse né un invito a raggiungerne un’altra né la prospettiva che gli venisse concessa l’ammissione a un’altra comunità.

(Fine 1ª Parte) (Parte seconda)

Inferno


“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Italo Calvino
Le città invisibili” (Einaudi, Torino 1972, p. 170)

Ma è certo che gli uomini e le donne che si sforzano di scoprire «chi e cosa non è inferno» devono far fronte a pressioni di ogni genere che li spingono ad accettare ciò che essi insistono a chiamare «inferno». L’inferno è ormai routinizzato, non proviamo più sorpresa e non sappiamo più distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Quando abbiamo a che fare con il male, la prima volta ci sbalordiamo ed “esclamiamo!”. Dopo la seconda, la terza, la quarta volta che lo si incontra, la nostra reazione sarà al massimo un “ecco che ci risiamo…”, che ne attesta il riconoscimento routinario, che ne esprime la presenza abituale nella nostra vita quotidiana, nel nostro modo di vedere e vivere lo spazio che ci circonda. E lo si accetta e lo si somatizza, dando così combustibile per alimentare le fiamme dell’inferno.
Solo l'”innocenza” di un bambino è in grado di testimoniare quanto e quanti siamo colpevoli. E il male, è che non sorprende affatto scoprire che siamo tutti adulti.

Neoliberismo e Corruzione


“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire“, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Aggiungo che sono pochi i politici abbastanza temerari a abili da resistere alle loro pressioni; e se (se) ci riescono si trovano davanti avversari formidabili: il capitale extraterritoriale e i suoi seguaci neoliberali. La maggior parte dei politici, a parte davvero poche eccezioni collocate soprattutto nei paesi nordici, come il fresco Rapporto della Commissione europea in merito alla corruzione dei Paesi membri ci fa notare, sceglie l’opzione più facile: la classica formula secondo cui “Non esistono alternative”, detta anche Tina (There Is Not Alternative), abusata per prima dalla scomparsa Thatcher. Oppure, come Polly Toynbee ha ricordato in questo interessantissimo articolo,

«si fa credere alla gente che non esistono alternative a qualche malvagia forza economica incontrollabile da parte dell’uomo. La verità è che la miseria e l’ingordigia sono scelte politiche, e non un destino economico; che possiamo decidere di essere nordici […] e di difendere i diritti umani […]».

(Polly Toynbee, “Free-market buccaneers“, in “The Guardian”, 19 agosto 2005.)