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Spirito di contraddizione


La nostra è un’esistenza che contraddice se stessa, in preda all’ansia da prestazione, in perpetua aspettativa di un’occasione da non perdere, fra le infinite che il Paese delle Meraviglie ci destina.Aspettiamo di svegliarci per sognare e di sognare per vivere il mondo reale, che ci sia data la caccia per nasconderci o combattere, che il mondo ci si riversi contro per reagire alle sue ingiustizie, di soffrire per non dover soffrire più, di essere felici per ignorare le altrui sofferenze, di avere fede, quando in verità siamo tutti atei, che l’ambiente si risani, quando poi siamo i primi a rovinarlo, che la società torni ad essere una comunità, quando invece ognuno nei fatti pensa per sé. Amiamo fare la guerra per avere pace, fare beneficenza a patto che nessuno bussi alle nostre porte, e contemplare in solitudine paesaggi deserti non per sentirci parte di un tutto sterminato, ma perché intimamente non sopportiamo l’idea di condividerli. Non amiamo essere considerati razzisti, giacché gli esseri umani son tutti uguali: davanti alla Legge, alle Tasse, alla Dignità, alle Necessità, all’Esistenza, purché i figli dell’amata Patria abbiano la precedenza di fronte alle indigenze. Parliamo tutti d’amore, ma solo perché tutti ci odiamo. Ti amo, anzi no: ti odio. Non amiamo la polvere, la sporcizia, l’incuria e privilegiamo le cure alternative, perciò puliamo e lucidiamo, verniciamo e inceriamo, disinfettiamo e depuriamo, ma gli spazi in comune sono discariche a cielo aperto, assumiamo farmaci attraverso il cibo, ci imbottiamo di antidepressivi, antinfiammatori, analgesici e integratori dietetici. Non ci consideriamo superiori, però bisogna ammettere che da lassù c’è una vista migliore. Facciamo tutto alla luce del sole, non abbiamo bisogno di nasconderci, tuttavia la nostra privacy è sacra, salvo poi esporla sulla bacheca pubblica di un social, giacché sappiamo ben distinguere la vita reale da quella virtuale… Viviamo alla giornata, poiché il Futuro è un’incognita: nella vita, è cosa arcinota, non si può mai sapere… Però speriamo tutti in un futuro migliore, perché la speranza, quella no, non va mai perduta. Ma al tempo stesso il Destino va costruito, creato, agevolato, sollecitato, e allora siamo noi i Padroni del Nostro Destino, pur essendo l’unico elemento sul quale sappiamo di non esercitare alcun potere… anzi sì, perché sono le occasioni che cerchiamo e rincorriamo con ansia a costituirlo; anzi no, perché il futuro è un’incognita: una disgrazia, un intoppo inaspettato, un ostacolo non segnalato sul cammino e finisce tutto, pertanto bisogna vivere alla giornata; anzi sì, perché “volere è potere”; anzi no, perché chi s’accontenta gode; anzi sì, perché nella vita bisogna rischiare e aspirare sempre a qualcosa di più. Insomma, chi fa da sé fa per tre, ma insieme è meglio, però da soli lo è ancora di più, che sennò poi si deve tener conto anche delle esigenze degli altri… Però la solidarietà è cosa buona; anzi no, che poi se gli dai un dito si prendono tutto il braccio.

Oggi piove, anzi no, o forse sì, mah…, a dire il vero non saprei… Chi guarda il cielo e poi mi fa sapere?

La pazienza


Et ex hac parte – dice Tommaso d’Aquino – habet affinitatem cum fortitudine patientia.” La pazienza, in quanto parte della fortezza, è virtù attiva: sarebbe un grave errore confonderla con la pura e semplice rassegnazione. L’uomo paziente non si adatta al dolore, ma lo governa; soprattutto non lo accetta come una condizione definitiva.
Salvatore Natoli da “Dizionario dei vizi e delle virtù” ed. Feltrinelli pag. 104

L’autocelebrazione


L’autocelebrazione inganna l’autostima; è l’ammirazione verso il contenitore alienato dal contenuto. È il comportamento artificioso con cui il narcisismo esprime se stesso; è specchiarsi per guardarsi intorno agli occhi. È l’autoscatto degenerato in selfie. È la perversione del sé. È la convinzione di essere speciali emulando un mondo di replicanti. È pretendere il riconoscimento egemone della propria diversità escludendo l’uguaglianza; è rivendicare la propria diversità a svantaggio delle varietà. L’autocelebrazione non è analisi ma sintesi. È voler scrivere un capitolo di un libro che non si è letto. È ambire ad esser conosciuti, non a conoscere; è fare pubblicità a se stessi, è annuncio, propaganda, è la mercificazione dell’Io che diventa un articolo su uno scaffale: è il soggetto che diviene oggetto. L’autocelebrazione è in eterna competizione per aggiudicarsi il primo posto, perché arriva sempre al secondo.
“Nulla è più terribile dell’ignoranza attiva”.

Johann Wolfgang von Goethe

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Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (3ª parte)


(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte)

Come quello di Wozzeck, oggi il Destino si trova in un vagabondaggio ancora più sfacciato, colpisce a casaccio, e con effetti ancora più devastanti rispetto a quel che sembrava facesse nel periodo successivo alla Guerra mondiale, che si credeva fosse “la guerra che mette fine a tutte le guerre” (e che presto ha dimostrato di esserlo per un tempo tristemente breve), che annunciava tempi di pace, di maggiore benessere, di maggiori opportunità e meno miseria per tutti. Le generazioni passate hanno vissuto con il sogno e la speranza di un’imminente sicurezza esistenziale, mentre quelle di oggi vivono con la convinzione di un’insicurezza duratura, che li accompagnerà lungo tutto il corso della vita, che sarà permanente e forse irrimediabile. Oggi infatti il Destino sembra essere stato individualizzato. Il suo itinerario non è meno irregolare di quanto lo fosse prima, ma la frequenza dei colpi sferrati sembra essere regolare quanto mai prima (monotona, perfino una routine). Come nel “Grande Fratello“, che viene descritto ufficialmente e che comunemente si crede sia un “reality” show, in cui capita che uno dei protagonisti, o anche più di uno, ogni settimana deve essere escluso dal gruppo (buttato fuori con il voto), e in cui la sola cosa che rimane incerta e sconosciuta è chi sarà la persona a cui toccherà, questa o la settimana successiva. L’esclusione è nella natura delle cose, è un elemento inseparabile dell’essere nel mondo, è, per modo di dire, “una legge di natura“, per questo non ha senso ribellarsi a essa. La sola questione su cui valga la pena ragionare, e anche intensamente, è come evitare la prospettiva che “sia io” l’escluso del prossimo giro di eliminazioni servendomi di qualsiasi mezzo di cui dispongo; anche i più meschini.
Nessuno può dichiararsi immune nei confronti del vagabondaggio del Destino. Nessuno può sentirsi realmente garantito nei confronti della minaccia di essere escluso. La maggior parte di noi o ha già sperimentato l’amarezza dell’esclusione, oppure ha avuto il sospetto che in un futuro segreto potrebbe provarla. Sono veramente pochi quelli che potrebbero giurare di essere immuni dal Destino, e ci è concesso sospettare che alla fine molti di quei pochi dimostreranno di aver sbagliato. Soltanto pochi individui possono sperare che non impareranno mai la sensazione che si prova quando si vive un’esperienza simile, in particolare quando si viene disprezzati e umiliati.
Bisogna dire, comunque, che da quando è stata composta l’opera di Berg il significato e la causa principale dell’umiliazione sono cambiati. Oggi la posta in gioco della spietata competizione individuale, inclusa la lotteria dell’esclusione, non è più la sopravvivenza fisica (almeno non nella parte agiata del pianeta, per ora e “fino al prossimo avviso”), non è la soddisfazione dei bisogni biologici primari richiesta dall’istinto di sopravvivenza. E non è neanche il diritto di prendere decisioni, di stabilire da sé i propri obiettivi e di decidere che tipo di vita si preferirebbe fare, poiché, al contrario, oggi si presume che esercitare questi diritti sia un dovere dell’individuo. Inoltre, è diventato un assioma che qualunque cosa accada all’individuo non possa che essere la conseguenza dell’esercizio di tali diritti, del fallimento esecrabile o del colpevole rifiuto di esercitarli: qualunque cosa accada (sia le avversità che i successi) sarà interpretata retrospettivamente come un’ulteriore conferma dell’esclusiva e inalienabile responsabilità degli individui per le loro condizioni individuali.
Resi individui dalla storia, veniamo incoraggiati a ricercare attivamente il “riconoscimento sociale” per delle cose che sono già state pre-interpretate come una nostra scelta individuale: propriamente, quelle forme di vita che noi individui stiamo usando (sia per scelta deliberata che per caso). “Riconoscimento sociale” significa dunque accettazione, da parte degli “altri che contano”, che la forma di vita usata da un particolare individuo è degna e decente, e che su questa base l’individuo in questione merita il rispetto dovuto e generalmente concesso a tutte le persone meritevoli, degne e decenti.
L’alternativa al riconoscimento sociale è la negazione della dignità: l’umiliazione; praticata attraverso la riduzione e la rinegoziazione dei diritti fondamentali di ogni essere umano. E in un mondo in cui i poveri aumentano, le sicurezze traballano, i rapporti si rompono e le responsabilità individuali crescono senza sosta, niente e nessuno può assicurare che il diritto a una vita dignitosa sia garantito in futuro.

(Continua…)-(Qui puoi trovare la 1ª Parte, e qui la 2ª Parte) (Vai alla 4ª Parte)

Inferno


“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Italo Calvino
Le città invisibili” (Einaudi, Torino 1972, p. 170)

Ma è certo che gli uomini e le donne che si sforzano di scoprire «chi e cosa non è inferno» devono far fronte a pressioni di ogni genere che li spingono ad accettare ciò che essi insistono a chiamare «inferno». L’inferno è ormai routinizzato, non proviamo più sorpresa e non sappiamo più distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Quando abbiamo a che fare con il male, la prima volta ci sbalordiamo ed “esclamiamo!”. Dopo la seconda, la terza, la quarta volta che lo si incontra, la nostra reazione sarà al massimo un “ecco che ci risiamo…”, che ne attesta il riconoscimento routinario, che ne esprime la presenza abituale nella nostra vita quotidiana, nel nostro modo di vedere e vivere lo spazio che ci circonda. E lo si accetta e lo si somatizza, dando così combustibile per alimentare le fiamme dell’inferno.
Solo l'”innocenza” di un bambino è in grado di testimoniare quanto e quanti siamo colpevoli. E il male, è che non sorprende affatto scoprire che siamo tutti adulti.

Linguaggio politico


“Di questi tempi, i discorsi e gli scritti dei politici sono in gran parte la difesa dell’indifendibile […]. Il linguaggio politico […] è concepito per far apparire attendibili le menzogne e rispettabile l’assassino, e per dare una parvenza di solidità al vento puro”.

George Orwell
(“Politica e lingua inglese, a cura di Denise Milizia, pp. 23,31 – 1954 -)

Overclass


“Il fatto centrale della globalizzazione è che la condizione economica dei cittadini di uno Stato-nazione è ormai fuori dal controllo delle leggi dello Stato […]. Siamo ormai di fronte a una “overclass”, una sovraclasse globale che prende tutte le principali decisioni economiche e si rende del tutto indipendente dalle legislature e a maggior ragione dalla volontà degli elettori di qualsiasi paese […]. L’assenza di una “polity” globale significa che i super-ricchi possono agire senza tenere minimamente in conto un qualsiasi interesse diverso dal proprio. Rischiamo di trovarci con due soli gruppi sociali autenticamente globali e internazionali: i super-ricchi e gli intellettuali, cioè coloro che vanno ai convegni internazionali dedicati a misurare i danni fatti dai super-ricchi, cosmopoliti come loro”.

 Richard Rotry

(“Philosophy and Social Hope”, Penguin, Londra 1999, p. 233)

Sulla felicità


-La felicità è una prospettiva valutata dall’esperienza soggettiva.

-La felicità è una posizione condizionata dalle abitudini apprese in base al contesto sociale in cui siamo cresciuti.

-La felicità deve essere vissuta, non immaginata, non giudicata o valutata; non senza esperienza.

Sigmund Freud

Sull’amore


“L’amore si può paragonare alla creazione di un’opera d’arte. […] Anch’essa richiede da parte dell’artista grande immaginazione, grande concentrazione, la combinazione di tutti gli aspetti della personalità umana, spirito di sacrificio e libertà assoluta. Ma soprattutto, come per la creazione artistica, l’amore richiede azione, ossia attività e condotta non routinarie, e costante attenzione alla natura intrinseca del proprio partner, uno sforzo di comprendere la sua individualità, e rispetto. Inoltre richiede tolleranza, la consapevolezza che non si possono imporre i propri punti di vista e ideali al compagno o alla compagna, né ostacolare la felicità”.

L’amore non promette di raggiungere facilmente la felicità.

Ivan Klíma
(“Between Security and Insecurity”, Londra 1999, pp. 60-62)

Psicanalisi e religione


“Abbiamo creato cose meravigliose, ma non siamo riusciti a fare dell’uomo una creatura degna di possederle. La nostra vita non si svolge sotto il segno della fraternità, della felicità, della pace spirituale, anzi è un vero e proprio caos dello spirito, uno stato di smarrimento troppo simile a una forma di pazzia: non la pazzia isterica del Medioevo, ma piuttosto una specie di schizofrenia, in cui il contatto con la realtà intima va perduto, e si verifica una frattura tra i pensieri e gli affetti”.

Erich Fromm
(“Psicanalisi e religione”, edizione italiana 1961, pp. 7-8)