Noi, la nostra generazione, quella dei nostri padri, dei nostri nonni, veniamo da una società strutturata sulla base di un’Etica del lavoro sulla quale le nostre identità si sono modellate, educate, organizzate, caratterizzate, determinate. Abbiamo imparato a relazionarci fra noi attraverso le nostre identità lavorative suddivise in categorie, ceti, gruppi, eccetera. La crisi che ci ha investiti dimostra però l’incapacità di alcuni uomini di governo nel garantire lo status di convivenza di tali «gruppi», ma anche una profonda inettitudine a garantire quello individuale. Si è dimenticata l’inevitabilità dell’essere umano d’essere vincolato (ci piaccia o meno), per cause esistenziali, alla coesistenza con altri gruppi al di fuori di uno specifico. Perciò l’accanimento a perseguire la il-logica del successo individuale non potrà che condurci – e ci ha condotti – verso il caos sociale.
La produzione incontrollata, la libera circolazione delle merci, la privatizzazione dello Stato sociale, sono misure partorite da menti offuscate dal profitto, dal voler dimostrare a se stesse (e solo a se stesse) di essere le uniche in grado di governare quella stragrande maggioranza di popolo ‘ignorante’, privo d’ambizioni, e che s’accontenta di quel tanto che gli basta per vivere dignitosamente. Il risultato di questa ostentazione di superiorità (ma che è invece espressione di un grave complesso di inferiorità e di emozioni represse), è quella che oggi viene definita insistentemente, arrogantemente «crisi economica», ma che dovrebbe invece essere chiamata col suo vero nome: «crisi Culturale», per evitare – come del resto è sempre avvenuto – di occultare ancora una volta le radici della grana con cui si vanno a scontrare sistematicamente i «signori dell’individualismo».
Il tentativo miserabile di voler mantenere – ulteriormente – nel limbo, problemi di natura strutturale del modello economico-sociale in corso comprova inconfutabilmente la loro incapacità. La rivoluzione avvenuta nel sistema delle intercomunicazioni non viene presa minimamente in considerazione da lorsignori, confidando e speculando sul fatto che l’eccesso, la sovrabbondanza di notizie messe in circolazione non siano in grado di condizionare o colpire i punti vitali del “loro” modello di società. È vero che «se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive» (Eriksen, “Tempo tiranno”), ma è proprio a causa di ciò che cresce il senso di angoscia, d’inquietudine, di preoccupazione, di sofferenza, di inconsapevolezza, e la storia ci insegna quanto sia arduo e decisamente azzardato scommettere sulla governabilità di tali emozioni, specie quando si è mossi da convenienze economiche individuali. Non è una sfida sulla quale conviene giocare come costoro sono abituati a fare in borsa; quando si tratta della vita delle persone, della loro sopravvivenza, messa ogni giorno più a rischio, non esiste governo in grado di contenere la rabbia di chi cerca pane da mettere sotto i denti dei propri figli, e poco importerà, in quel caso, quanto siano o meno consapevoli della realtà che li circonda.
Il gioco vale davvero la pena?
Siamo in piena campagna elettorale per le europee, e fino a ieri nessuno aveva messo in discussione le politiche di austerità messe in campo dai governi, che hanno ridotto alla povertà centinaia di milioni di persone non solo in Europa, ma in tutto il mondo cosiddetto “occidentale” (i dati sulla crescita del PIL americano, ad esempio, non dimostra affatto che la qualità della vita sia migliorata, anzi, le disuguaglianze sono in aumento a fronte di una drastica riduzione dei diritti), definizione, questa, implicitamente divenuta una formula autoassolutoria per ogni occasione, un’autolegittimazione per giustificare qualsiasi cosa nel nome di un progresso presunto ma che sistematicamente si è rivelato essere più un difetto che un pregio, più un fallimento che una conquista, più un demerito che un merito. Oggi, a due passi dalle elezioni, sembra che tutti concordino nell’ammettere che tali misure erano sbagliate e che, forse, avrebbero dovuto agire diversamente.
Che dire…? Peccato non averlo capito mentre la gente iniziava a suicidarsi, mentre le fabbriche chiudevano lasciando per strada milioni di famiglie, mentre le associazioni caritatevoli imploravano per essere degnate di un minimo di attenzione (mai ricevuta), mentre lo Stato sociale crollava (e continua a farlo) a causa delle loro politiche assassine. E non è finita, perché oggi si ostinano a parlarne come se tutto ciò appartenesse al passato, come se la ripresa “fosse alle porte”, come se da domani tutto cambierà. E allora mi chiedo come si può essere tanto idioti e sfacciati quando dietro alla propaganda le piccole e medie imprese continuano a chiudere o quelle più grandi a delocalizzare, e le richieste di assistenza crescono a un ritmo incessante? Come si può essere tanto cinici? È possibile non riuscire davvero a trovare limiti decenti e non così offensivi? Dopo aver distrutto milioni di famiglie, solo adesso, a ridosso delle elezioni europee si rendono conto dei loro errori? È la stessa storia che si ripete, fino alla nausea: per un voto venderebbero la propria madre. Sono un pugno di falliti che si possono contare sul palmo di una mano, e nei loro fallimenti hanno trascinano e continuano a trascinare interi popoli. È come se il malato prescrivesse la cura al dottore, che è e deve essere più democrazia, più poteri decisionali al popolo, più partecipazione nelle scelte di governo.
Forse sarebbe il caso di smetterla. Forse è il momento di mandare in onda un altro film.