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Elezioni europee: il malato che prescrive la cura al dottore


Noi, la nostra generazione, quella dei nostri padri, dei nostri nonni, veniamo da una società strutturata sulla base di un’Etica del lavoro sulla quale le nostre identità si sono modellate, educate, organizzate, caratterizzate, determinate. Abbiamo imparato a relazionarci fra noi attraverso le nostre identità lavorative suddivise in categorie, ceti, gruppi, eccetera. La crisi che ci ha investiti dimostra però l’incapacità di alcuni uomini di governo nel garantire lo status di convivenza di tali «gruppi», ma anche una profonda inettitudine a garantire quello individuale. Si è dimenticata l’inevitabilità dell’essere umano d’essere vincolato (ci piaccia o meno), per cause esistenziali, alla coesistenza con altri gruppi al di fuori di uno specifico. Perciò l’accanimento a perseguire la il-logica del successo individuale non potrà che condurci – e ci ha condotti – verso il caos sociale.

La produzione incontrollata, la libera circolazione delle merci, la privatizzazione dello Stato sociale, sono misure partorite da menti offuscate dal profitto, dal voler dimostrare a se stesse (e solo a se stesse) di essere le uniche in grado di governare quella stragrande maggioranza di popolo ‘ignorante’, privo d’ambizioni, e che s’accontenta di quel tanto che gli basta per vivere dignitosamente. Il risultato di questa ostentazione di superiorità (ma che è invece espressione di un grave complesso di inferiorità e di emozioni represse), è quella che oggi viene definita insistentemente, arrogantemente «crisi economica», ma che dovrebbe invece essere chiamata col suo vero nome: «crisi Culturale», per evitare – come del resto è sempre avvenuto – di occultare ancora una volta le radici della grana con cui si vanno a scontrare sistematicamente i «signori dell’individualismo».

Il tentativo miserabile di voler mantenere – ulteriormente – nel limbo, problemi di natura strutturale del modello economico-sociale in corso comprova inconfutabilmente la loro incapacità. La rivoluzione avvenuta nel sistema delle intercomunicazioni non viene presa minimamente in considerazione da lorsignori, confidando e speculando sul fatto che l’eccesso, la sovrabbondanza di notizie messe in circolazione non siano in grado di condizionare o colpire i punti vitali del “loro” modello di società. È vero che «se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive» (Eriksen, “Tempo tiranno”), ma è proprio a causa di ciò che cresce il senso di angoscia, d’inquietudine, di preoccupazione, di sofferenza, di inconsapevolezza, e la storia ci insegna quanto sia arduo e decisamente azzardato scommettere sulla governabilità di tali emozioni, specie quando si è mossi da convenienze economiche individuali. Non è una sfida sulla quale conviene giocare come costoro sono abituati a fare in borsa; quando si tratta della vita delle persone, della loro sopravvivenza, messa ogni giorno più a rischio, non esiste governo in grado di contenere la rabbia di chi cerca pane da mettere sotto i denti dei propri figli, e poco importerà, in quel caso, quanto siano o meno consapevoli della realtà che li circonda.

Il gioco vale davvero la pena?

Siamo in piena campagna elettorale per le europee, e fino a ieri nessuno aveva messo in discussione le politiche di austerità messe in campo dai governi, che hanno ridotto alla povertà centinaia di milioni di persone non solo in Europa, ma in tutto il mondo cosiddetto “occidentale” (i dati sulla crescita del PIL americano, ad esempio, non dimostra affatto che la qualità della vita sia migliorata, anzi, le disuguaglianze sono in aumento a fronte di una drastica riduzione dei diritti), definizione, questa, implicitamente divenuta una formula autoassolutoria per ogni occasione, un’autolegittimazione per giustificare qualsiasi cosa nel nome di un progresso presunto ma che sistematicamente si è rivelato essere più un difetto che un pregio, più un fallimento che una conquista, più un demerito che un merito. Oggi, a due passi dalle elezioni, sembra che tutti concordino nell’ammettere che tali misure erano sbagliate e che, forse, avrebbero dovuto agire diversamente.

Che dire…? Peccato non averlo capito mentre la gente iniziava a suicidarsi, mentre le fabbriche chiudevano lasciando per strada milioni di famiglie, mentre le associazioni caritatevoli imploravano per essere degnate di un minimo di attenzione (mai ricevuta), mentre lo Stato sociale crollava (e continua a farlo) a causa delle loro politiche assassine. E non è finita, perché oggi si ostinano a parlarne come se tutto ciò appartenesse al passato, come se la ripresa “fosse alle porte”, come se da domani tutto cambierà. E allora mi chiedo come si può essere tanto idioti e sfacciati quando dietro alla propaganda le piccole e medie imprese continuano a chiudere o quelle più grandi a delocalizzare, e le richieste di assistenza crescono a un ritmo incessante? Come si può essere tanto cinici? È possibile non riuscire davvero a trovare limiti decenti e non così offensivi? Dopo aver distrutto milioni di famiglie, solo adesso, a ridosso delle elezioni europee si rendono conto dei loro errori? È la stessa storia che si ripete, fino alla nausea: per un voto venderebbero la propria madre. Sono un pugno di falliti che si possono contare sul palmo di una mano, e nei loro fallimenti hanno trascinano e continuano a trascinare interi popoli. È come se il malato prescrivesse la cura al dottore, che è e deve essere più democrazia, più poteri decisionali al popolo, più partecipazione nelle scelte di governo.

Forse sarebbe il caso di smetterla. Forse è il momento di mandare in onda un altro film.

Euro sì; Euro no: parliamo del niente per risolvere niente


Se un’erbaccia non la si sradica, possiamo potarla tutte le volte che vogliamo: lei rispunterà sempre.

Il problema non è l’Euro, ma la nostra Cultura. Se oggi dovessi fare una campagna elettorale sui manifesti ci scriverei: “Più Cultura per tutti!”
Uscire dalla moneta unica non servirebbe a risolvere problemi che sono di natura “concorrenziale“: determinati dal mercato. Anche se tornassimo alla Lira, non potremmo mai competere con paesi come Cina, India, Africa, Sud America, eccetera, dove i costi di produzione rispetto alla “zona euro” sono infinitamente più bassi. Il problema non è la moneta unica, ma la produzione industriale a basso costo e la libera circolazione delle merci e dei capitali. La gran parte delle aziende delocalizza per andare a spendere meno sui costi di produzione. Tutte le aziende europee, e non solo, stanno delocalizzando o dimezzando il personale, certo non per colpa della moneta unica, che ha sì le sue colpe, ma è l’ultima ruota di un carro lanciato verso il burrone sociale.

La moneta unica è un mezzo a disposizione del fine. Togliendo un mezzo non cancelliamo un fine, poiché chi dispone delle possibilità economiche avrà comunque le condizioni favorevoli per trovare altri mezzi.

La favola che i nostri problemi economici derivino dall’Euro è una emerita arma di distrazione di massa che serve a far distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica dal vero problema: la concorrenza. Il vero problema è la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari.

L’unica soluzione sarebbe quella di bloccare le importazioni e le esportazioni “in eccesso” (che sono tante), non indispensabili. Regolamentarle severamente, e seriamente, è l’unica soluzione che abbiamo. Una lenta e graduale riduzione delle importazioni e delle esportazioni, ad esempio alimentari, rispettando tutti i termini delle contrattazioni con le varie aziende produttrici, farebbe aumentare la domanda interna risollevando in un attimo l’economia di ogni Paese. Ad esempio, compriamo le patate fuori dall’Italia? Bene, ci sarà un contratto con l’azienda produttrice; rispettiamo quel contratto fino a scadenza e dopo non lo rinnoviamo. Le aziende agricole italiane se ne gioverebbero: aumenterebbero la produzione e la forza lavoro. Ma possiamo citare le arance, i legumi, i cereali, le carni, eccetera. I McDonald’s ne risentirebbero? Poco male. Dove chiude un McDonald apre McItaly dove si vendono soltanto hamburger nostrani e di qualità ai prezzi dettati dal potere d’acquisto interno, se proprio non ne possiamo fare a meno. E se invece possiamo farne a meno, allora lo sostituiamo con un negozio di alimentari come quelli d’una volta che stavano sotto casa, e che magari con due fette di pane fresco, fatto con soli ingredienti italiani, e due fette di un buon prosciutto crudo, fatto in allevamenti italiani, dà più soddisfazione di un panino fatto di plastica insaporita con gli antibiotici. Certo, dovrebbero farlo tutti i Paesi, ma questo è l’unico rimedio.

Se ogni nazione provvedesse a soddisfare gran parte del fabbisogno interno con le proprie risorse, l’economia nel giro di un paio d’anni rifiorirebbe. Quel che ha distrutto la nostra economia è il consumismo, ovvero la domanda di cose inutili, che non servono a niente. Il consumismo è un comportamento compulsivo, irrazionale, degradante, pericoloso per la stabilità fisica e mentale, individuale e collettiva. Oltre a far aumentare drasticamente l’inquinamento di intere aree, nonché atmosferico, inquina anche il nostro modo di pensare e di rapportarci con tutto quello che ci circonda. La globalizzazione, ossia la libera circolazione delle merci e dei capitali finanziari, è stata voluta dai capitalisti per incrementare illimitatamente, coerentemente con la definizione che li identifica, i loro capitali. Ritornando alla Lira non cambierebbe nulla riguardo alla produzione, all’esportazione e all’importazione delle merci, per questo molti economisti parlano di “sciagura economica” quando si riferiscono a queste nel caso in cui dovessimo tornare alla moneta nazionale. Io non penso che si possa andare incontro alla “sciagura”, semplicemente perché ciò è fuorviante, irrilevante. La sciagura è già in atto. È la produzione illimitata, lo sfruttamento eccessivo delle risorse, e il conseguente nostro “stile di vita“, condizionato dalle pubblicità, dai modelli esposti e imposti ovunque, a causare sciagure economiche che evidentemente nessuno riesce a controllare e regolamentare, proprio perché le norme sono scritte in favore di chi detiene i capitali finanziari, il potere economico e sociale di intere nazioni. La politica è gestita dai capitali, non dai cittadini. La democrazia non esiste nella misura in cui non esistono regole che impongono alle multinazionali di limitare i loro profitti. Sono 85 le persone che detengono la ricchezza della metà del pianeta; ci vuole la metà restante, tutta insieme, per arrivare a fare il mucchio di soldi che hanno quelle 85 persone. È evidente la disparità, l’errata ridistribuzione della ricchezza, dei profitti. Questo non è un problema che riguarda solo la “zona euro”, ma tutto il mondo. Tutto il mondo soffre a causa di questo tipo di globalizzazione. Al contrario la globalizzazione dovrebbe essere culturale, ossia un arricchimento del nostro patrimonio identitario, comunitario ed egualitario. La globalizzazione in atto invece va nella direzione opposta, favorisce le discriminazioni poiché ci sentiamo in concorrenza fra di noi. Ce l’abbiamo con il bengalese perché apre il suo negozio in centro e fa prezzi bassissimi rispetto ai nostri, e così con i cinesi, con gli africani, gli indiani… Però, in realtà, quel che permette tutto ciò è questo modello economico. È quello che dovremmo combattere, non chi “ci porta via lavoro e case”.

Identificare il problema alla radice è l’unico rimedio a disposizione che abbiamo per estirparlo.

P.s. So che è impossibile ridurre le importazioni e le esportazioni: sono un utopista convinto. Ma non pensiamo che tornando alla Lira possa cambiare qualcosa. È una bugia pari alla profezia dei Maya.

Globalizzazione individuale


In fondo, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità in un mondo indirizzato verso la meccanizzazione della vita sociale-lavorativa dell’uomo? I diritti e la libertà, che furono i principi sui quali si era fatto credere di aver fondato l’etica del lavoro, hanno ceduto il passo alla concorrenza economica fra soggetti non egualmente attrezzati e implicitamente esortati ad accumulare capitale da reinvestire a scopo di dominio, del mercato, della forza lavoro, della società stessa. La libertà di pensiero, di parola e di coscienza erano idee sostanzialmente “critiche” che dovevano servire a promuovere e proteggere l’individualità e le libere iniziative che questa implicava, invece oggi stiamo assistendo alla completa soppressione delle identità storico-culturali dei piccoli artigiani, e con esse quelle che compongono la comunità. La globalizzazione economica, ovvero la libera circolazione dei capitali finanziari, ha permesso di creare una rete di dominio che opera mediante la manipolazione dei bisogni e che si estende su tutto il pianeta imponendo percorsi, scelte, abitudini, modelli, con il solo fine di accrescere i profitti di chi detiene le redini del mercato.

Ogni scelta individuale oggi viene fatta in base a giudizi di valore introiettatici dalle pubblicità: bisogni (indotti dal mercato)-vendita (“scelta” dei prodotti sul mercato)-acquisto (soddisfazione dei bisogni)-consumo (esaurimento della soddisfazione); una sequenza ciclica che continua indefinitamente, o almeno “fino ad esaurimento scorte” (vedi foto). Si è perso ogni fondamento logico della tradizionale natura umana in nome di una non ben ancora definita destinazione culturale, oltre quelle del consumo delle risorse e del profitto illimitato, impedendone così l’organizzazione internazionale a favore di un’equa ridistribuzione.

Si stima che entro qualche anno (non è possibile dare un tempo certo data la veloce e progressiva evoluzione tecnologica impiegata in campo industriale) la forza lavoro necessaria alla produzione sarà pari al 20% del totale disponibile; il restante 80% non troverà collocazione nel mondo del lavoro. La meccanizzazione e automazione del sistema produttivo industriale (che annienta il piccolo artigiano a un ritmo vertiginoso) rende inutile, oltre che dispendiosa, la presenza dell’uomo.

Se la strada intrapresa è quella di massimizzare la produzione diminuendone i costi incrementando i profitti, è facile immaginare il futuro che ci attende nel caso in cui questo processo non verrà invertito, o almeno regolato severamente. Allora dobbiamo iniziare a chiederci “criticamente” quali sono le priorità di cui abbiamo veramente bisogno, e quale mondo (e in quali condizioni) vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli.

Dai un’occhiata anche a questi articoli:

Neoliberismo e corruzione

Come si fa a volare con le ali spezzate

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Overclass


“Il fatto centrale della globalizzazione è che la condizione economica dei cittadini di uno Stato-nazione è ormai fuori dal controllo delle leggi dello Stato […]. Siamo ormai di fronte a una “overclass”, una sovraclasse globale che prende tutte le principali decisioni economiche e si rende del tutto indipendente dalle legislature e a maggior ragione dalla volontà degli elettori di qualsiasi paese […]. L’assenza di una “polity” globale significa che i super-ricchi possono agire senza tenere minimamente in conto un qualsiasi interesse diverso dal proprio. Rischiamo di trovarci con due soli gruppi sociali autenticamente globali e internazionali: i super-ricchi e gli intellettuali, cioè coloro che vanno ai convegni internazionali dedicati a misurare i danni fatti dai super-ricchi, cosmopoliti come loro”.

 Richard Rotry

(“Philosophy and Social Hope”, Penguin, Londra 1999, p. 233)

Stato individualista


Thomas Frank (citato da Neal Lowson in “Dare more democracy”, 2005):
Qui Lowson:
«Il governo si è ridotto ad ancella dell’economia globale».
Qui Frank:
«Liberando ulteriormente il mercato e consentendo a esso di estendersi e di inglobare sempre più il settore pubblico, il governo è costretto a pagare il conto del fallimento del mercato, delle esternalità che il mercato rifiuta di conoscere, e deve fungere da rete di sicurezza per gli inevitabili sconfitti dalle forze del mercato».
Bisogna aggiungere, però, che i “fallimenti” occasionali del mercato non sono i soli a stilare la classifica delle priorità di governo. La mancanza di regole alle forze del mercato e la resa dello Stato alla globalizzazione di queste (la globalizzazione degli affari, del crimine o del terrorismo, ma non quella delle istituzioni politiche e giuridiche in grado di controllarli. Ad esempio una legislazione mirata a combattere le mafie è presente in particolare in Italia, ma nel resto del mondo ancora si sta facendo poco o nulla per adeguarsi, quando invece sappiamo bene, come ha affermato in più occasioni il Procuratore aggiunto Nicola Grattieri, che le mafie operano a livello globale: sono laureati e vestono in giacca e cravatta, gestiscono in prima persona, alla luce del sole, i mercati finanziari, della droga, delle armi e del commercio globale), dev’essere pagata, “quotidianamente”, con il disordine e la distruzione sociale: con una fragilità senza precedenti dei legami umani, con la fugacità delle fedeltà collettive e con la deresponsabilizzazione degli impegni e della solidarietà.

I mercati, com’è noto, operano per scopi diversi da quelli dello stato sociale: non hanno interesse affinché si operi a favore della riduzione delle disuguaglianze sociali, e agiscono esclusivamente su un principio di profitto economico “individuale”: ad essi non importa “chi” e “quanti” possono permettersi un posto nella società, ma “quanto” e “quante volte” quei pochi siano invece disposti a mettere le mani nel portafogli.

Woody Allen in “The complete prose of Woody Allen”, con la sua solita ironia pungente afferma che «Più che in ogni altra epoca della storia l’umanità è a un bivio. Una via porta alla disperazione e alla completa assenza di speranze. L’altra porta alla totale estinzione. Preghiamo affinché abbiamo la saggezza di scegliere correttamente […]».

Le politiche dei governi sono sempre più corrotte dai mercati globali.
Non esistono, e non possono esistere, soluzioni locali a problemi che sono di natura globale. Così come non possono esistere soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Le politiche locali agiscono invece per mascherare e compiacere quelle globali. I problemi di natura globale vanno (e devono e possono essere solo) affrontati globalmente. Ciò che invece avviene è l’esatto contrario. L’attenzione alle carenze dello Stato sociale, evidente e palese, si sposta verso quella individuale. Le frustrazioni e le incapacità individuali, che trovano il loro carburante nelle inefficienze dello Stato, sono state dichiarate ormai un problema solo ed esclusivamente di natura individuale. Il “destino”, ovvero il futuro, l’ignoto, che ci hanno esortati a coltivare con cura maniacale affinché possiamo spianarci la strada per una vita migliore, viene “quotidianamente” ridimensionato a dilemma personale, soggettivo, sradicando in noi l’idea che la collettività, la comunità, invece svolge un ruolo fondamentale affinché l’individuo possa trovare terreno fertile sul quale coltivare le proprie aspirazioni e costruire in base ad esse quel “futuro rigoglioso” che invece siamo sollecitati (dai mercati) a cercare scegliendo fra le infinità di prodotti e gadget offerti dal mercato. A noi solo l’imbarazzo della scelta (individuale).
Tanto più si ha la tendenza ad individualizzare problemi di natura sociale quanto più lo Stato sociale è assente.
Oggi infatti siamo convinti che gli altri siano guidati da simili motivazioni egoistiche, dunque non riusciamo ad attenderci da essi più compatimento disinteressato e solidarietà di quanto siamo indotti, allenati e disposti a offrire. In una società che poggia su queste fragili basi, la comunità tende ad essere percepita come un territorio disseminato di trappole e imboscate. A sua volta questa percezione, come in un circolo vizioso, accentua la fragilità cronica dei legami umani che così si autoalimenta.
Uno Stato non può definirsi tale quando opera, legifera, e sostiene pubblicamente teorie individualiste. Siamo davvero a un bivio; oggi più che mai.
Infine, quando la popolazione è frustrata, senza comprendere razionalmente le ragioni effettive della sua frustrazione, a causa dei messaggi contraddittori che assorbe attraverso i mass media (fonti principali di “cultura”, in particolare nel nostro Paese), è conseguenza inevitabile che si verifichino espressioni di violenza, che per loro natura trovano alimento in tali irrazionalità, vendute ovviamente dal mercato.

Tempi moderni


Si ha l’accezione che la società sia incapace di organizzarsi e interagire, come invece avviene nelle comunità locali, che debba quindi essere consigliata necessariamente da qualcuno, e che naturalmente abbia bisogno di esser guidata da un ristretto e privilegiato numero di persone, semplicemente perché la storia antropologica sociale ci racconta questo. Secondo la logica evolutiva, di fatto, esseri umani e animali vivono le loro esistenze basandole su società strutturate gerarchicamente con la funzione di definire ruoli, stabilire regole di convivenza, organizzare le classi sociali e, in particolare nell’uomo, servirsi di simboli intersoggettivi (religiosi, sociali, culturali, etnici) in grado di indicare una direzione, un ideale condiviso da un gruppo. Tutto vero, ovviamente. Ogni epoca è stata caratterizzata da società strutturate gerarchicamente. Generalmente a definire le classi sociali sono le succitate persone privilegiate. Esse, grazie alle conoscenze acquisite proprio per la loro posizione privilegiata (non hanno problemi economici a mandar i loro figli nelle scuole più prestigiose e hanno più facilità nel trovare lavoro nell’ambito dei loro ceti), hanno deciso e decidono il corso della storia dell’uomo, organizzandolo, educandolo, e impartendogli ordini. Sempre la storia ci insegna che solo quando l’oppressione raggiunge metodi insostenibili, nelle società si verificano situazioni in cui gli individui prendono coscienza di sé. In termini marxisti (più moderni) questa consapevolezza viene definita “coscienza di classe”. Le classi sociali più basse prendono coscienza della loro condizione, le ingerenze non vengono più sopportate e si ribellano. È un meccanismo, anche questo, connaturato nell’essere umano. Nelle società moderne questo comportamento fa grande fatica a presentarsi. La debolezza e la superficialità con cui ci poniamo verso la concezione dell’esistenza rallenta, e spesso sopprime sul nascere, segnali di rivolta servendosi di metodi che non erano a disposizione in passato, come la psicologia e il conglomerato dell’informazione. Indebolire psicologicamente il nemico vuol dire aver già vinto metà della battaglia.
Mi chiedo se davvero è possibile far funzionare una società senza differenziazioni sociali.
Ci viene raccontato che la globalizzazione avrebbe dovuto portare uniformizzazione dei consumi e dei modelli culturali, ma nei fatti ci ha condotto verso il consumismo più sfrenato, potendo avere a disposizione qualunque genere di cosa proveniente da qualunque parte del mondo. Questo ha provocato l’aumento della produzione, quindi maggior consumo di risorse e l’aumento dell’inquinamento dovuto in gran parte al trasporto delle merci. Su questo fronte l’essere umano ha fallito, scegliendo un modello di società che amplifica enormemente le differenze fra le varie etnie, per non parlare del grave disequilibrio tra i vari ceti. Chi apparteneva il cosiddetto ceto medio adesso si ritrova di svariati gradini sotto, mentre chi già era ai livelli inferiori ha la sensazione di non esistere più. Non è difficile notare che le popolazioni a fatica riescono a far sentire i loro disagi e la loro rabbia. Quando i mass-media smettono di interessarsi di un problema, possiamo stare sicuri che quel problema scomparirà anche dai nostri pensieri. Da quando è iniziata questa crisi economica abbiamo sentito parlare esperti, luminari, scienziati, premi Nobel, santoni, sensitivi, economisti di ogni genere, cultura e religione, preti, papi, presentatori, show man, politici, maghi, netturbini, calzolai e schiaccianoci! Sono anni che l’informazione ci dà appuntamento al giorno dopo. Sono anni che ci viene detto “questo si può fare”, “domani ci sediamo a un tavolo”, “abbiamo presentato una proposta”, ma soprattutto sono anni che sentiamo dire che “la colpa è tutta sua”. Solo che non si è ancora capito chi è “costui”, e perché tutti dicono la stessa cosa.
La repressione della rabbia, del disagio, della drammaticità in cui versano gran parte delle società mondiali viene fatta con metodo e sistematicità, con un’organizzazione meticolosa di cui non ci rendiamo conto. Sappiamo di star male, lo diciamo, ne parliamo con i nostri amici, con i nostri conoscenti, col passante, col panaio, con la commessa del supermercato, col barista, col fruttivendolo, col tabaccaio, con l’impiegata delle poste, con le persone in coda alle poste! Ne parliamo continuamente, poi torniamo a casa, accendiamo la tivù per sapere cosa è accaduto durante il giorno, guardiamo un tg o aspettiamo il giornale del mattino, ma tutti dicono la stessa cosa, tutti i giorni, incessantemente, inesorabilmente, inquietantemente. Giornalisti che criticano alcuni politici, alcuni politici che criticano giornalisti, politici che criticano la legge ma non la cambiano, domande senza risposta, visioni personali dei fatti, opinioni imbarazzanti, analisi scientifiche di qualunque frase venga pronunciata da chiunque si trovi sotto il fuoco di un microfono o di una telecamera; esperti del comportamento e del linguaggio che si affannano per dire la loro, che sovraffollano il già gremito palco delle analisi ideologiche.
Sarebbe ora di fare un po’ di silenzio, oppure di dare veramente parola a chi se lo merita. Il merito è un altro argomento su cui riflettere più approfonditamente, perché non concerne solo nell’ambito delle virtù e delle capacità individuali. Il concetto di merito non è disciplinato da norme giuridiche; sostanzialmente esprime un’attività del tutto discrezionale, compie valutazioni ed apprezzamenti circa l’opportunità, l’utilità, la convenienza e la giustizia di una certa scelta. Il merito non è l'”X-Factor”. Quanta giustizia c’è nel voler rendere la società indecifrabile? E quanta nel lasciare che questo accada?

Nella storia, si sono avute circa cinquemila società diverse, classificate in base a vari criteri fra i quali: il tipo di religione, le forme dell’economia, il linguaggio, l’istituzione dominate. Questa è la peggiore in termini di libertà psicologica.

Ci sono però segnali positivi.

In tempi recenti si è visto che non è necessario il contatto fisico o la vicinanza geografica per creare un’identità comunitaria, se ci sono comunicazioni efficienti e comuni obiettivi. Si sono, ad esempio, create delle comunità virtuali tramite internet. C’è chi afferma che le suddette comunità virtuali sono frutto di scelte ben precise degli utenti, i quali possono quindi, volendo, entrare e uscirne a loro piacimento, e andare a far parte di altre comunità senza particolari problemi e in tempi ristretti, perdendo così parte del concetto stesso di comunità e facendo in modo che le regole applicabili allo studio delle comunità “materiali” (comunità locali su tutte) non siano universalmente applicabili alle nuove comunità virtuali. Non ci sono ancora studi universalmente riconosciuti riguardo la funzionalità o meno di un modello di società come questo, sappiamo solo che il merito a cui ho fatto riferimento sopra, se lo stanno riprendendo con intelligenza e scrupolo tutti quelli che lo meritano veramente (è il caso di dirlo) e che la storia ha sempre soppresso: gli ultimi. Staremo a guardare. Ma nel frattempo vorrei la smettessero tutti di servirsi dei mezzi di informazione come strumento narciso andando a professare h24 di avere la coscienza pulita. Vorrei si facesse un po’ di silenzio, e che si mettessero a lavorare chi veramente vuole migliorare questa società, e non chi vuole distruggerla proseguendo un modello dichiaratamente fallimentare. Il problema è riuscire a prendere coscienza, e comprendere a chi dare questo merito.

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