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Manifestazioni di dissenso: ecco perché, “grazie ai media”, sono ininfluenti


Ruberie, soprusi, discriminazioni, disuguaglianze e povertà sono in costante crescita in Italia e nel mondo, eppure il popolo sembra aver perso la capacità di ribellarsi, o quantomeno di manifestare disgusto verso una
classe dirigente sempre più incapace, attenta solo a salvaguardare i propri interessi personali e quelli di chi finanzia le loro perenni campagne elettorali. Il dio denaro, sempre lui, abbatte tutto e tutti, comprese le manifestazioni di protesta che hanno da sempre evidenziato il carattere umano, solidale e comunitario delle società nei momenti di maggior sofferenza. Ma da solo il denaro non basta. Bisogna disporre anche dei giusti strumenti (che il denaro ovviamente compra) in grado di corrompere e compromettere la struttura psicologia e percettiva degli eventi cui il popolo viene a conoscenza ogni giorno. Ecco allora che i mezzi di comunicazione di massa, compresi i nuovi media, svolgono un ruolo fondamentale a tal fine.

Un tempo l’uomo si riuniva attorno a un fuoco e più tardi a una tavola imbandita dove assieme con altri consumava i pasti discutendo degli accadimenti passati, quotidiani e di quelli futuri; oggi il fuoco non ha più quell’utilità e i pasti, nell’era dei “fast food”, vengono consumati in tutta fretta e dove capita, magari chiusi ognuno nella propria stanza davanti al proprio televisore sintonizzati sul proprio programma preferito. Si è soli, teoricamente in compagnia di altri individui soli come noi, tuttavia ciò non ha la prerogativa di renderci meno soli. Anzi.

La Tv in particolare, oltre ad essere una fabbrica di stereotipi e di spettacolo, ha la funzione primaria di dare al pubblico spettatore ciò che la fantasia riesce a produrre, ovverosia offre una valvola di sfogo fittizia, priva di reale consistenza capace di placare sul nascere ogni forma di espressione costituita individualmente. Con l’avvento dei talent-show ad esempio — a sostegno di quella che non è certo una teoria — il numero di persone sedotte da essi che aspirano a diventare ballerini, cantanti, attori, scrittori, eccetera, è aumentato smisuratamente. I nuovi media a tal proposito, grazie al prezioso contributo dei social network, amplificano, esaltano e sviluppano ancor di più tutto il materiale che la Tv produce — anche se in alcuni casi può verificarsi l’inverso ottenendo comunque lo stesso risultato —, interagendo fra loro come una protesi fa con chi la indossa.

“Diventare famosi!”, di fatto, è il feticcio cui gran parte della società delle apparenze ambisce. «Essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere i protagonisti delle prime pagine di migliaia di riviste ed essere presenti su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone.

La nostra fantasia produce empiricamente i suoi frutti, ovvero elabora desideri che gli giungono ai sensi attraverso l’esperienza dei fenomeni e degli accadimenti. E in un mondo, come afferma Germaine Greer, in cui “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, ciò che giunge ai sensi è accuratamente selezionato per essi dal mondo dei mass media.

L’aspirazione dell’umanità è sempre stata, utopisticamente, quella di raggiungere la “bellezza” della perfezione — o “la perfezione della bellezza” — e i modelli offerti dai media volgono dispoticamente verso quella che dal modello sociale dominante è spacciata per tale. Ma, come acutamente ci illumina Baudrillard, “la perfezione è sempre stata punita: la punizione della perfezione è la riproduzione”. Perfezione, pertanto, alla quale noi tutti siamo sottomessi indefessamente, cui noi tutti dobbiamo obbedire, sopportare e ambire di riprodurre, imitare per tentare di realizzare le nostre fantasie istigate dalla perfezione stessa dalla quale sono accerchiati.

Ci troviamo così di fronte a un’esibizione criminogena della perfezione, a una produzione di fantasie e aspirazioni bramose, ma l’elemento ancor più preoccupante è la convinzione che si insinua fraudolentemente negli individui, che è quella di fargli credere di star facendo qualcosa che in realtà non fanno; di essere qualcuno che in realtà non sono, e di possedere delle qualità che in realtà non hanno. Possiamo rilevare ciò registrando il tempo che trascorrono sui palcoscenici le miriadi di presunti nuovi talenti smerciati per tali al grande pubblico dalle case discografiche o dagli improbabili talent-scout, che appunto vendono persone come pane fresco, le loro facce, le loro voci, i loro corpi, il loro modo di (farsi) vestire, come fossero ognuno migliore dell’altro, proprio come un prodotto sullo scaffale di un supermercato sulla cui confezione campeggiano frasi come “il migliore in assoluto”, oppure “eletto prodotto dell’anno”. Di facile seduzione per il pubblico, ma anche di seria frustrazione quando chi apre la confezione si rende conto (ma senza prenderne realmente coscienza) che poco differisce dagli altri prodotti, o quando “il talento” stesso si accorge di essere stato rimpiazzato da quello successivo.

Naturalmente il pubblico fatica ad accorgersi di siffatti rimpiazzi poiché tenuto in perenne suspense ed eccitazione dall’annunciato prossimo fenomeno, e quand’anche se ne accorgesse non sarebbe rilevante dacché gli individui cui si rivolge il mercato non sono interessati, anzi, non percepiscono nemmeno certe strategie di marketing. Ma le subiscono; motivo per il quale ambiscono a diventare prodotti loro stessi, convinti di dare alla “perfezione” il proprio contributo, giacché persuasi di esserne portatori.

Ed è in questa riproduzione indefinita di prodotti da consumare che ci smarriamo, che ci consumiamo, e dalla quale usciamo vinti combattendo una battaglia che non siamo noi a chiedere di combattere, ma che ci depreda delle forze e della concentrazione necessarie per affrontare quelle di una vita sempre più avversa, che andrebbero invece osteggiate con impegno e costanza.

Generare un’aspettativa è il vero nocciolo di tutta la questione fin qui trattata. Una società che regge la propria economia grazie ai consumatori, infatti, cresce rigogliosa (gonfiando le sole tasche di chi produce selvaggiamente) finché riesce a rendere perpetua l’insoddisfazione dei suoi membri. In ogni aspetto della vita sociale. Per sostenerla, l’impulso a cercare le soluzioni ai nostri problemi, alle nostre ansie e dolori nei prodotti (o persone) pubblicizzati, non solo è incoraggiato esplicitamente, ma è un comportamento che provoca assuefazione verso l’insoddisfazione e la delusione, diventando abitudine priva di alternativa. Se la soddisfazione fosse definitiva nessuno venderebbe più soluzioni.

Mantenere il consumatore in persistente tensione è la strategia madre di tutte le strategie di vendita adottate dal mercato. Per vendere un prodotto, una persona, un’idea, una riforma, non c’è necessità che questi siano ciò che per cui sono spacciati. Devono rispondere semplicemente all’esigenza di un pubblico che chiede e desidera quanto gli è stato imbeccato di desiderare, di conseguenza, se chiede una rivoluzione basterà piazzare sugli scaffali qualcuno con su scritto sulla maglietta “rivoluzione in corso” per dargli l’impressione di trovarcisi nel bel mezzo; se chiede un talento basterà mandare in scena qualcuno spacciato per tale; se chiede che i suoi sogni possano essere realizzati basterà presentargli qualcuno cui (a tale scopo) sono stati realizzati; se chiede una riforma basterà annunciare qualcosa come tale; se chiede giustizia basterà fare la telecronaca degli arresti eseguiti; se chiede un colpevole basterà indicarglielo; se chiede la fine della fame nel mondo basterà allestire un’Expo; se chiede salari più alti sarà sufficiente fargli credere di avere 80€ in più in busta paga; e via di seguito. Allora è una delusione continua, che genera frustrazione continua, che reprime la rabbia e che ci convince di essere sempre più impotenti di fronte alle infinite complessità che ci vengono rappresentate quotidianamente, ininterrottamente, e alle quali, nonostante tutti i nostri sforzi, non troviamo soluzioni definitive. Del resto ansia da prestazione, eiaculazione precoce e orgasmi simulati sono peculiarità di una società esigente e “fast” come la nostra, insieme ad un consumo sempre più massiccio di antidepressivi.

Thomas Hylland Eriksen spiega perfettamente la società confusa nella quale viviamo:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(“Tempo tiranno”, p. 139 – 144)

Non essendoci narrazione logica, tantomeno percezione di quel che accade attorno a noi, ne consegue che preferiamo astenerci e lasciar fare agli altri, convinti, in senso lato, di dare lo stesso il nostro contributo poiché apparentemente ci sentiamo al centro del dibattito, quale che sia. In fondo, crediamo tutti di essere dei talenti e di poter cambiare il nostro microcosmo, nonostante il sempre più degradato macrocosmo che ci avvolge, e non viceversa, come invece dovrebbe essere.

Yara, Riforme e Mondiali: quando la rivoluzione è un palcoscenico


Se il principale partito italiano, il PD (sic!), è legato a una potenza straniera, l’America, e a una europea, la Germania, che offrono l’esempio di un regime sempre meno edificante, ciò che sorprende non è l’affievolirsi della passione rivoluzionaria, che al contrario viene confezionata e presentata al popolo consumatore di slogan come la più passionale delle rivoluzioni in atto dal dopoguerra ad oggi, ma invece la fedeltà, nonostante tutto, dei restanti (pochi) milioni di elettori al partito che pretende di essere l’unico erede delle speranze rivoluzionarie.

Nella quotidiana e perpetua discussione mediatica, ora su quel provvedimento ora sull’altro, quel che non manca mai sono proprio quegli elementi che rendono la vita politica del Paese immobile, stantia, antipatica, oltre che socialmente molesta, irritante, frustrante. Ci si chiede giornalmente quali sono i motivi che hanno trascinato i cittadini verso una disaffezione cronica nei confronti della realtà sociale e politica senza mai, naturalmente, provare a darsi una risposta definitiva e con questa, da questa, conseguentemente ripartire daccapo rimuovendoli per far sì che le proteste, espresse più che chiaramente col non-voto, siano finalmente ascoltate. Invece, l’imbroglio del 40,8% di elettori che rappresentano un esiguo 23,7% della popolazione elettorale con diritto di voto, viene spacciato ingegnosamente come la maggioranza assoluta del popolo italiano, dalla quale trarre prepotentemente legittimità per appropriarsi indebitamente dei bisogni e delle richieste angosciate di coloro che non ce la fanno più a sopportare questo ridicolo e deleterio gioco psicologico delle parti, dove a chi dice bianco viene contrapposto chi afferma il nero, con un rimpallo di responsabilità infinito, senza mai arrivare a niente, senza mai risolvere niente, se non a garantire l’inattaccabilità e la prosecuzione indisturbata degli affari e delle ambizioni dei singoli attori che prendono parte alla commedia drammatica che è diventata la politica e la società tutta.

Le riforme si fanno in Tv e, si badi bene, non solo negli ormai classici e sempre più avvalorati talk-show, ma anche nelle fiction, nel cinema, nei social, nei blog, nei giornaletti di gossip, durante partite di calcio (i Mondiali in corso sono il palcoscenico per eccellenza dove tutti fanno a gara per dichiararsi ipocritamente parte di una comunità), nei romanzi, nelle manifestazioni di ogni tipo, e in tutto il possibile da spremere e da sfruttare come palcoscenico per presentare ognuno la propria riforma, non in atto, ma rappresentata, appunto. Solo rappresentata. La povera Yara, insieme con tutti i suoi familiari, è vittima 1 milione di volte in questo sporco gioco dei meriti e delle conoscenze forensi, sociologiche e psicologiche dell’assassino che si nasconde nell’abitazione accanto alla tua o fra le quattro mura che si abitano. Una cannibalizzazione degli spazi mediatici e di un protagonismo di competenze (incompetenti e indelicate) che non competono a nessuno al di fuori degli addetti al lavoro specifico del caso specifico, e che purtroppo ha dei precedenti e avrà dei seguiti sempre più esaltati ed esaltanti. E come in ogni circostanza, fatta diventare volutamente di grande impatto mediatico affinché s’intrattengano le attenzioni del pubblico, si deve offrire a quest’ultimo — che subisce — un capro espiatorio, che in questo caso è incarnato dal Ministro Alfano che incastra l’assassino e si prende i meriti, così da condannare implicitamente tutti coloro che hanno pensato si fosse trovato “finalmente” un colpevole, e il presunto assassino stesso, che anche se non fosse lui lo sarà comunque a vita nell’immaginario collettivo. Morale?

Perché ormai è così, dai piani alti, di qualunque settore si tratti, basta dire insistentemente che si sta facendo qualcosa perché questo diventi virale, quindi reale, effettivo, e se qualcuno prova dire che così non è, basta semplicemente ribadire che così invece è, e il gioco del contraddittorio continua indefinitamente, sulla pelle di coloro che di questo genere di intrattenimento mediatico, sponsorizzato e pagato profumatamente dalle aziende che nel frattempo devono vendere i loro prodotti di consumo, ne ha piene le scatole. E che ne ha piene le scatole lo esprime da anni non esercitando il diritto di voto, poiché sa quanto sia diventato inutile, infruttuoso, esercitarlo, forte dei reiterati scandali e corruzioni che ogni giorno la magistratura scoperchia in ogni settore e anfratto della società, ma soprattutto ai piani alti, da dove si “amministra” il Paese.

Dal 2008, anno in cui la crisi economica ha iniziato a fare vittime, il numero dei super-ricchi a livello mondiale è ininterrottamente aumentato: da 8,6 milioni di individui si è passati agli oltre 12 milioni del 2012. Negli Stati Uniti il 10% della popolazione detiene l’85% della ricchezza economica complessiva. C’è un problema di redistribuzione della ricchezza che non può più passare inosservato. Mentre gli animali da palcoscenico, negli interminabili dibattiti, discutono su come affrontare i problemi causati dalla crisi, ma non su quelli che hanno causato quest’ultima, la rivoluzione individualista continua imperturbabile, prepotentemente ostinata sul suo cammino: smantellare lo Stato Sociale per far posto a quei gran geni dei privati, gli stessi che ci hanno impantanato in questo grazioso stato di incoscienza, dove ognuno pensa per sé, nel suo mondo virtuale, ai suoi sogni, desideri, alle sue aspirazioni, che si segregano sempre più nella fantasia, comprensibilmente, non trovando altre valvole di sfogo. E sembra essere proprio questo il futuro che ci attende: mentre fuori, la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, ovvero le socializzazioni, le relazioni, le esperienze, le comunità, eccetera, si va sfaldando sempre più, non resterà altro da fare che aggrapparsi alla costruzione virtuale di essa, sostituendola definitivamente a quella effettiva in carne e ossa, e chissà se poi sarà tanto meglio o tanto peggio. Quel che è certo, è che non sarà mai come la realtà con la quale l’uomo ha sempre fatto i conti. Mi chiedo perciò come possano tornare i conti in una realtà simulata, se in quella in cui noi tutti eravamo abituati a vivere non trovano risultato. E le realtà, si sa, per quanto si faccia fatica ad accettarlo, cozzano sempre l’una con l’altra. Specialmente quando quelle dei paesi vicini, che l’occidente continua a invadere attribuendosene la paternità quando c’è da sfruttare e distruggere, ma ignorandola quando c’è da soccorrere, cercano rifugio nella nostra.

Allora non rimangono che due prospettive per il futuro dell’umanità. La prima è la manna dal cielo: aspettando che la buona fortuna o che altri appianino per noi le difficoltà, e la seconda, quella più probabile e non meno auspicabile, stando ai fatti, è che arrivi il colpo di grazia, cosicché ai costretti a subire le incapacità dei governanti siano abbreviate le sofferenze dell’agonia.

Chissà come sarà il futuro… Nessuno di coloro che dirigono — meglio, fa finta di dirigere — la baracca lo disegnano mai, ma lascia a ognuno di noi la facoltà di idearlo, e non meno idealizzarlo, di modo che tutti possano raggiungerlo senza raggiungerlo o identificarlo mai veramente, collettivamente, come una comunità.

A proposito, non so quanto “Pepe” Mujiha, lo straordinario Presidente dell’Uruguay, non la squadra di calcio, ma lo Stato, segua il calcio; spero quanto me, e allora: forza Uruguay! In tutti i sensi.

La vita? Uno spettacolo in differita


Nel mondo delle apparenze, dei pregiudizi, delle realtà virtuali, dei sogni, della bellezza estetica, le cose sono ciò per cui si spacciano, prevalgono su ciò che c’è, mentre in realtà non sono e neppure ci sono. L’informazione, la cultura, sono diventati oramai atti di fede, convinzioni, anziché il raggiungimento, la realizzazione di una formazione personale attraverso un percorso ateo, fuori dalle dialettiche delle credenze popolari e dai paradigmi mediatici. Crediamo a tutto e a tutti, purché sia proiettato su uno schermo. La nostra è una cultura delle realtà televisive, virtuali, simulate, attraverso le quali ci viene offerto tutto un campionario di risposte stereotipate, preconfezionate, adatte ad ogni occasione della vita.

Persino la socializzazione è divenuta un atto di fede edificata sulle apparenze.

E viene da gridarlo allora sempre più forte, che questa non è più la realtà, ma uno spettacolo che va in onda ininterrottamente, dove ognuno di noi è il protagonista, l’attore principale della performance che ogni giorno va in onda. Ci comportiamo infatti da protagonisti, esponendo il nostro vissuto con la speranza, la prospettiva che sia osservato, pronto da essere proiettato sui grandi schermi, e così tutto quello che facciamo lo facciamo erigendolo sull’attesa che la nostra performance venga notata e mandata in onda. Non si spiega altrimenti l’eccessiva esibizione delle nostre intimità nei social network come nei programmi televisivi. Viviamo in simbiosi con lo spettacolo. La nostra vita è uno spettacolo che chicchessia può osservare e specchiarcisi.

Di fatto non c’è più neppure bisogno di gridare al complotto, d’ipotizzare che questo sia un modello esistenziale voluto da chissà quali menti dittatoriali, poiché l’unico vero tiranno è lo strumento, il medium in sé. La scienze sociali ci insegnano che l’essere umano apprende e opera prevalentemente per imitazione, per appartenenza (a ceti, gruppi, credo, ecc.), e quelle neurologiche che lo fa attraverso determinati neuroni chiamati, non a caso, “Specchio”. Piazzati davanti agli schermi, dentro i quali l’esibizione dell’intima natura umana è spettacolo — che spazza via l’esibizione del reale tangibile, corporea, diretta (e in diretta), priva di intermediazioni — assumiamo noi stessi le ragioni della spettacolarizzazione, dell’esibizione, dell’esternazione dell’intima individualità, che si perde così inesorabilmente e inevitabilmente nel mondo delle apparenze, delle realtà simulate, del varietà, della commedia, della tragedia della vita. Siamo noi, grazie al medium, che promuoviamo, sosteniamo e prolifichiamo realtà ritardate, mediate, indirette, digitali, create, recitate e proiettate in differita.

Viene dunque da chiedersi che futuro ci attende, dal momento che non esistono più presente né passato, schiacciati entrambi da un imperioso apparente, illusorio. Non esiste più memoria individuale organica, vivente, interiore, ma memoria digitale, catodica, sintetica, esteriore. Sembra che tutto voglia stare sulla superficie, che voglia essere visto, identificato, esibito, ma non riconosciuto, contraddistinto, caratterizzato. Paradossalmente, nonostante frustrazioni e psicopatie dilaghino, non riusciamo più ad interiorizzare. Motivo per il quale non riconosciamo più noi stessi e la realtà che ci circonda. Lo dimostrano i dati delle ultime elezioni: non abbiamo bisogno di capire il mondo, poiché il mondo è già spiegato dalla sempre più massiccia ed efficace propaganda. Non abbiamo bisogno di accresce, costituire e affermare per noi stessi la nostra intima individualità, poiché è all’“esterno”, nell’esibizione, che questa trova il “senso”. Non abbiamo bisogno di cambiare il mondo: è già cambiato; nelle nostre illusioni, nelle nostre convinzioni indotte, negli schermi che abitiamo, nella vita che recitiamo.

Conflitto d’interessi: Tv e internet a confronto nell’era dell’informazione “libera”


Ci sono illustri commentatori e opinionisti che considerano internet un potente mezzo di condizionamento delle masse. Diffondono il loro verbo molto spesso per screditare o ridimensionare il fenomeno dell’informazione libera che questo strumento potenzialmente offre, ma che di certo, va detto, non garantisce. Al di là delle ideologie, oggettivamente la rete è un vastissimo spazio dentro il quale è possibile trovare ogni genere di cose che genericamente, in via estrema, possono essere concentrate in due principali categorie: bugie e verità. Collocare ciò che troviamo nella giusta categoria, è una questione non di poco conto e che riguarda la sfera culturale soggettiva.
Assunto ciò, i mezzi che i suddetti chiosatori utilizzano prevalentemente per “trasmettere” il loro messaggio, sono Tv e stampa. Ovvero i medium che più di ogni altro di tutta la storia dell’umanità hanno controllato, indirizzato, influenzato, adattato, contaminato, limitato, suggestionato, sottomesso, sbaragliato, annientato, corrotto, snaturato, manipolato l’opinione pubblica. E senza il benché minimo diritto di replica: i mass media hanno da sempre presentato un pensiero a senso unico, unilaterale: io parlo, tu ascolti. Non hanno mai offerto reali alternative men che meno una diretta interazione. Non vi è dubbio che il compito di verificare la veridicità di quanto trasmesso, anche in questo caso, appartiene al soggetto-spettatore, ma non vi è altrettanto dubbio del fatto che un rapporto di reciproca dipendenza crea un terreno (più “e” meno fertile) sul quale è ancora più possibile coltivare una riflessione.
Forse, e qui il dubbio è più che fondato, c’è un leggero conflitto di interessi nel momento in cui lorsignori si prodigano saccentemente per propagandare il loro messaggio, o meglio, il personaggio che interpretano.

Perché oggi critichiamo tutto?


Non è vero. Anche in passato criticavamo tutto, o almeno quello di cui venivamo a conoscenza, ma è solo di recente che i media si sono accorti che anche il popolo ha dei gusti (criticabili, ovviamente), e “pensa” e si “esprime”.
Partiamo da un fatto incontrovertibile: i mass media hanno da sempre presentato un pensiero a senso unico, unilaterale: io parlo, tu ascolti. Non c’erano alternative e nessuna diretta interazione. Dagli esordi delle comunicazioni di massa si è sempre inscenato uno spettacolo basandolo su questo principio, e con l’avvento della radio prima e della televisione poi, è stato introdotto negli anni in tutte le case, in tutte le famiglie, trasformando tale “canone di unilateralità” in atto routinario culturale, che antropologicamente è sempre appartenuto alle rappresentazioni teatrali. Un altro fatto incontrovertibile è appunto che le maschere, gli attori, che presentavano uno spettacolo al pubblico, da quest’ultimo ispiravano le loro narrazioni, dalla plebe e dai nobili, dalle sfumature dell’uomo, dai suoi intimi difetti o capricci o debolezze, con tutte le contraddizioni culturali del caso. E la caricatura dei difetti dell’uomo era appunto ciò che più attirava (e attira) il pubblico. Ma lo spettacolo, la comunicazione e l’informazione di massa poi, sono sempre stati omologati come “rappresentazione unilaterale“.

Negli ultimi decenni, spettacolo e informazione di massa si sono amalgamati sempre più, andando oltre, nella ricerca esasperata delle più intime sfaccettature dell’uomo, per tenere incollata l’attenzione su se stesso che non sulle radici delle sue drammaticità e inefficienze. In passato il dramma raccontava una storia che aveva una logica narrativa, un messaggio ben preciso, oggi ci troviamo invece di fronte a una rappresentazione esasperata delle contraddizioni umani che non raccontano più una storia, ma un susseguirsi di fatti che non hanno alcuna connessione fra loro, se non la loro stessa contraddizione: non esiste più un percorso definito e definibile, ma tanti sentieri senza indicazioni che formano un labirinto privo di di entrata e vie d’uscita. Tali irrazionalità, divenute oltremisura caricaturali, imbarazzanti, avevano (ed hanno) come unico scopo quello di aumentare i “dati di ascolto” per incrementare i profitti economici derivanti dagli sponsor, dai produttori che investono parte del loro capitale per vendere i loro prodotti. Tutta la comunicazione vive grazie a questi investimenti.

Ogni notizia o spettacolo infatti enfatizza aspramente i lati oscuri e bizzarri dell’uomo che non i suoi aspetti positivi, che invece non riuscirebbero a suscitare la stessa attenzione con altrettanta efficacia, ad eccezione di alcuni casi che, comunque, non incidono sulla regola dominante. L’entrata in scena dei “reality” sono infatti l’emblema e il culmine di quest’abitudine. Lo “spettacolo da buco della serratura” è oggi l’elemento predominante nella comunicazione.

Raccontare le intimità della gente è come circondare scenografia e attori di specchi: è una debolezza umana, ed è normale che allo spettatore venga il desiderio di specchiarsi, di immedesimarsi, di immaginare cosa farebbe “al posto degli altri“. Il narcisismo, come la curiosità, sono elementi che hanno da sempre prevalso negli esseri umani e che lo hanno contraddistinto da qualunque altra forma di vita.

Fatto sta che negli anni la comunicazione si è avviluppata sempre più in se stessa, alla ricerca del profitto anziché del messaggio. Possiamo parlare di un’evoluzione involutiva: ossimoro che rispecchia bene le contraddizioni della comunicazione.
Noi, gli spettatori, come da prassi, abbiamo assistito passivamente a questo processo involutivo, e in un certo qualmodo ancora lo subiamo.

Diciamo pure che se la sono cantata e suonata da soli per anni.

Oggi, però, con l’avvento delle nuove tecnologie, i social network, il digital sharing, si è data voce a tutti, e i media, che per loro natura devono fare spettacolo, trovano nella voce e nelle espressioni del popolo un’inesauribile fonte di materiale da spettacolo, perciò non esiste più un minimo di ragionevolezza nell’informazione.

Per vendere un prodotto – una notizia, un programma, un talk-show, una personalità – si deve colpire l’attenzione del consumatore/spettatore, e non importa quanto quel prodotto sia di qualità o quale contenuto nasconda al suo interno, ciò che conta è la capacità di attirare attenzione su di sé. È un principio fondamentale del marketing, che se non utilizzato complica e riduce l’aspettativa di vita sul mercato del prodotto. Ed è proprio questa concorrenza sfrenata, priva di un fondamento logico narrativo, a rincorrere se stessa senza trovare misura o buon senso.

Il pensiero critico è innato nell’essere umano, non deriva dall’esperienza ma anzi la precede, altrimenti oggi non saremmo qui. Ma quello che non si è capito, o si fa finta di non capire, è che oggi tutto è divenuto pubblico: il pubblico (lo spettatore) è di dominio pubblico. E in questo circolo vizioso, più o meno consapevolmente ci stiamo affogando tutti, informazione compresa, che per prima non riesce a cogliere il senso del profondo cambiamento che è avvenuto nella cultura sociale.

Non esiste, e non può esistere un unico pensiero, e pretendere di spigare questo fenomeno criticando la critica, è davvero paradossale. Ma è ciò che sta avvenendo.

È emblematico, ma solo perché attuale, il caso de “La grande bellezza“, dove leggo di giornalisti che si lamentano del fatto che una parte di italiani o intellettuali critichino l’Oscar assegnatogli, autoinnalzandosi a supercritici inconsapevoli e spesso anche arroganti. Questo è un chiaro esempio di nostalgia del “pensiero unilaterale“. Come si può pretendere che a tutti, tutti, possa piacere qualcosa, qualunque cosa essa sia, alla stessa maniera e con la stessa passione? Allora la “Merda d’artista” di Manzoni, secondo i super critici, dovrebbe piacere oggettivamente a tutti? Oppure oggettivamente non dovrebbe piacere? Per fortuna esiste la relatività, la soggettività, l’individualità. La qualità è quella cosa che sta tra il soggetto e l’oggetto: non si può pretendere di oggettivarla a priori anteponendo i propri gusti come modello universale. È sciocco.

Giornalisti, opinionisti e commentatori che si vantano di essere più intelligenti di altri per il semplice fatto che loro, a differenza di “quegli altri” che non capiscono nulla di cinema (nel caso specifico) e quindi non meritano di esprimersi, certe cose invece le capiscono. Ecco, io vorrei far notare a tutti, tutti, che “il mondo è bello perché vario“, ricco di sfumature, odori, pensieri, culture. Pensa un po’ che noia fossimo tutti uguali.

Un altro esempio di esasperazione è un caso che mi è capitato di vedere sulla Tv pubblica di recente:
Una tizia, sconosciuta alle masse scrive un post sul suo profilo Facebook nel quale esprimeva tutta la sua disapprovazione riguardo a un cambiamento apportato nelle scuole del comune di Milano. Il cambiamento riguardava il riconoscimento delle coppie conviventi dello stesso sesso con figli. Con tale riconoscimento il comune ha deciso di cambiare la voce “Firma dei genitori o di chi ne fa le veci” con “Genitore 1” e “Genitore 2“. Al di là delle considerazioni, che non voglio discutere qui, i media hanno ripreso quel post e ci hanno costruito una puntata sopra dove gli ospiti invitati erano uno psichiatra, un transessuale, una scrittrice e la tizia che aveva scritto il post incriminato. Lo psichiatra, con un evidente spilla a forma di crocifisso attaccata sulla giacca, era contrario alla modifica, e lo esprimeva con rabbia e disgusto. Nella discussione è venuto fuori che lui non ha mai avuto il padre, che è cresciuto con la zia e la mamma, e quando una di loro doveva firmare qualcosa per la scuola non si è mai sentito in imbarazzo per la sua situazione: «Non è una scritta su un foglio che può cancellare l’amore in famiglia». Salvo poi inveire sul fatto che la scritta “Genitore 1” e “Genitore 2” erano quanto di peggio si potesse fare poiché destabilizzano profondamente la psicologia del bambino, che per natura ha un padre e una madre. È evidente la confusione. La tizia che aveva scritto il post non è riuscita a dire mezza parola, la transessuale veniva schiacciata dalle urla dello psichiatra, così come la scrittrice. Risultato: un programma di intrattenimento senza storia né logica, né messaggio. Poi è arrivata la pubblicità.
L’unico elemento certo è che la puntata è stata “organizzata” prendendo come spunto la “critica” di una tizia sconosciuta postata su un social. Ma questo è solo un caso su tanti.

Come sappiamo, grazie alla rete, ai social, al digital sharing, ognuno ha la possibilità di esprimere le proprie idee. È una grande libertà. Ma anche una colpa, un demerito della società, perché nella stessa misura in cui è concessa “libertà” di pensiero, ci è dato il suo opposto: ci incateniamo ad esso e pretendiamo di imporlo con ogni mezzo, perché “noi abbiamo ragione, e la pretendiamo“. Infatti è difficile affrontare una conversazione senza cadere in una discussione litigiosa, spesso fatta di colpi di link. Critichiamo, ma difficilmente accettiamo le critiche.

Assorbiamo tutto e il contrario di tutto, e tutto e il contrario di tutto viene amplificato e rilanciato dai media all’ennesima potenza, fino a generare una concatenazione di eventi che non seguono alcuna logica, ma solo la “notizia” più eclatante, adatta a tenere incollata l’attenzione di un pubblico.

Di fatto, i nostri Tg sono pieni di “social”, di commenti, di email, di video, post, e molti programmi televisivi sono ideati sulla base dei “presunti” gusti del pubblico espressi attraverso i social: pensiamo solo ai “mi piace”. In questa forma esasperante di “assecondare” i gusti del pubblico, mettendo in scena lo spettacolo del “tutto e il contrario di tutto“, chi ne soffre di più, alla fine, è proprio il pubblico, la capacità cognitiva degli individui che lo compongono, il loro senso individuale di percepire il mondo intorno sé, e quindi anche le informazioni che continuamente gli arrivano dai media. E più il pubblico viene portato all’esasperazione, più esasperatamente si cerca di inseguirlo. I media generalmente stavano davanti e il pubblico dietro: oggi il pubblico sta davanti, confuso dai media, e media stanno dietro, confusi dal pubblico che tentano con ogni mezzo di “accontentare“, e lo spettacolo che mettono in scena, esasperatamente confuso, viene riposto davanti al pubblico. È una catena di Sant’Antonio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Per concludere, la confusione è data dal privato che è divenuto di pubblico dominio, che prima dell’avvento dei social era pressoché privato. La comunicazione non riesce a cogliere e a razionalizzare questo cambiamento, e più di tutto non riesce a contenere il disprezzo che prova nei confronti della critica che, come abbiamo visto, fino a pochi anni fa rimaneva dentro le quattro mura di casa, o al bar, o nei teatri, o nelle piazze. Si cerca di accontentare tutti, ma quel che nessuno comprende o fa finta di non comprendere, è che si ottiene l’effetto opposto.

Non è un caso che il mondo dell’informazione sia dominato dall’ignoranza.

L’industria dei consumi


Dovrebbe essere ovvio che tutta questa insistenza sulla necessità di smaltire gli oggetti, abbandonarli, liberarsene, invece che sull’appropriarsene, si adatta alla perfezione alla logica della nostra economia orientata al consumatore. Se la gente si tenesse stretti i vestiti, i computer, gli smartphone o i cosmetici di ieri sarebbe un disastro (e lo è) per un’economia la cui preoccupazione principale, la condizione della sua sopravvivenza, è destinare in tempi rapidi e sempre più serrati i prodotti al “consumatore”, che acquista e vende ormai vicino ai cassonetti della spazzatura; e in un’economia come questa, la velocità di smaltimento dei rifiuti è (dovrebbe essere) l’industria di punta. Ma non è così, quando a mettere le mani su questa sono corrotti e corruttori. La “Terra dei fuochi” è (dovrebbe essere) per noi emblematica; e anche se a prima vista potrebbe sembrare che nelle nostre coscienze tutto questo passi senza lasciare alcuna traccia, è in realtà quanto di più sbagliato si possa pensare: i rifiuti non sono soltanto le confezioni di ciò che acquistiamo e consumiamo; sono tutto ciò che prepotenza, avidità, egoismo e incoscienza fabbricano ogni volta che ci spingono ad oltrepassare i limiti del buon senso e del bene comune, perciò, inevitabilmente, inesorabilmente, sedimentano in noi, rendendo comportamenti illogici, irrazionali e impulsivi normali abitudini, inquinando la nostra coscienza e il nostro senso di appartenenza e di rispetto altrui; nonostante l’industria dello spettacolo e del divertimento si prodighi, ovviamente, per convincerci del contrario.