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Manifestazioni di dissenso: ecco perché, “grazie ai media”, sono ininfluenti


Ruberie, soprusi, discriminazioni, disuguaglianze e povertà sono in costante crescita in Italia e nel mondo, eppure il popolo sembra aver perso la capacità di ribellarsi, o quantomeno di manifestare disgusto verso una
classe dirigente sempre più incapace, attenta solo a salvaguardare i propri interessi personali e quelli di chi finanzia le loro perenni campagne elettorali. Il dio denaro, sempre lui, abbatte tutto e tutti, comprese le manifestazioni di protesta che hanno da sempre evidenziato il carattere umano, solidale e comunitario delle società nei momenti di maggior sofferenza. Ma da solo il denaro non basta. Bisogna disporre anche dei giusti strumenti (che il denaro ovviamente compra) in grado di corrompere e compromettere la struttura psicologia e percettiva degli eventi cui il popolo viene a conoscenza ogni giorno. Ecco allora che i mezzi di comunicazione di massa, compresi i nuovi media, svolgono un ruolo fondamentale a tal fine.

Un tempo l’uomo si riuniva attorno a un fuoco e più tardi a una tavola imbandita dove assieme con altri consumava i pasti discutendo degli accadimenti passati, quotidiani e di quelli futuri; oggi il fuoco non ha più quell’utilità e i pasti, nell’era dei “fast food”, vengono consumati in tutta fretta e dove capita, magari chiusi ognuno nella propria stanza davanti al proprio televisore sintonizzati sul proprio programma preferito. Si è soli, teoricamente in compagnia di altri individui soli come noi, tuttavia ciò non ha la prerogativa di renderci meno soli. Anzi.

La Tv in particolare, oltre ad essere una fabbrica di stereotipi e di spettacolo, ha la funzione primaria di dare al pubblico spettatore ciò che la fantasia riesce a produrre, ovverosia offre una valvola di sfogo fittizia, priva di reale consistenza capace di placare sul nascere ogni forma di espressione costituita individualmente. Con l’avvento dei talent-show ad esempio — a sostegno di quella che non è certo una teoria — il numero di persone sedotte da essi che aspirano a diventare ballerini, cantanti, attori, scrittori, eccetera, è aumentato smisuratamente. I nuovi media a tal proposito, grazie al prezioso contributo dei social network, amplificano, esaltano e sviluppano ancor di più tutto il materiale che la Tv produce — anche se in alcuni casi può verificarsi l’inverso ottenendo comunque lo stesso risultato —, interagendo fra loro come una protesi fa con chi la indossa.

“Diventare famosi!”, di fatto, è il feticcio cui gran parte della società delle apparenze ambisce. «Essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere i protagonisti delle prime pagine di migliaia di riviste ed essere presenti su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone.

La nostra fantasia produce empiricamente i suoi frutti, ovvero elabora desideri che gli giungono ai sensi attraverso l’esperienza dei fenomeni e degli accadimenti. E in un mondo, come afferma Germaine Greer, in cui “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, ciò che giunge ai sensi è accuratamente selezionato per essi dal mondo dei mass media.

L’aspirazione dell’umanità è sempre stata, utopisticamente, quella di raggiungere la “bellezza” della perfezione — o “la perfezione della bellezza” — e i modelli offerti dai media volgono dispoticamente verso quella che dal modello sociale dominante è spacciata per tale. Ma, come acutamente ci illumina Baudrillard, “la perfezione è sempre stata punita: la punizione della perfezione è la riproduzione”. Perfezione, pertanto, alla quale noi tutti siamo sottomessi indefessamente, cui noi tutti dobbiamo obbedire, sopportare e ambire di riprodurre, imitare per tentare di realizzare le nostre fantasie istigate dalla perfezione stessa dalla quale sono accerchiati.

Ci troviamo così di fronte a un’esibizione criminogena della perfezione, a una produzione di fantasie e aspirazioni bramose, ma l’elemento ancor più preoccupante è la convinzione che si insinua fraudolentemente negli individui, che è quella di fargli credere di star facendo qualcosa che in realtà non fanno; di essere qualcuno che in realtà non sono, e di possedere delle qualità che in realtà non hanno. Possiamo rilevare ciò registrando il tempo che trascorrono sui palcoscenici le miriadi di presunti nuovi talenti smerciati per tali al grande pubblico dalle case discografiche o dagli improbabili talent-scout, che appunto vendono persone come pane fresco, le loro facce, le loro voci, i loro corpi, il loro modo di (farsi) vestire, come fossero ognuno migliore dell’altro, proprio come un prodotto sullo scaffale di un supermercato sulla cui confezione campeggiano frasi come “il migliore in assoluto”, oppure “eletto prodotto dell’anno”. Di facile seduzione per il pubblico, ma anche di seria frustrazione quando chi apre la confezione si rende conto (ma senza prenderne realmente coscienza) che poco differisce dagli altri prodotti, o quando “il talento” stesso si accorge di essere stato rimpiazzato da quello successivo.

Naturalmente il pubblico fatica ad accorgersi di siffatti rimpiazzi poiché tenuto in perenne suspense ed eccitazione dall’annunciato prossimo fenomeno, e quand’anche se ne accorgesse non sarebbe rilevante dacché gli individui cui si rivolge il mercato non sono interessati, anzi, non percepiscono nemmeno certe strategie di marketing. Ma le subiscono; motivo per il quale ambiscono a diventare prodotti loro stessi, convinti di dare alla “perfezione” il proprio contributo, giacché persuasi di esserne portatori.

Ed è in questa riproduzione indefinita di prodotti da consumare che ci smarriamo, che ci consumiamo, e dalla quale usciamo vinti combattendo una battaglia che non siamo noi a chiedere di combattere, ma che ci depreda delle forze e della concentrazione necessarie per affrontare quelle di una vita sempre più avversa, che andrebbero invece osteggiate con impegno e costanza.

Generare un’aspettativa è il vero nocciolo di tutta la questione fin qui trattata. Una società che regge la propria economia grazie ai consumatori, infatti, cresce rigogliosa (gonfiando le sole tasche di chi produce selvaggiamente) finché riesce a rendere perpetua l’insoddisfazione dei suoi membri. In ogni aspetto della vita sociale. Per sostenerla, l’impulso a cercare le soluzioni ai nostri problemi, alle nostre ansie e dolori nei prodotti (o persone) pubblicizzati, non solo è incoraggiato esplicitamente, ma è un comportamento che provoca assuefazione verso l’insoddisfazione e la delusione, diventando abitudine priva di alternativa. Se la soddisfazione fosse definitiva nessuno venderebbe più soluzioni.

Mantenere il consumatore in persistente tensione è la strategia madre di tutte le strategie di vendita adottate dal mercato. Per vendere un prodotto, una persona, un’idea, una riforma, non c’è necessità che questi siano ciò che per cui sono spacciati. Devono rispondere semplicemente all’esigenza di un pubblico che chiede e desidera quanto gli è stato imbeccato di desiderare, di conseguenza, se chiede una rivoluzione basterà piazzare sugli scaffali qualcuno con su scritto sulla maglietta “rivoluzione in corso” per dargli l’impressione di trovarcisi nel bel mezzo; se chiede un talento basterà mandare in scena qualcuno spacciato per tale; se chiede che i suoi sogni possano essere realizzati basterà presentargli qualcuno cui (a tale scopo) sono stati realizzati; se chiede una riforma basterà annunciare qualcosa come tale; se chiede giustizia basterà fare la telecronaca degli arresti eseguiti; se chiede un colpevole basterà indicarglielo; se chiede la fine della fame nel mondo basterà allestire un’Expo; se chiede salari più alti sarà sufficiente fargli credere di avere 80€ in più in busta paga; e via di seguito. Allora è una delusione continua, che genera frustrazione continua, che reprime la rabbia e che ci convince di essere sempre più impotenti di fronte alle infinite complessità che ci vengono rappresentate quotidianamente, ininterrottamente, e alle quali, nonostante tutti i nostri sforzi, non troviamo soluzioni definitive. Del resto ansia da prestazione, eiaculazione precoce e orgasmi simulati sono peculiarità di una società esigente e “fast” come la nostra, insieme ad un consumo sempre più massiccio di antidepressivi.

Thomas Hylland Eriksen spiega perfettamente la società confusa nella quale viviamo:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(“Tempo tiranno”, p. 139 – 144)

Non essendoci narrazione logica, tantomeno percezione di quel che accade attorno a noi, ne consegue che preferiamo astenerci e lasciar fare agli altri, convinti, in senso lato, di dare lo stesso il nostro contributo poiché apparentemente ci sentiamo al centro del dibattito, quale che sia. In fondo, crediamo tutti di essere dei talenti e di poter cambiare il nostro microcosmo, nonostante il sempre più degradato macrocosmo che ci avvolge, e non viceversa, come invece dovrebbe essere.

“Volere è potere”…?


È il concetto forse più diffuso nel mondo: volere è potere. Bene, vediamo quanta verità c’è in tutto ciò.

Considerando questa una società fondata sul reddito, ovvero sui salari, il lavoro, che è fonte di reddito, permette agli individui che ne fanno parte di trovare e ottenere una collocazione, un ruolo in essa. Il lavoro è il principale strumento messo a disposizione degli individui, per garantire loro un’esistenza, d’essere riconosciuti, di avere un’identità (l'”etica del lavoro“, storicamente, è stata fondata su questo genere di postulati), essendo questo appunto un modello sociale strutturato su di esso. Stabilito quanto appena detto, dobbiamo far lo sforzo di inquadrare l’attuale crisi economica (come quelle che l’hanno preceduta) come l’espressione di un problema ben più profondo di quel che immaginano o siamo portati a credere. È come la febbre: indica una “malattia in corso“, una malattia che è causa di ben più vittime di quante ne abbiamo percezione.

Facciamoci dunque qualche domanda.

“Questa società è una società sana?”
La consapevolezza gioca un ruolo fondamentale quando cerchiamo di rispondere a questa domanda. La coscienza è uno stato che si può raggiungere soltanto attraverso la comprensione dei problemi che ci circondano, e mai con il “pre-giudizio“. La società, e la convivenza “in e con essa“, peggiora proprio a causa della carenza di consapevolezza. Sovrastati come siamo di notizie, tutte in contraddizione fra loro, non siamo più in grado di definire ed identificare i problemi che ci circondano, poiché inconsapevolmente ci asteniamo dall’affrontare un’analisi più approfondita. Lasciamo che siano altri a sbrigarsela. Ci sono così tante verità, che non siamo in grado di valutare coscienziosamente cosa è più giusto per la comunità (quindi per noi stessi) e cosa invece non lo è; inversamente non ci troveremmo in questa situazione.

“Volere è potere”.
La “volontà” è un concetto fideistico, astratto, metafisico, indipendente dalla ragione, mentre il “potere“, di contro (semanticamente), significa “avere la possibilità“, “il diritto”, “il permesso”, e deve essere “possibile”, “consentito”, “lecito”, “probabile”, pertanto chi ne fa uso deve disporre dei mezzi affinché “possa esprimerlo“, concretizzarlo. Perfino il Papa (oggettivamente il più sociologo di tutti i Papi) chiama fuori la fede nel caso dell’esclusione sociale, ovvero quella condizione che esclude tutti coloro che non hanno le possibilità materiali e spirituali adatte ad esercitare un potere. Il potere oggi è inteso perlopiù come espressione di comando, di supremazia, di controllo (su di sé e su quanto gira intorno), di sopraffazione psicologica e materiale, perciò siamo esortati a pensare che “volere è potere”. È un’astrazione ambiziosa, e gli esseri umani – strano ma vero – non sono tutti ambiziosi, seppur oggi siamo condizionati ostinatamente (efficacemente) a concepire il contrario. La società è (dovrebbe essere) fatta di individui uguali, con eguali diritti e doveri, ma con diversità interiori, intime, riconosciute e accettate da tutte, e il fatto che oggi l’individualità (che noi confondiamo ormai con l'”individualismo” egoistico) sia continuamente schiacciata dagli stereotipi, non legittima a pensare che non esista. È un’opinione irrazionale, radicalmente errata: fa acqua da tutte le parti.
Il “potere“, inoltre, è oggi sempre più un concetto che concerne al materialismo, al positivismo (che in filosofia sono intesi come tutto ciò che concerne ai problemi “pratici della vita”), al meccanicismo (la vita intesa come movimento spaziale dei corpi, in senso materialistico-meccanico, ovvero il predominio della materia sullo spirito), nonché all’ambizione, alla pre-supponenza, alla presuntuosità. I due termini, “volere” e “potere” non vanno necessariamente d’accordo. “Volere è potere” è una locuzione che esclude implicitamente tutti coloro che non ci riescono.

“Quali sono quindi le conseguenze?”
Gli individui sono spesso portavoce inconsapevoli delle istituzioni, delle influenze, degli interessi incorporati al tessuto economico-sociale. E secondo questo modello sociale, fondato appunto su interessi economici, essi sono esortati a pensare che ognuno debba provvedere per sé, acquistando le soluzioni ai loro problemi da chi li crea, e promette di risolverglieli. Chi non ha reddito, e non può procurarselo poiché non ci sono le condizioni materiali sociali, viene automaticamente escluso dal “cerchio magico” delle soluzioni esposte e pubblicizzate in ogni dove e quando, pertanto ragionevolmente non potrà che esprime frustrazioni; proprio per il fatto che intimamente si considera incapace, di conseguenza tende a somatizzare tali frustrazioni attraverso atti di violenza, psicopatie, disturbi del comportamento in generale, astio e repulsione nei confronti delle istituzioni che «mi hanno abbandonato». L’astensione elettorale dovrebbe far riflettere molti, “riflettere” però in modo più approfondito. I problemi individuali odierni derivano dalla società che ci circonda, e non viceversa: non sono gli individui ad affrontare male la società, ma è la società, così indirizzata, e governata da interessi privati, a mettere a disposizione dei cittadini scelte sbagliate affinché se ne tragga il maggior profitto economico possibile. Ma appunto, sono scelte sbagliate.

Oggi c’è un rimedio a tutto, e tutti consigliano “come si deve essere“, e “cosa si deve fare” per “star meglio“. Ognuno provvede per sé, dimenticando un fatto imprescindibile: viviamo in una comunità, e che le nostre distrazioni, le nostre scelte, e le nostre ambizioni personali, escludono di fatto gli altri membri, ossia coloro che non hanno ambizioni, che non si riconoscono in una società nella quale si è considerati solo se si consuma, se si ha un reddito da spendere e se si ha una marcata attitudine alla competizione, appunto alle ambizioni e alla realizzazione (costi quel che costi) di esse .

“Non bisogna deprimersi, abbattersi, e non dobbiamo utilizzare come alibi il malfunzionamento della società”.

Proviamo a metterci nei panni di chi “vorrebbe“, ma non può.
L’esclusione sociale è una cosa seria, come lo è la depressione. Chi ci è entrato sa quanto si è fragili, e soprattutto inconsapevoli delle proprie potenzialità, quando si è depressi. Di fatto, i suicidi dall’inizio dell’anno sono stati centinaia. Il suicidio è uno dei termometri più efficaci per misurare la febbre a una società. Gli altri sono, nell’ordine, l’occupazione, dunque il livello di povertà, la qualità dell’esistenza pertanto i salari e le disposizioni materiali rispetto al costo di una vita degna, l’inquinamento, lo sfruttamento delle risorse, l’astensione elettorale, e la salute, che è la somma conseguente di tutti i succitati fattori. In un modello economico come questo si riesce a vivere solo se si ha un reddito. Se non si dispone di un salario, conseguentemente anche la vita viene vissuta male, indegnamente.

La società ha una struttura molto più complessa rispetto alle semplificazioni e le generalizzazioni stereotipate che recepiamo attraverso i mezzi di comunicazione. E purtroppo crediamo tutti che le questioni siano o bianche o nere, senza sfumature. Allora, noi siamo tutti uguali quando ci dicono che “volere è potere”, mentre le istituzioni si giustificano dichiarando che non hanno scelta, che “vorrebbero ma non possono”, che “non ci sono alternative” (metodo TINA, escamotage politico utilizzato pesantemente dalla Tatcher in poi: “There Is No Alternative“). Noi, individualmente, “se vogliamo possiamo“, mentre le istituzioni “vorrebbero ma non possono“. Appare almeno un po’ contraddittorio?

Eppure dovrebbe esser facile pensare che la medesima situazione alcuni la vivono in un modo, mentre altri in maniera diversa. Come dovrebbe esser facile sapere che i mali della società derivano da scelte politiche; scelte fondate indubbiamente sul profitto economico. Ma evidentemente non lo è, e io non me la sento di dar la colpa a chi non riesce a comprenderlo, a metterlo a fuoco. Non sono nessuno per giudicare, ma uno sforzo dobbiamo cercare di farlo tutti, insieme, per dare il giusto significato a quanto ci circonda. Guardiamo la società nel suo complesso, dove “non ci è possibile” individualizzare, scaricare sul singolo individuo tutti i suoi mali. Non avrebbe (e non lo ha) alcun senso. In ogni caso, tutti i più grandi studiosi dei fenomeni sociali indicano questo modello di società come un qualcosa di malato, di perverso. Forse allora sbagliano? Se sì, dove e perché? Perché se sbagliano, oggi dovremmo vivere tutti in un paradiso.

La povertà, tra indifferenza, diffidenza e superficialità


Ho, purtroppo, modo di interloquire sempre più spesso con persone che considerano la condizione di povertà l’effetto di un’incapacità esclusivamente personale, una caratteristica di quelle persone che non riescono, giacché non vogliono, a trovare una posizione sociale e quindi a realizzare una vita come quella di tutti gli altri che, invece, riescono a concretizzare perché ne hanno la volontà. Costoro pensano che il mondo sia costituito per una parte da predatori, sciacalli, imbroglioni, astuti, ingegnosi, volenterosi e interessati, di conseguenza immaginano che l’altra sia fatta di ingenui, sprovveduti, imbranati, sfaticati, oziosi, privi di interesse, lamentosi e parassiti. Plagiati quotidianamente da stereotipi, luoghi comuni, banalità e quant’altro capiti di ascoltare o leggere attraverso i media, come dargli torto. E dal momento che “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, il propagarsi di tali preconcetti è inesorabile. A dispetto quindi di quel che conseguentemente una crisi — che nessuno ha voluto — produce, ovvero povertà e degrado sociale, gli indigenti sono tuttavia elaborati come degli incapaci.

È, molto spesso, il povero stesso a ritenersi incapace, non all’altezza delle situazioni e dei problemi che è suo malgrado costretto a fronteggiare. Ed è anche il motivo principale che trascina un individuo alla depressione, e nei casi più estremi anche al suicidio, senza contare le umiliazioni con le quali si scontra ogni giorno e le frustrazioni che ne conseguono. E le umiliazioni sono proprio gli sguardi e i preconcetti di coloro che li considerano degli inetti, per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili nei confronti di chi versa in condizioni di miseria, facendo lo sforzo di comprendere che le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità.

Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in conto alcuni aspetti che una crisi come quella che stiamo vivendo genera: il terreno sul quale camminiamo che si fa sempre più fragile, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali inevitabilmente ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora e che non a tutti riesce facile governare, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e dunque tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche che diventano sempre più difficili da curare a causa della mancanza di risorse economiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.

Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità individuali per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha l’attitudine di diventare predatori, sciacalli, egoisti, astuti a nostra volta. Una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli “attrezzati”. Pensarlo equivale a essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo altezzosamente il resto del mondo. Coprire gli occhi, tappare le orecchie e turare il naso, durante la nostra corsa sfrenata verso il “successo”, poiché vedere, ascoltare i lamenti e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, non serve a nessuno, se non ad alimentare un egoismo e un’inconsapevolezza sempre più diffusi.

Il problema è che non siamo disposti e disponibili a vedere, ascoltare e sentire; l’uomo non è un essere incline a misurarsi con il “brutto”, con la bassezza umana, ma solo con il bello. È ininterrottamente esortato, sollecitato a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, “silenziosi”, e dunque sempre più irraggiungibili, convinto che ciò possa rendere bella, pulita e silenziosa anche la sua coscienza, tranquillo, sicuro di non aver colpe per le disgrazie altrui con il suo comportamento.

Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto ci si possa spruzzare di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare, classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”.

E poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei “loro” confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, ci vengono allora in aiuto espedienti in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà. Primo fra tutti è il metodo più semplice da adottare e anche il più efficace (non in termini di solidarietà; efficace per placare egoisticamente la nostra coscienza): quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione” si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato, inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.

Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere (vedi violenze e reati diffusi); più il numero dei malati di cancro aumenta, più saremo costretti a non vedere, non ascoltare, e a non sentire l’odore. L’indifferenza, la diffidenza e la superficialità dilaganti con le quali affrontiamo certi argomenti, e con le quali mi scontro ogni giorno, lo attestano chiaramente. E quanto vorrei sbagliarmi…

“Bisogna avere più cervello e meno cuore…”, perché siam bravi tutti a parole


Dicono che non siamo razzisti ma xenofobici, poiché la xenofobia è la paura dello straniero (quella che con tanta veemenza ci viene attribuita), mentre il razzismo si esprime con un sentimento di odio verso una determinata etnia. Pensandoci bene, però, cos’altro potrebbe mai essere, se non odio, quel sentimento che ci induce a pensare che i respingimenti in mare degli immigrati sono l’unica politica perseguibile? Abbiamo forse paura degli americani in vacanza? Dei turisti giapponesi o cinesi? I tedeschi non ci facevano paura quando in massa venivano in villeggiatura da noi, come pure i ricchi russi di oggi non ce ne fanno, eppure anch’essi sono stranieri. Non sarà che discriminiamo solo chi non ha denari da spendere? Non proviamo forse odio verso coloro che “invadono” il nostro territorio privandoci delle risorse? Siamo disposti a lasciarli egoisticamente al loro destino certo di morte e violenze, e non vogliamo ammettere che si tratti di odio? Siamo certi non si tratti di una grande ipocrisia?

La xenofobia è come l’aracnofobia o la musofobia (la paura dei topi) e, come tutte le “fobie” conosciute fino ad oggi, che possono manifestarsi più o meno acutamente, esprimono repulsioni perlopiù ingiustificate verso qualcosa o qualcuno: proviamo a mettere un ragno davanti agli occhi di un aracnofobico e osserviamone le reazioni. Se andiamo in un ristorante costoso e ci mettiamo accanto al tavolo dove è seduto un africano pieno di soldi vestito in giacca e cravatta, viene mica da pensare di scacciarlo via? Eppure è uno straniero, e uno straniero con i soldi non è pur sempre uno straniero? E i ragni di qualunque specie non sono pur sempre ragni? Si penserà allora che non si tratta nemmeno di razzismo, ma non è proprio così. Anche razzisticamente, paradossalmente, facciamo discriminazioni. Negli ambienti comuni non conta più il colore della pelle o la provenienza etnica di taluni ma quello dei fogli di carta dentro i loro portafogli. Il razzismo oggi è andato oltre la razza e la xenofobia è andata oltre lo straniero: sono entrambi sentimenti liquidi (che si conformano in base alle circostanze) che trovano sempre più motivazioni nei conti in banca. Le razze sono due e sono valutate distintamente in base alle disposizioni economiche di ognuno, così il povero viene implicitamente sistemato all’interno della “razza inferiore” o marginale, mentre il ricco in quella “superiore” o centrale. Tuttavia a un bambino povero italiano concediamo più volentieri il diritto di vivere rispetto a un bambino straniero nelle stesse condizioni: “prima vengono i nostri bambini” è il mantra in voga negli ultimi anni. Se non ci importa della sofferenza di un povero bambino straniero, come ci potremmo definire? Non sono tutti uguali i bambini? Ci dichiariamo contro la vivisezione, gli stupri, la pedofilia, gli omicidi, i femminicidi, i genocidi, ma siamo pronti a girarci dall’altra parte davanti alla prova dei fatti. Ciò dimostra chiaramente il clima di contraddizioni nel quale siamo caduti, e quanto bravi sappiamo essere a parole.

Ci troviamo così difronte a un modo inconsueto di considerare il prossimo. L’aumento delle discriminazioni ha fatto sì che questo genere di valutazioni immotivate prendessero il sopravvento, al punto che il carattere umano di ciascuno venisse oscurato prima dalla provenienza etnica, poi dalle apparenze e infine dalle sole possibilità economiche. È un pensiero sempre più comune, infatti, ritenere capaci e degne solo le persone che dimostrano di possedere la volontà di arricchirsi e avere successo all’interno della società.

Siamo dunque tutti un po’ xenofobi, un po’ razzisti, un po’ egoisti, ma soprattuto nazionalisti e disumani, però nessuno sa più come autodefinirsi, perciò devono suggerircelo: da soli non ne siamo più capaci.

Dopo le recenti elezioni europee, uno dei messaggi più chiari che il popolo ha espresso è stato quello di voler chiudere le frontiere. Dopo anni che i mezzi di comunicazione di massa presentano all’opinione pubblica rivolte, violenze, attentati, massacri, che avvengono nei paesi più poveri descrivendoli implicitamente come gli effetti provocati da popoli e culture inferiori alla nostra, incapaci di farsi governare, adatti solo a parassitare d’elemosina — essendo esseri intellettualmente inetti —, dediti alla sottomissione e all’annullamento del sesso femminile, abituati a vivere dentro baracche igienicamente lontane millenni dalle nostre moderne case con giardino e sanitari, a non lavarsi e a non cospargersi di creme di bellezza, a mangiare con le mani sporche di terra… quella terra che esiste sempre meno nell’immaginario collettivo del popolo europeo… dicevo, dopo anni di oppressione attuata dalla propaganda di regime, siamo finalmente pronti a scegliere di essere ciò che ci è stato viscidamente imposto.

Parliamo del limbo in cui è caduta la coscienza rispetto a fatti avvenuti negli anni delle Guerre, del fascismo, durante i quali fu messa in atto una delle oppressioni più violente che l’umanità abbia mai conosciuto, e che dovremmo aver desiderio di ricordare proprio per non dimenticare le atroci sofferenze che le generazioni passate furono costrette a subire affinché non si ripetano. Tuttavia, ricordare un’evento è oggi una pratica buona solo a scrollarci di dosso la responsabilità che abbiamo proprio per evitare che simili disumanità ricompaiano sulla scena della civiltà: ricordiamo limitatamente, in maniera contenuta, circoscritta, in un determinato giorno dell’anno, fatti e avvenimenti che invece meriterebbero di essere affrontati facendo lo sforzo di immergerci “empaticamente” nel clima sociale di quegli anni.

Oggi molti hanno dubbi (molti altri non sanno nemmeno di cosa stia parlando), ad esempio, sulla responsabilità diretta dell’Italia e di Mussolini nell’esplosione della Seconda Guerra mondiale che, ricordiamolo, fu dichiarata di comune accordo dal governo fascista e da quello nazista tedesco. Furono oltre 56 milioni i morti su tutto il pianeta, e in gran parte civili, ma i civili non erano solo tra i morti, poiché molti altri sostennero la dittatura, come quelli che riempivano le piazze italiane per esprimere amore e sostegno al Duce. E i dubbi sono proprio figli di coloro che hanno fatto di tutto per mantenere vivo il ricordo di un fascismo “utile ed efficiente”, omettendo, naturalmente, o arrivando perfino a giustificare, tutte le nefandezze di cui si è macchiato. Forse questo lo abbiamo dimenticato, e forse proprio perché nessuno lo ricorda mai abbastanza, quasi a voler nascondere l’errore per sottrarsi dall’impegno quotidiano dell’ammenda, che interessa ognuno di noi, nessuno escluso. E abbiamo dimenticato anche quanti furono gli italiani fuggiti all’estero durante il periodo nazifascista. Consideriamo solo che dopo la Liberazione rientrarono nelle case, 20 mesi più tardi, i 200.000 partigiani e i circa 500.000 italiani nascosti o fuggiti all’estero nonché i 1.360.000 prigionieri sparsi in tutto il mondo, senza contare quelli che sono rimasti e mai più tornati, fondando e radicando comunità in ogni angolo di esso. Come poteva essere la vita in un paese in quelle condizioni?

Emerge così il problema dell’informazione. Abbiamo, in Italia, ma non solo, dei poteri che controllano i media e tutto quello che ci passa dentro, che sono arrivati a sconvolgere la realtà e la storia con una efficacia pari solo al periodo propagandistico nazifascista. Alcuni di questi sono così spudorati da essere capaci perfino di spacciarsi come le vittime delle campagne mediatiche. Abbiamo giornali, televisioni, convegni, che diffondono in abbondanza la propaganda egemone-nazionalista, riuscendo a offuscare valori e ricordi che piuttosto andrebbero custoditi con cura e rispetto. Il risultato è che si è delineato un vero e proprio odio nei confronti di chi chiede aiuto, non solo verso lo straniero: odiamo “la razza inferiore in difficoltà” poiché la consideriamo un’ostacolo per il nostro benessere. Siamo xenofobici, dicono, ma la verità è che si tratta di un po’ di tutto: razzismo, xenofobia, nazionalismo, disumanità.

Sorprendono, per esempio, le enormi contraddizioni che emergono fra tutti coloro che si dichiarano solidali, e che ritengono personaggi come Grandhi, Papa Francesco, Madre Teresa di Calcutta, modelli di umanità da seguire e emulare, quando invece alla prova dei fatti viene a galla quel che in realtà sono diventati: dei perfetti egoisti amanti delle belle frasi ad effetto. È diffuso infatti il sentimento patriottico che sembra non avere più attenzione per gli altri, giacché tantomeno ne riceve. Un sentimento che raggiunge connotazioni di vero entusiasmo e sentita passione in ormai troppi casi. Un protagonismo egemone entrato di soppiatto nella nostra cultura, insinuandosi nelle nostre menti come i più “ingegnosi” e potenti virus informatici fanno con i cervelli elettronici. Quelli più esposti sono difatti coloro che guardano e sperimentano la vita attraverso uno schermo qualsiasi, ovvero prevalentemente i giovani, schermo-dotati ormai fin dalla nascita. È stato ed è, quello della gioventù, un mondo percorso attraverso evoluzioni mediatiche sempre più presenti ed efficaci e viceversa.

Continua…

Elezioni europee: il malato che prescrive la cura al dottore


Noi, la nostra generazione, quella dei nostri padri, dei nostri nonni, veniamo da una società strutturata sulla base di un’Etica del lavoro sulla quale le nostre identità si sono modellate, educate, organizzate, caratterizzate, determinate. Abbiamo imparato a relazionarci fra noi attraverso le nostre identità lavorative suddivise in categorie, ceti, gruppi, eccetera. La crisi che ci ha investiti dimostra però l’incapacità di alcuni uomini di governo nel garantire lo status di convivenza di tali «gruppi», ma anche una profonda inettitudine a garantire quello individuale. Si è dimenticata l’inevitabilità dell’essere umano d’essere vincolato (ci piaccia o meno), per cause esistenziali, alla coesistenza con altri gruppi al di fuori di uno specifico. Perciò l’accanimento a perseguire la il-logica del successo individuale non potrà che condurci – e ci ha condotti – verso il caos sociale.

La produzione incontrollata, la libera circolazione delle merci, la privatizzazione dello Stato sociale, sono misure partorite da menti offuscate dal profitto, dal voler dimostrare a se stesse (e solo a se stesse) di essere le uniche in grado di governare quella stragrande maggioranza di popolo ‘ignorante’, privo d’ambizioni, e che s’accontenta di quel tanto che gli basta per vivere dignitosamente. Il risultato di questa ostentazione di superiorità (ma che è invece espressione di un grave complesso di inferiorità e di emozioni represse), è quella che oggi viene definita insistentemente, arrogantemente «crisi economica», ma che dovrebbe invece essere chiamata col suo vero nome: «crisi Culturale», per evitare – come del resto è sempre avvenuto – di occultare ancora una volta le radici della grana con cui si vanno a scontrare sistematicamente i «signori dell’individualismo».

Il tentativo miserabile di voler mantenere – ulteriormente – nel limbo, problemi di natura strutturale del modello economico-sociale in corso comprova inconfutabilmente la loro incapacità. La rivoluzione avvenuta nel sistema delle intercomunicazioni non viene presa minimamente in considerazione da lorsignori, confidando e speculando sul fatto che l’eccesso, la sovrabbondanza di notizie messe in circolazione non siano in grado di condizionare o colpire i punti vitali del “loro” modello di società. È vero che «se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive» (Eriksen, “Tempo tiranno”), ma è proprio a causa di ciò che cresce il senso di angoscia, d’inquietudine, di preoccupazione, di sofferenza, di inconsapevolezza, e la storia ci insegna quanto sia arduo e decisamente azzardato scommettere sulla governabilità di tali emozioni, specie quando si è mossi da convenienze economiche individuali. Non è una sfida sulla quale conviene giocare come costoro sono abituati a fare in borsa; quando si tratta della vita delle persone, della loro sopravvivenza, messa ogni giorno più a rischio, non esiste governo in grado di contenere la rabbia di chi cerca pane da mettere sotto i denti dei propri figli, e poco importerà, in quel caso, quanto siano o meno consapevoli della realtà che li circonda.

Il gioco vale davvero la pena?

Siamo in piena campagna elettorale per le europee, e fino a ieri nessuno aveva messo in discussione le politiche di austerità messe in campo dai governi, che hanno ridotto alla povertà centinaia di milioni di persone non solo in Europa, ma in tutto il mondo cosiddetto “occidentale” (i dati sulla crescita del PIL americano, ad esempio, non dimostra affatto che la qualità della vita sia migliorata, anzi, le disuguaglianze sono in aumento a fronte di una drastica riduzione dei diritti), definizione, questa, implicitamente divenuta una formula autoassolutoria per ogni occasione, un’autolegittimazione per giustificare qualsiasi cosa nel nome di un progresso presunto ma che sistematicamente si è rivelato essere più un difetto che un pregio, più un fallimento che una conquista, più un demerito che un merito. Oggi, a due passi dalle elezioni, sembra che tutti concordino nell’ammettere che tali misure erano sbagliate e che, forse, avrebbero dovuto agire diversamente.

Che dire…? Peccato non averlo capito mentre la gente iniziava a suicidarsi, mentre le fabbriche chiudevano lasciando per strada milioni di famiglie, mentre le associazioni caritatevoli imploravano per essere degnate di un minimo di attenzione (mai ricevuta), mentre lo Stato sociale crollava (e continua a farlo) a causa delle loro politiche assassine. E non è finita, perché oggi si ostinano a parlarne come se tutto ciò appartenesse al passato, come se la ripresa “fosse alle porte”, come se da domani tutto cambierà. E allora mi chiedo come si può essere tanto idioti e sfacciati quando dietro alla propaganda le piccole e medie imprese continuano a chiudere o quelle più grandi a delocalizzare, e le richieste di assistenza crescono a un ritmo incessante? Come si può essere tanto cinici? È possibile non riuscire davvero a trovare limiti decenti e non così offensivi? Dopo aver distrutto milioni di famiglie, solo adesso, a ridosso delle elezioni europee si rendono conto dei loro errori? È la stessa storia che si ripete, fino alla nausea: per un voto venderebbero la propria madre. Sono un pugno di falliti che si possono contare sul palmo di una mano, e nei loro fallimenti hanno trascinano e continuano a trascinare interi popoli. È come se il malato prescrivesse la cura al dottore, che è e deve essere più democrazia, più poteri decisionali al popolo, più partecipazione nelle scelte di governo.

Forse sarebbe il caso di smetterla. Forse è il momento di mandare in onda un altro film.

Emergenza immigrati e modello di sviluppo economico: connessioni


Secondo taluni gli immigrati scappano dai loro paesi perché in cerca di lavoro. Si dice non sia vero che il nostro modello di sviluppo economico sia sbagliato, che non è a causa del capitalismo selvaggio che nei paesi più poveri le condizioni di vita peggiorino sempre più. Qualcuno si ostina con spudoratezza a chiamare “rifugiati economici” coloro che in massa abbandonano le proprie terre natie perché appunto attratti dal nostro modello di sviluppo economico. Si dice inoltre che perseguire una politica verso una “decrescita felice” sia una follia, poiché tornando a “pescare con l’amo” ci troveremmo nella stessa condizione di queste povere persone. Essi, secondo taluni “creativi”, scappano proprio dalla “pesca con l’amo”. Ma la follia sta proprio nel fatto di pensare che torneremmo a pescare con l’amo cambiando il nostro modello di sviluppo. È impensabile, oltre che falso, anche solo considerando semplicemente il livello di conoscenza acquisito dall’uomo.

Siamo perennemente in campagna mediatico-elettorale, perciò per raccogliere voti, consenso, legittimazione e giustificazioni si gioca, attraverso i mezzi di comunicazione, sulla paura che abbiamo di vederci togliere i comfort conquistati e, naturalmente, sulla nostra ignoranza. Da quando esistono i mass media la procedura è questa.
Il nostro modello di sviluppo selvaggio, illimitato, fa in modo che si vadano a ricercare e sfruttare all’eccesso risorse che si trovano nei continenti più poveri. Le disuguaglianze aumentano per ciò: perché la parte più forte economicamente schiaccia quella più povera. È una legge della natura: il pesce più grosso mangia quello più piccolo; ma per quanto sia naturale che i pesci grossi mangino quelli piccoli, non è altrettanto naturale ai piccoli essere mangiati da quelli grossi.

Il lavoro ci sarebbe in quelle terre, e c’è, ma è sottopagato, privo di qualsiasi diritto fondamentale, irrispettoso della sicurezza ambientale e manchevole (come da noi) di limiti consapevoli; ciò permette appunto la crescita economica selvaggia dei paesi “occidentali” e “occidentalizzandi“. Le guerre civili sono, infatti, una conseguenza, l’effetto, non la causa degli esodi. Tali guerre (in aumento e sempre più violente) scaturiscono prevalentemente da gruppi di ribelli armati (armati dalle industrie belliche degli stessi occidentali) che combattono l’invasione dell'”Impero del Bene” quale si dichiara il nostro modello di sviluppo, ovvero il modello di sviluppo voluto dall’America tecnocratica imperante, ma anche per rimanere in possesso del controllo degli esseri umani, per schiavizzarli al suddetto modello, che garantisce il soddisfacimento dei nostri bisogni. Sono le diverse ideologie a farsi la guerra. Di fatto, “produrre in quantità sempre maggiori e a costi sempre più bassi” è la formula mirata del capitalismo selvaggio.

I migranti sono quindi l’ostro* generato dai nostri bisogni effimeri, il risultato del nostro “stato eteronomo“, e della nostra incoscienza e ignoranza derivanti.

A tutto ciò si aggiunge un’ulteriore difficoltà di pensiero: le attività commerciali aperte, ad esempio, dalla popolazione cinese. Non tutte ovviamente. Ma proviamo a chiederci quali possono essere i motivi per cui le amministrazioni locali rilasciano le licenze come pane fresco per aprire parrucchieri, centri estetici e negozi vari a due metri da parrucchieri, centri estetici e negozi vari a gestione italiana, in barba al buon senso. La risposta è semplice: molti di essi portano con sé soldi in contanti, corrompono le amministrazioni locali (altrimenti non glieli farebbero aprire seguendo normali iter), e favoriscono il mercato nero (produzione a basso costo, quindi laboratori clandestini come quelli di Prato, oppure l’importazione di prodotti – fabbricati nelle modalità di cui sopra – senza alcun controllo doganale) nonché della prostituzione e del commercio umano da sfruttare nella manodopera. Sappiamo essere l’Italia uno dei Paesi più corrotti al mondo, ed è facile pertanto trarre le coerenti conclusioni. Il corrotto quindi fertilizza il terreno con altra corruzione, e chi vuole sopravvivere deve obbligatoriamente adeguarsi. Così invece di fare l’errore di dar la colpa a chi apre tali attività commerciali, sarebbe più corretto darla alle amministrazioni locali. Combattere il malaffare nel nostro Paese è sempre stato un’incognita. Certo è che questo non aiuta affatto a comprendere i problemi che ci circondano, sia a livello locale, sia a quello globale. Ne consegue quindi una guerra tra la ragione e l’ignoranza che, con la prepotenza-prevalenza assoluta degli scontri violenti che la cronaca ci espone ogni giorno, distrae l’opinione pubblica dalla vera radice dei problemi. Discutiamo allora sempre più degli effetti (spettacolari, da offrire al pubblico che segue appunto lo spettacolo) e sempre meno delle cause.

Paradossalmente, per mantenere in vita il nostro modello di sviluppo economico, abbiamo bisogno di guerre, carestie, ignoranza, inconsapevolezza, e di esseri umani disposti a tutto pur di sopravvivere: abbiamo bisogno di quanto sta accadendo nel mondo. E le disuguaglianze sociali in aumento lo dimostrano chiaramente. Ma per quanto ancora potrà durare?

*Nella mitologia greca, Austro (o Noto od Ostro) era il nome di uno dei figli di Eos e di Astreo, ed era uno dei quattro venti, quello del sud.
Austro portava con se caldo e pioggia, viveva nel profondo sud e possedeva un fiato talmente ardente che con esso bruciava intere città e vascelli.

L’ignorante insensibile


Ci sono persone che hanno un’insensibilità e un’ignoranza tali da essere inarrivabili.

L’ignoranza non è sinonimo di insensibilità, ma un suo rinforzo. E quando sono insieme tale è la loro forza che non conoscono, giacché non li possono riconoscere, avversari. Avversari che dovrebbero essere proprio ignoranza e insensibilità. E come potrebbero mai identificarli, se quando si guardano allo specchio passano il tempo ad elogiarsi, ad autocelebrarsi, ad applaudirsi, a vantarsi, a dirsi quanto sono capaci nelle loro faccende e nei loro pensieri? Mai una critica che sia una; mai un dubbio. Solo certezze. Certi di essere la qualità migliore che si possa desiderare da se stessi, e anzi, non provate mai a far notare loro quando sbagliano, poiché accettano una critica solo quando questa fa risaltare la supremazia che ritengono di possedere e alla quale in ogni caso vanno ambendo. Provate a dir loro che tutti gli esseri umani hanno pari dignità e pari diritti; lo sottoscriveranno con determinazione, salvo poi aggiungere, con spiccato senso di patriottismo e nazionalismo, ovvero escludendo a priori tutti coloro che non fanno parte della loro Patria, che pur essendo esseri umani, gli “stranieri” (ma solo quelli provenienti da determinati territori) non meritano di essere soccorsi poiché “ci rubano lavoro e case”. Provate a dir loro che la violenza sulle donne è diabolico; faranno i salti mortali per corroborare questa affermazione, salvo poi infischiarsene se tutte le donne che cercano aiuto sulle nostre, loro, e le loro figlie, vengono ripetutamente violentate nei “lontani” Paesi d’origine.

Bene, oggi e sempre, auguro a tutti coloro che si riempiono la bocca della Costituzione italiana, per chissà quale incomprensibile motivo, di non trovarsi mai nella condizione di dover abbandonare questa Patria, che tanto amano e sbandierano come segno distintivo di egemonia razziale, e di non subire mai le torture dalle quali scappano tutti coloro che sbarcano sulle nostre coste.

L’articolo 3 della nostra Costituzione recita così:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Il compito della Repubblica è quello di non alimentare le discriminazioni, e di operare in modo tale che “tutti i popoli” possano raggiungere l’eguaglianza sociale e pari dignità. “Tutti i popoli”, dal momento che oggi nessuno Stato è svincolato dall’altro, e tutti sono legati fra loro per ragioni di ordine economico-commerciale. Quando compriamo un diamante dobbiamo avere la consapevolezza che con quel gesto contribuiamo a far distruggere un territorio e a far sfruttare un bambino, costretto alla schiavitù per sopravvivere. Quando accendiamo un fornello, o i caloriferi, o una lampadina, o facciamo il pieno di benzina, dobbiamo essere consapevoli del fatto che queste comodità devastano interi territori nei “Paesi in via di sviluppo” (un ossimoro), lasciando quei popoli nella miseria e nelle malattie più terribili che si possano immaginare. Una Repubblica che permette tutto ciò non adempie a quanto sancito nella Costituzione, e favorisce il proliferare di un disordine mentale e sociale che appunto non ha niente di ragionevole. Ci sono partiti come la Lega Nord che campano alla luce del sole grazie a questi disordini, e altri che lo fanno subdolamente, ma ognuno di loro è accomunato dal fatto che si guardano bene dallo spiegare le ragioni per le quali questi popoli cercano la salvezza sulle nostre coste. Nessuno di loro mette mai in luce la necessità di cambiare le politiche economiche internazionali, poiché sono i primi ad arricchirsi, attraverso le loro multinazionali, da tali scempi.

Prendete il Governo italiano attuale, e le nomine che sono state appena fatte nelle società dello Stato: sono tutti privati imprenditori, con i loro legali e commercialisti al seguito, che hanno interessi miliardari nei Paesi più poveri della terra. Invito a verificare ogni nomina per avere un’idea degli interessi privati che ognuna ha, al di là delle dichiarazioni che i diretti interessati rilasciano. Ecco, in un clima politico del genere, l'”ignorante insensibile” continuerà a rafforzare l’opinione (“l’opinione infondata”) che ha nei confronti di coloro che sbarcano sulle nostre coste, e i partiti saranno lì pronti per prenderseli a braccetto e ad incrementare i loro sporchi affari sulla pelle di povera gente che non ha colpe, rassicurandoli che prima o poi prenderanno l’estrema decisione di affondarli in mare prima che riescano a raggiungere la nostra tanto amata Patria; perché la “persona umana” citata nella tanto sbandierata Costituzione, secondo loro, è solo quella che abita entro i nostri confini. E solo quella merita il diritto a una vita dignitosa.

Se esiste un Terzo Mondo, quello è presente nella testa di chi crede di avere la supremazia esistenziale; è vivo nelle menti di tutti coloro che al mattino si guardano allo specchio per celebrare se stessi, e non per cercare di comprendere gli altri attraverso sé, e i propri errori.

E se lo Stato fosse un Pronto Soccorso?


Al Pronto Soccorso, come tutti sappiamo, anche se mi auguro di no, funziona così: in base alla gravità del caso vengono assegnati dei braccialettini oppure un foglio con indicato sopra il colore che indica l’urgenza del caso:

– Il rosso per i pazienti più gravi, in pericolo di vita, e che ovviamente hanno la precedenza assoluta;
– Il giallo, per i casi urgenti ma non in pericolo di vita;
– Il verde, per i problemi acuti ma non critici;
– L’azzurro, per i casi acuti ma di scarsa rilevanza;
– Il bianco, problemi di minima rilevanza;

Premesso ciò, visto che si fa un gran parlare di “cambiamento” e dei famigerati 80€ in busta paga ai 10 milioni di dipendenti, vediamo di chiarire, attraverso una “scala delle urgenze” chi, urgentemente, avrebbe realmente più bisogno d’essere aiutato:

– 1. I “senza tetto” (codice rosso);
– 2. Coloro che hanno perso il lavoro e che non usufruiscono degli ammortizzatori sociali (codice “arancione”): i “senza reddito“, che progressivamente aumentano degenerando in “senza tetto“;
– 3. I disoccupati (codice giallo), che hanno da poco perso il lavoro e sopravvivono con l’elemosina degli ammortizzatori sociali come la cassa integrazione, e che una volta finita, li fa aggiungere a quelli sopra;
– 4. Gli operai e gli impiegati (codice verde) che prendono uno stipendio da fame e sopravvivono con quello a stento (i famosi 10 milioni che riceveranno (?) i noti 80€);

Queste sono le “categorie” in “stato emergenziale“. I “senza tetto” (codice rosso) attualmente ammontano a 48mila persone (esseri umani, lo ricordo), mentre i disoccupati (codice giallo-“arancione”) a 3 milioni e 254mila. Mi sembra inutile dire che tutti i dati sono in crescita.

Mi chiedo, allora, per quale motivo il governo scelga di “aiutare” chi ha meno indigenza (codice verde) ignorando coloro che versano in condizioni ben più gravi (rossi e giallo-“arancioni”), sebbene il loro numero sia inferiore. Sarebbe più logico, e solidale, come uno Stato dovrebbe essere, intervenire istituendo un forma di sostentamento simil “reddito di cittadinanza“, evitando afflizioni, inconcepibili nel 2014, a persone che sembrano essere dimenticate da Dio; invisibili. Immaginatevi un Pronto Soccorso in cui i pazienti più gravi nemmeno vengono messi in corridoio su un lettino a rotelle, ma sbattuti letteralmente fuori a morire!

Se la giustificazione è quella di “stimolare i consumi“, è ovvio che se anziché dare 80 miseri euro a 10 milioni di persone, ovvero a chi un lavoro ce lo ha già, per «andarsi a mangiare una pizza», se ne danno 500 a quei 3 milioni che sono senza, la domanda dei consumi aumenti in egual misura. Non credo che quei 500 euro vadano a finire sotto i materassi o dentro le banche a far lievitare gli interessi, quindi è evidente che verranno comunque rimessi in circolo aumentando la domanda. Forse, mi sorge il dubbio, che sia un certo tipo di “domanda” che vuol essere incentivata, come i “beni di seconda necessità“, che alimentano il mercato “consumistico“, e non quello dei “consumi“, ovvero dei “beni di prima necessità“.

Le politiche di “sinistra” (d’altronde così si dichiarano), storicamente, idealmente, si sono sempre vantate d’esser vicine alle necessità degli ultimi della scala sociale, e allora la domanda appare per effetto delle riforme che propagandano di aver intrapreso: chi sono “gli ultimi” della società, oggi? Perché c’è questo silenzio assordante attorno a persone che non hanno nulla e che stanno perdendo spietatamente ogni protezione da parte dello Stato? Chi ha contratto un mutuo e non riesce più a pagarlo perde le sue proprietà, nessuno ha più un gioiello giacché per pagare debiti o cibo se lo è venduto; gli “ultimi” sono stati espropriati di ogni bene di valore, morale e materiale, ma chiaramente questo non basta al governo per convincerlo ad intervenire per cercare di stravolgere una situazione diventata assurda, paradossale, inaccettabile.

Se tutti i Pronto Soccorso funzionassero così…

Noi, e loro, i senza terra


Oggi il mondo è sempre più eterogeneo, multiculturale, internazionale, interculturale e interdipendente: siamo disposti allora a vivere insieme a queste diversità? Essendo questo un processo irreversibile e inesorabile, ci sentiamo pronti ad accettarlo? Migliaia di migranti quest’anno (come da anni ormai) saranno costretti a scappare dai propri luoghi d’origine per scampare a guerre, torture, carestie, all’occupazione dei loro territori, all’espropriazione dei loro spazi vitali, alla depredazione delle loro risorse per appagare le esigenze (istigate) del (nostro) mondo “occidentale” e riempire così i portafogli di chi detiene le redini del mercato economico globale; riusciamo allora a comprendere fino in fondo cosa si sta verificando nel mondo? Siamo davvero consapevoli di tutto ciò? I governi stanno facendo le acrobazie (come sempre) per schermare questa carneficina, e fanno passare tempo prezioso accollando sistematicamente la colpa ora a questo, ora a quest’altro organo governativo, ma mai esortando i veri responsabili (poiché loro stessi) di questi flussi migratori a modificare le loro politiche per intraprenderne una che vada incontro alla necessità di futuro migliore per tutti, equamente distribuito e più consapevole. Prendersi la responsabilità dei problemi endemici di questo modello sociale, è indispensabile per capire a fondo chi e cosa determina la fuga d’interi popoli dalle loro terre. Le coltivazioni selvagge, l’estrazione delle materie fossili, lo sfruttamento della manodopera che impongono la schiavitù di donne e bambini per raggranellare almeno un pugno di riso al giorno (quando va bene), sono le ragioni principali che costringono queste persone ad andare alla ricerca estrema di un posto che gli consenta di restare in vita, giacché il loro destino nei luoghi d’origine è una morte certa. Ed è qui che diventano i “senza terra”.

Quando vediamo in Tv, o su un social, la foto di un bambino che “sorride pur non possedendo nulla”, per un attimo ci mettiamo a confronto (non nei loro panni) e non possiamo fare a meno di sentirci dei privilegiati. Ma è solo un attimo (per “fortuna”, pensiamo). Di fatto, a ciò sono utili immagini del genere al “mondo occidentale”: a farli percepire lontani da “noi”, a opportuna distanza, quanto basta per non sentire la puzza di povertà che li ricopre e le grida di dolore straziante che portano con sé; a rassicurarci, a persuaderci ad abbracciare il “nostro” mondo, sbagliato, ma pieno di comfort, e a tenerlo ben stretto, con tutte le nostre forze. E nel caso in cui non riuscissimo proprio a contenere quel briciolo di “senso umanitario” che ancora ci è rimasto e che si affaccia a comando di fronte a quelle immagini, è presto fatto: basta digitare il numero impresso sullo schermo o riempire il bollettino e donare qualche euro per fare la “nostra” parte, da questa parte di mondo, ed è fatta; la nostra coscienza, perlomeno in quell’istante, è salva.

Poi, però, alcuni bambini diventano anche adulti, e lo fanno covando il desiderio di fuggire dalle atrocità che subiscono da quando sono nati, “loro”, e i loro parenti, pur non avendo alcuna colpa, se non quella d’esser venuti al mondo… ma “noi”, questo, sembriamo non volerlo capire – del resto nessuno ce lo spiega, e spesso siamo occupati a fare altro invece che “perder tempo” andando individualmente alla ricerca delle cause –, e allora, come un fermo immagine alla Tv, quei bambini sono destinati a non crescere mai per “noi”, che abitiamo al di qua del muro, al di qua dello schermo che ci separa da “loro”, dal “loro” mondo. Non riusciamo a mandare avanti il video, e ancora meno ad oltrepassarlo, così i bambini crescono (pochissimi), indisturbatamente violentati, lontani dai nostri sguardi, o emarginati sul lato della strada, ben nascosti dietro i cartelloni pubblicitari.

La questione stupefacente e paradossale in tutto ciò, è quella di credere che siano “loro” a privare “noi” delle risorse, quando invece sono le “nostre” politiche e il “nostro” stile di vita (“occidentali”) a derubare le “loro”. È veramente paradossale. Inoltre, “avvertiamo” quel che accade solo quando li vediamo (attraverso lo schermo) sbarcare stremati (chi riesce a sopravvivere) dai “loro” gommoni sulle “nostre” coste, e quel che riusciamo a pensare e che ci allarma di più generalmente è: “adesso stiamo più stretti; ci porteranno via lavoro, case, sussidi previdenziali (quel niente messo a disposizione); aumenterà la criminalità; i nostri figli andranno a scuola con ‘questi qua’; costruiranno una moschea sotto ‘casa mia’…”. Perché l’importante, ciò che a noi preme veramente, è che “va bene tutto, purché non nel mio giardino”.

Facciamo attenzione, perché le politiche imboccate negli ultimi anni, e rafforzate negli ultimi mesi, hanno come obiettivo quello di tagliare il welfare, ossia lo Stato Sociale, la spesa pubblica, quella parte strutturale dello Stato che serve – o serviva – a sostentare i più bisognosi, a combattere l’indigenza e a dare incentivi alle famiglie. Si preannunciano anni duri, e tutto starà alla percezione che abbiamo del mondo che ci circonda, che è sempre più pericolosamente alterata dai mezzi di comunicazione, che non riescono più (se mai ci sono riusciti) a raccontare una storia, a fare una narrazione logica della realtà. Non ci saranno più risorse per nessuno, non certo perché i flussi migratori si estenderanno, ma per andare incontro alle esigenze del mercato capitalistico che punta ad incrementare la crescita del PIL riducendo la spesa pubblica, che loro considerano non solo inutile, ma d’intralcio affinché i conti risultino in ordine agli occhi dell’opinione pubblica. Produzione con meno manodopera è la politica intrapresa.

È un’invito che faccio sempre: se ci teniamo davvero a quei bambini, cerchiamo di capire perché quando crescono, anzi, quando hanno la fortuna di crescere, scappano dalle loro terre, anziché donare due euro e toglierci il pensiero. Che tanto poi torna sempre…