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Coronavirus: la regola del silenzio


Indosso la mascherina perché la struttura organizzativa dello Stato di cui faccio parte ritiene sia necessaria per limitare il diffondersi del Covid-19. Questo non implica necessariamente che si debba essere d’accordo con questa prescrizione, fermo restando che personalmente lo sono.
Non ho problemi a coprirmi mento, bocca e naso perché ritengo che le privazioni delle libertà individuali siano da identificare altrove.

Scaricare l’App Immuni è facoltativo, non un obbligo, pertanto tutte le discussioni in merito alla questione sono totalmente inutili.

Non mi sento controllato da nessuno, e sono abbastanza sereno ad ammettere che tra “essere comandati” ed “essere governati” c’è una profonda differenza: le società, in tutta la storia dell’uomo, non sono mai state, e mai lo saranno, esentate da organizzazioni atte alla formazione dei popoli. Possono essere giuste o sbagliate, certamente è irrazionale determinarlo sulla base di un obbligo come quello di indossare una mascherina.

Non mi spertico in congetture giuridiche o mediche perché nessuno in tutta la mia esperienza di vita mi ha mai fatto sentire migliore di altri, e soprattutto perché sono profondamente consapevole che se avessi voluto o potuto avventurarmi sulla strada verso uno dei due ambiti avrei dovuto necessariamente studiare. Non l’ho fatto. Taccio perlopiù. Questo non significa che mi senta inferiore, no, significa accettare le competenze e rispettarle.

Riesco a vivere senza paura, con apprensione sicuramente e molta prudenza, perché i pericoli durante il viaggio della vita sono ovunque, da sempre. Questo non debilita il mio stile di vita, anzi, lo fortifica e mi spinge a cercare soluzioni sempre più adatte a semplificare la mia vita e quella della mia famiglia: ciò che è necessario stimola la creatività, e la creatività è una risorsa. Sentirsi impotenti, abbattuti e frustrati è la conseguenza alla convinzione di poter battere tutti e tutto. Non siamo delle creature mitologiche. Non siamo indistruttibili. Abbiamo tutti delle debolezze, e soprattutto deficienze.

Se tutto questo pensi possa condizionare il giudizio che gli altri hanno di te allora dovresti seriamente iniziare a chiederti perché vivi la tua vita sprecando tempo concentrando la tua attenzione su questo, piuttosto che spostarla sul rispetto di semplici norme che, onestamente, non limitano il tuo comportamento ma lo modificano soltanto.

Se sei dell’idea che indossare la mascherina sia un’imposizione sbagliata nessuno ti impedisce di pensarlo, non è illegittimo avere idee diverse. Diverso è imporre concretamente il tuo pensiero sugli altri, che osservano banalmente regole e leggi. Ed il rispetto verso gli altri affonda le sue radici nel terreno delle regole del vivere in comune: non viviamo su un’isola deserta, e non facciamo parte di società anarchiche.

L’unica cosa che dannatamente mi preoccupa è questo delirante accanimento praticato sui social media da parte di tutti. Siamo tormentati dal pensiero di essere controllati, ma al tempo stesso non facciamo altro che esporre quanto di più intimo abbiamo: i nostri pensieri. Non esistono più vergogna, riserbo, modestia, e prevale sempre più la convinzione di poter fare e dire tutto quello che ci passa per la testa senza considerare minimamente che questo modo di essere è l’equivalente di quel che contestiamo attraverso le nostre ossessive esternazioni. È un paradosso talmente lampante che sfugge alla comprensione con la stessa velocità con la quale si presenta. Ci mettiamo in mostra, raccontiamo le nostre giornate nei minimi dettagli, mostriamo chi siamo, cosa pensiamo e cosa facciamo a chiunque, ma al tempo stesso ci dichiariamo succubi di un governo che ci spia, proiettando però sugli altri difetti che appartengono a noi. Non vogliamo seguire le regole però ci lamentiamo se gli altri non seguono le nostre. Tutto ciò è inquietante.

L’inutilità del superfluo, dell’effimero, era ciò cui tutti, chi più e chi meno, profondamente aspiravamo. Il desiderio di riscoprire abitudini e valori, abbandonati a causa del tempo che “preferivamo” impiegare consumando l’inessenziale, è svanito nel nulla, disperso come polvere nel vento, e siamo dunque tornati a consumare pensieri e vita, immersi nel vuoto che lascia questa perpetua perdita di intimità. E insieme alle nostre intimità la nostra dignità.

Ora, sei contro la mascherina, la dittatura mediatica, quella politica (o di una certa politica a tuo giudizio), il sistema giudiziario, quello sanitario, le Forze dell’Ordine, e chissà cos’altro? Bene, fonda un partito e fatti votare, ottieni la maggioranza in parlamento, governa e cambia la società a tua immagine e somiglianza. Perché questa è la democrazia. Sì, proprio quella che tu reclami a gran voce in ogni dove. Ed è l’unico strumento a tua disposizione in grado di realizzare la tua visione della vita. Nel frattempo però rispetta le regole in corso. E se ritieni che questo governo sia illegittimo ripeti il procedimento sopra, perché se insisti allora significa che ti è poco chiaro il concetto. Oppure, se reputi difficoltoso e dispendioso tutto ciò, ingegnati, magari cominciando a supporre di non essere al di sopra di tutti, e su quel principio iniziare il percorso per essere qualcuno. Non uno qualunque: un individuo. E un individuo non si misura sulla base della sua popolarità, bensì sulle sue profondità. Esattamente quelle che incessantemente, ossessivamente sbatti fuori da te stesso invece di curarle e custodirle.

E comunque ogni tanto taci, che male non fa in tutta questa confusione.

Natura Umana


Fra avere le capacità e avere le possibilità c’è di mezzo l’organizzazione sociale. Fra la libertà e l’oppressione c’è di mezzo la conoscenza. La conoscenza ti fa distinguere la libertà, quando hai compreso che libertà è prima di tutto coscienza. La coscienza è interesse e sensibilità. La sensibilità è empatia. L’empatia fa parte della natura umana e si manifesta relazionando. Le relazioni sono sempre più deboli e competitive. La competizione è il fondamento del nostro sistema economico/sociale. L’umanità è disorganizzata. La natura umana va estinguendosi.

Homo “haud” Sapiens


In un mondo dove nessuno sa né leggere né scrivere ad andare avanti sono gli sciacalli con la convinzione che l’esistenza consista nel depredare le risorse del prossimo così da assicurarsi la propria sopravvivenza. Del resto come dar loro torto se in effetti le sole alternative che gli vengono presentate sono la disfatta, il fallimento, l’umiliazione, la distruzione, l’abbandono, e l’insuccesso inteso esclusivamente come sconfitta personale, individuale anziché collettiva, sociale, comunitaria. Una società che vive nella menzogna di poter riuscire a fare tutto solo grazie all’istinto e alle presunte capacità di sopravvivenza individuali, escludendo un fatto ineludibile, la “con-vivenza”, non può essere consapevole di star scavando la propria fossa. L’uomo non vive di sola caccia e conquista. È un essere sociale con anche il bisogno di crescere intellettualmente, culturalmente, eticamente; elementi grazie ai quali ha realizzato opere senza tempo che hanno determinato la sua evoluzione, ma che a causa della loro progressiva e inesorabile deriva vengono abbandonate al degrado generato dall’ignoranza in attesa che facciano il loro tempo.
Una società resa ignorante non potrà mai riuscire ad apprezzare quel che ha, poiché non è consapevole di averlo.

Umberto Eco e gli imbecilli? Ha ragione Eco: siamo imbecilli


La tecnologia raggiungerà il suo pieno senso solo il giorno in cui non verrà più utilizzata dagli uomini per sostituire se stessi esclusivamente per diminuire i costi di produzione e ipnotizzare masse sempre più ampie con tecniche sempre più efficaci. Nel frattempo, prima che tutto ciò accada, lasciatemi dire che in larga parte Umberto Eco ha ragione.
Magari serve dirlo, affinché si raggiungano scopi diversi da quelli in corso d’opera. A questo ritmo nel 2050 (ma stime dicono molto prima) per sopperire alla produzione mondiale sarà necessaria solo il 20% della forza attualmente al lavoro. E non ci sono per il momento prove a dimostrare che il resto troverà occupazione in campo tecnologico. Gli uomini non sono tutti scienziati. Ci sono i contadini e gli artigiani per vocazione ancestrale. E i segnali dicono che questi sono schiacciati o, nel “migliore” dei casi, assorbiti dalla grossa produzione e distribuzione. Costringere l’umanità verso un percorso di esclusione non è il miglior approccio alla tecnologia. Eppure questo è quel che accade oggi. Lo stato occupazionale è diminuito in tutto il mondo, insieme ai salari, ai diritti e alle condizioni sociali, esclusi i paesi in via di sviluppo, che in ogni caso presto si ritroveranno nelle stesse condizioni. E a quel punto non ci saranno più terre da sfruttare, e il sud del mondo sarà soltanto un deserto arido bruciato da guerre combattute con i droni in nome dello sviluppo tecnologico imperante. Magari con qualche oasi “felice” qua e là.
La tecnologia, la tecnocrazia, il mondo congetturato unicamente alla tecnica esclude l’altra parte di mondo che non vuole esser concepita così, che vuole invece preservare migliaia di anni di storia dell’umanità, cancellata rapidamente e comodamente premendo bottoni. Il tecnicismo, questa rincorsa alla perfezione non porterà mai l’umanità a raggiungerla, poiché la perfezione non è una caratteristica costante di essa. Ogni individuo è unico per definizione e difetto; tralasciare questo aspetto significherebbe trascendere l’umanità degli uomini per far posto unicamente all’aspetto meccanico. È un’idiozia pensare di poter oltrepassare la natura umana, e questo squilibrio, che noi tutti possiamo osservare, provoca inevitabilmente conflitti con la coscienza, che pur cercando un dialogo con il calcolatore, evidentemente per il momento a soccombere è proprio lei.
Rivoluzionare la concezione del mondo attuale, ovvero far sì che all’uomo, pur lavorando di meno, sia assicurata una vita dignitosa, sarebbe un grande passo verso il futuro. Ma per adesso quel che possiamo attestare è essenzialmente un fatto: l’uomo non ha ancora imparato a convivere con se stesso. Al contrario, ha imparato a sfruttare la propria conoscenza per espandere e amplificare i margini di conquista attraverso il condizionamento, che passa più veloce attraverso la tecnologia. Le discriminazioni in aumento e la distribuzione delle risorse sempre più iniqua stanno lì a dimostrazione.
Forse un giorno tutto questo troverà il suo equilibrio, ma non prima di aver sfruttato e consumato e distrutto tutto il possibile. A partire dalle relazioni umane, che passano sempre più attraverso medium calcolatori di emozioni.
Ci sono aspetti “anche” positivi, ma non basta escludere dal dialogo la pena di morte per far sì che questa scompaia dalla faccia della terra, altrimenti non servirebbero neppure tutte le campagne di sensibilizzazione messe in atto “anche” grazie e attraverso strumenti tecnologici. Pensiamo alla piattaforma Change.org. Lasciare però che il mondo vada in una direzione senza mai avere il dubbio che forse è quella sbagliata, lascerebbe intendere agli uomini che appellarsi alla propria coscienza sia un esercizio del tutto inutile. E purtroppo, se vogliamo fare i tecnici fino in fondo, i dati ci dicono la coscienza è in via di estinzione.
Nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di morte. Possiamo avere il dubbio che ci siano relazioni con tutto ciò?
Non è mia intenzione demonizzare il progresso tecnologico, non c’è niente di più lontano da me. Ma fotografare lo stato attuale delle cose; quello sì. E la fotografia che ho davanti mi fa vedere quanto la tecnologia nelle mani degli uomini di oggi sia profondamente degenerativa.
Ecco cosa ha fotografato provocatoriamente Umberto Eco. E chi lo conosce almeno un poco lo ha capito. O quantomeno onestamente accettato. Ecco perché siamo imbecilli: non accettiamo che qualcuno metta in discussione una strumentazione che apparentemente ci regalala soddisfazioni immediate, tanto immediate quanto mediate, e che apparentemente ci mette a disposizione illimitate informazioni, tanto infinite quanto confuse e ancora sconosciute… e certamente mediate.

“Combattere per la pace è come fare l’amore per la verginità”


Nella quotidiana e perpetua discussione mediatica, ora su quel provvedimento ora sull’altro, quel che non manca mai sono quegli elementi che rendono la vita politica del Paese ignobile, stantia, ripugnante, oltre che socialmente molesta, irritante, frustrante. Ogni giorno la classe dirigente finge di chiedersi quali sono i motivi che hanno trascinato i cittadini verso una disaffezione cronica nei confronti della realtà sociale e politica senza mai, naturalmente, provare a darsi una risposta definitiva e con questa, da questa, conseguentemente ripartire daccapo rimuovendoli per far sì che le proteste, espresse più che chiaramente col non-voto, siano finalmente ascoltate. Invece, l’imbroglio delle riforme in atto volute da chi istruisce l’abile racconta-novelle premier italiano, degno successore di Berlusconi, viene spacciato ingegnosamente come la volontà della maggioranza assoluta del popolo italiano che, va ricordato, si tratta invece del 40,8% di elettori che rappresentano un esiguo 23,7% della popolazione elettorale con diritto di voto. Un 23,7% dal quale trarre prepotentemente legittimità per appropriarsi indebitamente dei bisogni e delle richieste angosciate di coloro che non ce la fanno più a sopportare questo ridicolo e deleterio gioco psicologico delle parti, dove a chi dice il bianco viene contrapposto chi afferma il nero, con un rimpallo di responsabilità infinito, senza mai arrivare a niente, senza mai risolvere niente, se non a garantire l’inattaccabilità e la prosecuzione indisturbata degli affari e delle ambizioni dei singoli attori che prendono parte alla commedia drammatica che è diventata la politica e la società tutta.

Riforme che vengono confezionate e presentate al popolo consumatore di slogan come la più passionale delle rivoluzioni in atto dal dopoguerra ad oggi.

Perché le riforme si fanno in Tv e, si badi bene, non solo negli ormai classici e sempre più avvalorati talk-show, ma anche nelle fiction, nel cinema, nei social, nei blog, nei giornaletti di gossip, nel calcio, nei romanzi, nelle manifestazioni di ogni tipo, e in tutto il possibile da spremere e sfruttare come palcoscenico utile a narrare una riforma, non in atto, ma narrata, appunto. Solo narrata. A benedire la fedeltà, nonostante tutto, dei restanti (pochi) milioni di elettori del partito (e non solo quelli) che pretende di essere l’unico erede delle speranze rivoluzionarie.

Assistiamo così inermi alla cannibalizzazione degli spazi mediatici, e conseguentemente pubblici, e a un protagonismo che purtroppo ha dei precedenti e avrà dei seguiti sempre più esaltati ed esaltanti. E come in ogni circostanza, fatta diventare volutamente di grande impatto mediatico affinché s’intrattengano le attenzioni del pubblico, si deve offrire a quest’ultimo — che subisce — un capro espiatorio, che nella narrazione corrente è incarnato nel “gufo”, nel “pessimista”, nel “disfattista”, che viene incastrato come fosse lui l’assassino, cosicché ci si possa prendere il merito d’aver ispirato ottimismo e fiducia; e condannare nello stesso tempo implicitamente tutti coloro che hanno pensato si potesse trovarlo “finalmente” in un regime politico esperto solo nel salvaguardare interessi che non appartengono certo alla collettività. Un colpevole, o presunto tale, dunque, che anche se non fosse lui lo sarà comunque a vita nell’immaginario collettivo.

Perché ormai è così, dai “piani alti”, di qualunque settore si tratti, basta dire insistentemente che si sta facendo qualcosa affinché questo diventi virale, quindi reale, effettivo, e se qualcuno provasse a dire che così non è, basterà semplicemente ribadire che così invece è, e il gioco del contraddittorio continua indefinitamente, sulla pelle di coloro che di questo genere di intrattenimento social-mediatico, sponsorizzato e pagato profumatamente dalle aziende che nel frattempo devono vendere i loro prodotti di consumo, ne hanno piene le scatole. E che ne hanno piene le scatole lo esprimono da anni non esercitando il diritto di voto, poiché sa quanto sia diventato inutile, infruttuoso, esercitarlo, forte dei reiterati scandali e corruzioni che ogni giorno la magistratura scoperchia in ogni settore e anfratto della società, ma soprattutto ai piani alti, quelli dai quali si “amministra” il Paese.

Nel frattempo, mentre gli animali da palcoscenico, negli interminabili dibattiti, discutono su come affrontare i problemi causati dalla crisi, ma non su quelli che hanno causato quest’ultima, la guerra bussa alle nostre porte.

E sembra essere proprio questo il futuro che ci attende: mentre fuori, la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, ovvero le socializzazioni, le relazioni, le esperienze, le comunità, eccetera, si va sfaldando sempre più, e a noi non resterà altro da fare che aggrapparsi alla costruzione virtuale di essa, le potenze mondiali si stanno organizzando per guerreggiare contro il terrorismo, per l’ennesima volta. Terrorismo che oggi si chiama Isis, o per “i più ammaestrati” Islam, ieri Bin Laden, l’altro ieri di Saddam, e che è figlio dell’egemonia occidentale, del nostro modello di sviluppo economico, che invade, sfrutta e distrugge, ma ignora quando c’è da soccorrere e ricostruire dopo aver raso al suolo ed essersi accaparrato le risorse. Conosciamo i moventi della guerra, così come conosciamo le giustificazioni utilizzate per promuoverla. Ne abbiamo esperienza. Già più di tremila anni fa, nei testi sanscriti del 1200 a.C., il termine utilizzato per indicare la guerra, युद्ध yuddha, significava “desiderio di possedere più mucche”, e più recentemente le due guerre mondiali dovrebbero essere un esempio tanto eclatante da non poter lasciare spazio all’immaginazione circa i disagi post-bellici che costituiscono il terreno fertile per le ideologie estreme dei regimi totalitari. Eppure regolarmente, metodicamente, a vincere è lo scenario vagheggiato dell’invasione dei nostri territori, della nostra libertà, della nostra sicurezza, che solletica la nostra paura, che a sua volta ci convince ad accettare l’attacco armato per difendere tutto ciò.

La politica, la democrazia, che un tempo credevamo essere soluzioni, oggi si rivelano inefficaci, trappole, sabbie mobili nelle quali l’umanità organizzata sta sprofondando. E così guerre, barbarie, razzismo e follia sono il risultato dei fallimenti delle operazioni pseudo-democratiche che perseveriamo, il vero avanzo di questo inestricabile groviglio. Troppi si ostinano a pensare che la fuga da paesi in guerra sia un segno di rinuncia e di codardia; al contrario, dovrebbe suggerire l’esperienza, essa è l’impossibilità di reazione nei confronti d’un sistema troppo grande e troppo forte da poter essere combattuto, contrastato, controllato. E a tutto questo cumulo di menzogne, oggi si aggiunge l’incubo di un’imminente invasione dei terroristi a bordo dei barconi carichi di profughi. E allora facciamo l’ennesima guerra, che darà i natali all’ennesimo nemico che dovrà essere combattuto per l’ennesima volta, non prima, s’intende, d’aver guadagnato l’ennesimo bel gruzzoletto vendendogli l’ennesimo consistente arsenale bellico.

Il nostro modello di sviluppo economico-sociale, il nostro modello democratico, non garantisce a noi, che facciamo parte di questa porzione di mondo, il giusto progresso verso una vita dignitosa, ma anzi sfrutta e alimenta l’ignoranza attraverso tagli alla Cultura, all’Istruzione, e mettendo altresì in atto campagne mediatiche mascherate sotto il nome di “informazione”, ma che nei fatti fornisce un surplus di notizie contrastanti, contraddittorie fra loro, celando in questo modo, dietro la facciata apparentemente democratica, una squallida, totale e assoluta disinformazione. La trasmissione di notizie di oggi assomiglia sempre più a un perpetuo funerale che celebra la morte dell’individualità, della razionalità, e che sembra avere il solo fine di alimentare ignoranze e inconsapevolezza. È l’eccesso delle ragioni, infatti, ad uccidere la ragione stessa. Andiamo a combattere una guerra fuori, quando l’unica a dover esser combattuta è qui e si chiama “ignoranza”. Non siamo in grado noi di conquistare dignità, come possiamo pensare di esportarla altrove, e di farlo per giunta con dignità?

San valentino: amare per decreto


“In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo
per evitare di confrontarsi con la propria anima.
Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce,
ma portando alla coscienza l’oscurità interiore.
Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia”.
Carl Gustav Jung

Lasciataci alle spalle la festa di San Valentino, una fra le più incoerenti sul piano interazionale fra esseri umani messe a disposizione dei consumatori, riprendiamo la nostra routine quotidiana da dove l’avevamo “abbandonata” per un momento. Una routine già falsificata di per sé, ma sempre più snaturata dai continui attacchi che ci obbligano a vivere frangenti e provare sentimenti solo in determinate occasioni, e per un circoscritto lasso di tempo. In parole povere: le feste ormai sono un intervallo pubblicitario fra una pubblicità e l’altra.

E stendiamo allora una breve considerazione sull’amore, poiché questa la “sostanza” della festa appena trascorsa.

L’amore, che è l’unico antidoto contro il narcisismo, il primo a lanciare allarmi quando c’è da demolire la falsità delle pretese alle quali cerchiamo di tenere aggrappata la nostra autostima, oggi impallidisce davanti all’esuberanza e all’eccitazione, ma anche all’ansia, spesso all’angoscia e alle frustrazioni che scaturiscono da un senso di inadeguatezza sempre più marcato, nei confronti di emozioni e impulsi primordiali sempre più indecifrabili, ma obbligati a manifestarsi a comando poiché fissati sul calendario. Ed è così che, in questo enorme vortice di partecipazioni prescritte, capita che si avverta il bisogno di raccogliere le idee per dar vita all’indignazione. E’ da quest’ultima che emerge la necessità di adoperarsi per dare (anzi ridare) “un senso al senso”.

L’amore appunto, declassato a sottoprodotto di quel che erano nostri più intimi e antichi sentimenti, è impiegato oggi come un’efficace espediente per commercializzare quella che somiglia sempre più a una fiera delle ostentazioni. Il boom elettronico, i favolosi profitti ammassati dalla vendita di strumenti capaci di obbedire a qualsivoglia volontà del padrone, offre un vasto assortimento dal quale attingere l’esperienza della meraviglia. E non ha rilevanza alcuna che sia essa artificiosa o autentica, simulata o sincera, purché sia in grado di accomunarci tutti, di regalarci quel senso di appartenenza cui tanto aspiriamo, più o meno dichiaratamente, più e meno consapevolmente. Perché è dalla solitudine prodotta dai nostri schermi portatili che nasce il nostro senso di aggregazione, non più, quindi, dalla solitudine esistenziale di natura amletica, o filosofica che dir si voglia. Non desideriamo avere dubbi: desideriamo e basta, e lo facciamo per decreto. Non ci interessa imparare ad amare, tanto meno porci domande: ci interessa l’esibizione dell’amore, affinché altri possano riconoscersi e riconoscerci, affinché noi ci riconosciamo in quella degli altri. Ma un senso di appartenenza filtrato, e in aggiunta provocato per decreto, potrà mai renderci consapevoli d’essere “qualcuno” e di far parte, di conseguenza, di “qualcun altro”? Se tutto muove e scivola sulla superficie ornamentale dell’esistenza, se rifiutiamo la comprensione, la consapevolezza e soprattutto l’esperienza, allora rifiutiamo l’amore.

Perché l’esibizione dell’amore, la costrizione a cui siamo implicitamente chiamati ad ubbidire per ragioni programmatiche e come già detto per supplire, o peggio ancora surrogare, a quel che è rimasto del nostro senso di appartenenza, è un’ostentazione fine a se stessa, che dietro al buonismo sentimentale di facciata nasconde in realtà inquietudini come agonismo, emulazione, insoddisfazioni, incomprensioni… che ci è permesso di lavar via in un determinato momento fissato sul calendario, compiendo determinati gesti fissati sugli schermi, dai quali sfilano infinite immagini che richiamano (si voglia o no, o lo si creda o meno) la nostra attenzione convincendoci ad entrare a far parte di “qualcuno filtrato”, e attraverso i quali facciamo gran parte delle esperienze della vita, e dunque dell’amore.

Ora, è vero che il mondo è un mondo spietato, che sfrutta, inganna e mente, e che noi siamo la massima espressione di quest’inganno, di cui a volte ci adoperiamo per conoscere le cause, non per farvi fronte e ritrovare la verità dei nostri sogni, della nostra vita, del nostro senso di appartenenza… dell’amore, ma per adattarci e ingannare, e ingannarci, a nostra volta, perché in fondo che ci frega? A Natale siamo tutti più buoni, e a San Valentino tutti più innamorati.

Bene allora, San Valentino è trascorso, i regali sono stati consumati; possiamo tornare a ingannarci nell’attesa che arrivi il Natale.

“SCOPRIRSI” NELL’ERA DEI SOCIAL


Svestirsi, vale a dire ciò che di più facile viene da fare nella società delle immagini, è un gesto che non confina esclusivamente nella fisicità, ma anche nella mentalità, nel modo in cui ci abituiamo ad esibire i nostri pensieri, i più e i meno intimi. Nell’era dei social infatti tale comportamento è ampiamente dimostrabile, praticato, e più o meno implicitamente riconosciuto e accettato dalla maggior parte di noi.
Mettere in piazza i propri pensieri equivale a spogliarsi.

Si è molto parlato del video/esperimento (poi emulato, riprodotto in serie ovunque nel mondo) nel quale si vede una ragazza vestita con un jeans e una maglietta neri che passeggia per le strade di New York ricevendo un centinaio fra commenti e complimenti da parte di uomini. Il video, chiaramente di stampo razzista, è un girato di 10 ore riassunte in nemmeno 2 minuti, nei quali si vedono soltanto uomini di origini africane rivolgere le loro attenzioni nei confronti della ragazza, come a voler indirettamente documentare che di questi bisogna diffidare, dal momento che di tale evidenza non si fa alcun cenno alla fine del video, che i media non hanno perso tempo a titolare “molestie subìte da”, come non si fa cenno della fine che hanno fatto le altre 9 ore 58 minuti. L’autore lascia quindi al pubblico, velatamente già consigliato durante la visione del video, il compito di aggiungere e fare la somma, sollevandosi così di ogni responsabilità. E il risultato è un susseguirsi di altri commenti, prolificati in seguito alla sua condivisone – in Rete come in Tv –, che in poco o nulla differenziano da quelli ricevuti dalla protagonista del video, mescolando così altra confusione a quella già presente.

Prendiamo come esempio Facebook, spazio più che appropriato per osservare il diffondersi di pensieri contrastanti, data l’infinita mole di immagini, video e pensieri che gli iscritti offrono alla platea.

Cattiveria, ignoranza e depravazione si possono trovare nei commenti sotto una foto innocua pubblicata sul proprio profilo, ma anche in quelli sotto un “pensiero” dato in pasto al pubblico. L’errore più comune che facciamo in certi casi sta nel non considerare che spesso giudichiamo chi ci giudica, entrando così in un circolo vizioso dal quale non se ne esce. Ci è difficile accettare osservazioni o critiche contrastanti con il nostro modo di vedere, fondamentalmente perché disorientati, oltre che condizionati, dagli altri inesauribili modi di vedere. Il selfie, ad esempio, entrato prepotentemente a far parte del nostro linguaggio espressivo ormai sempre più scarno, riprodotto in serie in maniera esasperata ed esasperante tanto da sentirsi a volte circondati dal nulla, è l’emblema di quel che siamo diventati e stiamo vivendo. Un comportamento che nel giro di un anno ci ha contagiati come fa un virus, grazie a quella gran cassa di risonanza che sono i media e i loro fruitori, per primi i personaggi celebri (o celebrati, personaggi politici inclusi), sempre pronti in prima linea quando si tratta di lanciare prodotti o modi di fare o di pensare, e che può trovare ragioni solo nella totale dipendenza alla quale siamo asserviti, nella stessa misura in cui un tossicodipendente è asservito alla sua droga.

Ed è così allora che i “mi piace” accrescono un’autostima fittizia, al contrario dei “mi piaccio”, che avvalorerebbero quella autentica. Quando infatti i “mi piace” non convalidano quella autentica, ecco che disimpariamo a conoscerci, ad ascoltare quel che di più intimo abbiamo nelle nostre profondità, a lasciarci soggiogare, poiché sempre più complessi da osteggiare, dai sempre più travolgenti condizionamenti provenienti dall’esterno. Se dalle contraddizioni siamo circondati, se viviamo in un mondo dove ogni elemento che lo compone trova il suo nemico pronto ad affermare una verità opposta altrettanto supportata, come uscirne? In mezzo al caos, di conseguenza, sempre più spesso preferiamo rinnegare, piuttosto che rivendicare con sensatezza; oppure l’esatto contrario: pretendiamo con un’esasperata irrazionalità d’aver ragioni. Vedi chi pubblica pensieri omofobi, razzisti, o foto nelle quali impugnano un’arma, e che solo dopo “si accorgono” d’esser stati vittima dell’impulso ritornando maldestramente sui loro passi. Ma c’è anche chi ovviamente reclama con vigore cadendo spesso nel ridicolo.

L’impulso a denudarsi, a render pubblica la nostra ricchezza intima, a confessarsi costantemente sul proprio profilo social o in quello altrui, rappresenta l’ostentazione frustrata del narcisismo. Preferiamo appunto i “mi piace” ai “mi piaccio”, e lasciamo che siano altri a dire “chi” e “come” dovremmo essere.
Non c’è dubbio: siamo tutti personaggi pubblici, nelle mani di un pubblico che ci conosce ancor meno di noi.
E’ vero, siamo liberi di tornare sui nostri passi quando sbagliamo. Ma qual è il metro di giudizio del quale ci serviamo per stabilirlo? E quanta libertà c’è in un comportamento che si avvicina sempre più a una catena di montaggio?

La povertà, tra indifferenza, diffidenza e superficialità


Ho, purtroppo, modo di interloquire sempre più spesso con persone che considerano la condizione di povertà l’effetto di un’incapacità esclusivamente personale, una caratteristica di quelle persone che non riescono, giacché non vogliono, a trovare una posizione sociale e quindi a realizzare una vita come quella di tutti gli altri che, invece, riescono a concretizzare perché ne hanno la volontà. Costoro pensano che il mondo sia costituito per una parte da predatori, sciacalli, imbroglioni, astuti, ingegnosi, volenterosi e interessati, di conseguenza immaginano che l’altra sia fatta di ingenui, sprovveduti, imbranati, sfaticati, oziosi, privi di interesse, lamentosi e parassiti. Plagiati quotidianamente da stereotipi, luoghi comuni, banalità e quant’altro capiti di ascoltare o leggere attraverso i media, come dargli torto. E dal momento che “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, il propagarsi di tali preconcetti è inesorabile. A dispetto quindi di quel che conseguentemente una crisi — che nessuno ha voluto — produce, ovvero povertà e degrado sociale, gli indigenti sono tuttavia elaborati come degli incapaci.

È, molto spesso, il povero stesso a ritenersi incapace, non all’altezza delle situazioni e dei problemi che è suo malgrado costretto a fronteggiare. Ed è anche il motivo principale che trascina un individuo alla depressione, e nei casi più estremi anche al suicidio, senza contare le umiliazioni con le quali si scontra ogni giorno e le frustrazioni che ne conseguono. E le umiliazioni sono proprio gli sguardi e i preconcetti di coloro che li considerano degli inetti, per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili nei confronti di chi versa in condizioni di miseria, facendo lo sforzo di comprendere che le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità.

Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in conto alcuni aspetti che una crisi come quella che stiamo vivendo genera: il terreno sul quale camminiamo che si fa sempre più fragile, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali inevitabilmente ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora e che non a tutti riesce facile governare, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e dunque tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche che diventano sempre più difficili da curare a causa della mancanza di risorse economiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.

Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità individuali per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha l’attitudine di diventare predatori, sciacalli, egoisti, astuti a nostra volta. Una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli “attrezzati”. Pensarlo equivale a essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo altezzosamente il resto del mondo. Coprire gli occhi, tappare le orecchie e turare il naso, durante la nostra corsa sfrenata verso il “successo”, poiché vedere, ascoltare i lamenti e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, non serve a nessuno, se non ad alimentare un egoismo e un’inconsapevolezza sempre più diffusi.

Il problema è che non siamo disposti e disponibili a vedere, ascoltare e sentire; l’uomo non è un essere incline a misurarsi con il “brutto”, con la bassezza umana, ma solo con il bello. È ininterrottamente esortato, sollecitato a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, “silenziosi”, e dunque sempre più irraggiungibili, convinto che ciò possa rendere bella, pulita e silenziosa anche la sua coscienza, tranquillo, sicuro di non aver colpe per le disgrazie altrui con il suo comportamento.

Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto ci si possa spruzzare di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare, classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”.

E poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei “loro” confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, ci vengono allora in aiuto espedienti in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà. Primo fra tutti è il metodo più semplice da adottare e anche il più efficace (non in termini di solidarietà; efficace per placare egoisticamente la nostra coscienza): quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione” si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato, inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.

Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere (vedi violenze e reati diffusi); più il numero dei malati di cancro aumenta, più saremo costretti a non vedere, non ascoltare, e a non sentire l’odore. L’indifferenza, la diffidenza e la superficialità dilaganti con le quali affrontiamo certi argomenti, e con le quali mi scontro ogni giorno, lo attestano chiaramente. E quanto vorrei sbagliarmi…

“Trip” e “bad trip”


In passato se si voleva fare un viaggio psichedelico ci si affidava a dosi di LSD o affini. Le percezioni si alteravano, le immagini prendevano forma e vita nella mente e la realtà veniva distorta, sostituita da una sintetica, immaginaria, inesistente, ma così vera da sembrare autentica. Negli ultimi anni però qualcosa è subdolamente e subliminalmente cambiato. Come in un processo di sublimazione infatti, la realtà è passata da uno stato solido a quello gassoso: impercettibile, inafferrabile, inconoscibile, ma respirabile, che come i gas di scarico dovuti al transito sfrenato e incontrollato dei mezzi di trasporto assumiamo forzatamente in dosi massicce ormai a qualunque ora e in qualsiasi luogo.

Subissati, e costantemente bombardati come siamo di messaggi subliminali, ci troviamo incessantemente in uno stato di subcoscienza, in un’assurdo assordante, frastornante, che s’impone, si propone e avanza come un paradosso sensato. Siamo collettivamente drogati, gettati in un’immensa Woodstock, con l’unica differenza che non aspiriamo a valori utopici quali fratellanza, uguaglianza, pace, e non andiamo alla scoperta di nuove emozioni sensoriali, alla ricerca del sé, tantomeno lo facciamo per senso artistico, nonostante aspiriamo tutti a diventare cantanti, attori, ballerini e scrittori. Lo facciamo, ma senza avere la volontà cosciente, la consapevolezza di farlo.

Oggi siamo immersi in un mondo in cui le follie assurgono a ragionevoli, le contraddizioni a coerenti e le utopie a concretezze che non si concretano mai, se non nelle nostre convinzioni derivate. Inseguiamo, senza mai raggiungere. Ingurgitiamo palinsesti televisivi, ci deconcentriamo sui cartelloni pubblicitari seminati ovunque, ci svaghiamo negli imperanti centri commerciali, ci rilassiamo nei magnifici e sontuosi centri benessere, brindiamo nei trionfi “happy hour”, esibiamo look firmati, acconciature, unghie finte, seni finti, labbra finte, zigomi finti, nasi finti, sederi finti, personalità finte, dacché non ne abbiamo più una nostra, mentre il mondo, quello vero intorno a noi, non esiste più, se non dentro un titolo di un telegiornale, che come una pillola eupeptica è buono a far digerire tutto e tutti. E allora, dalla realtà immateriale, ideale, spirituale, e al tempo stesso terribilmente materialistica, meccanicistica – coerentemente con le contraddizioni che la contraddistinguono – che ci viene offerta, guarnita di tutto punto, ci facciamo consigliare chi essere, quindi cosa indossare per esibirlo, cosa mangiare per conservarlo, quali medicine per difendere e scacciare via i mali che gli si mettono di traverso.

Oggi non siamo ciò che siamo e non pensiamo ciò che pensiamo: siamo ciò che ci dicono di essere, e pensiamo ciò che ci viene detto di pensare.

Viviamo in un mondo tradotto, parafrasato, interpretato, volgarizzato, che ci ha trasferiti in un altro mondo, parallelo, fiabesco, fittizio, illusorio, sognato, inventato, inesistente, drogato. Un mondo prescritto, disordinatamente ordinato, obbligatorio, stabilito e ormai più possibile da decifrare autonomamente, giacché autoritariamente eteronomi fin dalla nascita.

Immaginiamo però per un attimo un mondo senza Tv, senza pubblicità lungo le strade, nei paesi, nei centri cittadini, senza alcuna forma di indottrinamento e intrattenimento mediatico di massa: prima impazziremmo tutti dalla noia, e poi saremmo obbligati a guardarci dentro, e magari poi anche meglio intorno, in cerca di una personalità e di una realtà perdute, che ci si paleseranno come nuove, autentiche, originali, ingegnose, genuine, vere, e magari queste nelle quali siamo immersi finalmente ci appariranno perfettamente per quelle che sono: una riproduzione, un inganno, una brutta copia, la peggiore delle imitazioni cui l’uomo potesse aspirare.

Eppure gli allucinogeni dovrebbero essere illegali, banditi ormai da anni. Qui invece vengono distribuiti in dosi massicce alla massa, e gli effetti sono tali e quali a quelli indotti dall’LSD: alterazione della coscienza, euforia, perdita di consapevolezza e lucidità, riduzione dei riflessi psicofisici, alterazioni nella memoria a breve e lungo termine, impossibilità di concentrazione, difficoltà di elocuzione o elocuzione disordinata, sensazione di intensa beatitudine, cambio di stato d’animo con estrema facilità, amplificazioni sensoriali, distorsione della consapevolezza del tempo, dello spazio e del sé, percezione intensificata di suoni, colori, odori e sapori.

Ma i trip non sono solo “fiori e arcobaleni”, in particolare quando assunti in dosi eccessive e per lungo periodo, e così si verificano effetti indesiderati (o desiderati in base ai punti di vista), più propriamente detti “bad trip“, ovvero viaggi conditi da ansia e panico. E a determinare il “bad trip” e il “trip” sono proprio quegli elementi che in ambito vengono chiamati “set” (lo stato d’animo di chi assume l’acido) e il “setting” (l’ambiente in cui si trova chi assume l’acido). Ecco, set e setting negli ultimi decenni hanno raggiunto livelli di tale degrado che il nostro vivere è diventato la falsificazione mal riuscita di un ashram, con il solo fine d’ingrassare i portafogli dell’industria della soppressione dell’individuo.
E allora: buon viaggio.

L’industria dei consumi


Dovrebbe essere ovvio che tutta questa insistenza sulla necessità di smaltire gli oggetti, abbandonarli, liberarsene, invece che sull’appropriarsene, si adatta alla perfezione alla logica della nostra economia orientata al consumatore. Se la gente si tenesse stretti i vestiti, i computer, gli smartphone o i cosmetici di ieri sarebbe un disastro (e lo è) per un’economia la cui preoccupazione principale, la condizione della sua sopravvivenza, è destinare in tempi rapidi e sempre più serrati i prodotti al “consumatore”, che acquista e vende ormai vicino ai cassonetti della spazzatura; e in un’economia come questa, la velocità di smaltimento dei rifiuti è (dovrebbe essere) l’industria di punta. Ma non è così, quando a mettere le mani su questa sono corrotti e corruttori. La “Terra dei fuochi” è (dovrebbe essere) per noi emblematica; e anche se a prima vista potrebbe sembrare che nelle nostre coscienze tutto questo passi senza lasciare alcuna traccia, è in realtà quanto di più sbagliato si possa pensare: i rifiuti non sono soltanto le confezioni di ciò che acquistiamo e consumiamo; sono tutto ciò che prepotenza, avidità, egoismo e incoscienza fabbricano ogni volta che ci spingono ad oltrepassare i limiti del buon senso e del bene comune, perciò, inevitabilmente, inesorabilmente, sedimentano in noi, rendendo comportamenti illogici, irrazionali e impulsivi normali abitudini, inquinando la nostra coscienza e il nostro senso di appartenenza e di rispetto altrui; nonostante l’industria dello spettacolo e del divertimento si prodighi, ovviamente, per convincerci del contrario.