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Salvini e Renzi: leader carismatici a tempo determinato


Come ci insegna Max Weber, esistono tre tipi di autorità nella nostra società: tradizionale, carismatica e legale-razionale, che qui (per semplificare) indicativamente identificheremo rispettivamente nell’ex premier Letta, spodestato proprio da un’autorità carismatica, ovvero quella di Renzi (che in questo momento si contende la scena politico/mediatica con il carismatico Salvini), e l’altro ex premier Mario Monti.
Vediamo quali sono le differenze.
Innanzi tutto dobbiamo chiederci:

su quali basi quelli che detengono l’autorità hanno il diritto di impartire ordini alla popolazione che si trova sotto il loro dominio?

L’autorità tradizionale (Letta) risponde a questa domanda sulla base di quanto è successo prima. In altre parole, la legittimità si basa semplicemente sul fatto che si è sempre fatto in quel modo.
L’autorità carismatica (la coppia Renzi-Salvini), al contrario, si basa sulle doti eccezionali attribuite a chi le esercita: in virtù di questa caratteristica di eccezionalità, i capi carismatici abrogano o modificano la tradizione. Ad esempio, la frase che Gesù ripete nel Nuovo Testamento, «Avete udito che fu detto, ma io vi dico…» è una pura affermazione di autorità carismatica.

Domanda: con quale diritto quest’uomo fa delle dichiarazioni così eccezionali?

Risposta: ne ha diritto perché Dio parla attraverso lui.

Come si nota nella risposta non appare alcun fondamento razionale, ma al contrario suscita un sentimento fideistico, peculiare nelle persone propense a seguire un leader carismatico.
L’autorità carismatica appare sempre contrapposta ad un’autorità tradizionale (ciò non implica che lo sia sempre nei fatti), che mette in discussione sia cercando di cambiarla, sia, nel caso estremo, tentando di abbatterla (abbiamo come esempio Renzi-Letta).

L’autorità carismatica è intrinsecamente rivoluzionaria: essa sconvolge le forze abitudinarie su cui riposa il potere tradizionale. Ma per questo stesso motivo l’autorità carismatica è estremamente precaria e non è in grado di mantenersi a lungo; essa può instaurarsi soltanto in un’atmosfera di intensa esaltazione. Forse per la stessa natura dell’uomo questo stato di esaltazione non può durare a lungo e, quando incomincia a spegnersi, l’autorità carismatica dev’essere modificata o sostituita da qualche altra forma di autorità.
L’autorità legale-razionale (Mario Monti) infine è basata sulla legge e su procedure razionalmente dimostrabili.

Domanda: con quale diritto l’esattore può esigere una tassa?

Risposta: ne ha il diritto grazie a una determinata legge approvata dal Parlamento.

A differenza dei primi due tipi, questa forma di autorità non si avvolge di mistero, e la fede in questo caso non trova collocazione e non ha alcun valore.

In ogni caso, l’esercizio del potere legale-razionale è, come si dice, confortato da specifici provvedimenti di legge che, almeno in linea di principio, possono essere spiegati razionalmente, assieme alle finalità sociali che ne stanno alla base.
Il tipo di autorità carismatica è il più comune nel mondo d’oggi, e la forma amministrativa che gli si addice e lo legittima è, come abbiamo visto, la fede. Ma una fede a tempo determinato: almeno fino a quando l’atmosfera di intensa esaltazione si manterrà alta, ovvero fino a quando la popolazione non si accorgerà che saranno tradite le aspettative promesse.

A questo punto, però, nasce un problema, ovvero la percezione che si ha della realtà. Viviamo in una società mass-mediatica: percepiamo la realtà che ci circonda attraverso la rappresentazione, la narrazione che i leader propagandano attraverso i media, piuttosto che come è nella realtà che viviamo. Questa, che si può definire “alienazione dalla realtà”, viene ben espressa da Eriksen:

“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.

(Eriksen, “Tempo tiranno”, p. cit. 139, 144)
E una delle conseguenze è proprio quella che William Thomas sintetizza così:

“se la gente definisce una situazione come reale, essa produce delle conseguenze reali”.
Pertanto, l’autorità che risulterà più efficace e durevole nel tempo dipenderà da quel che la maggioranza della popolazione percepirà come “reale”, indipendentemente dalla “reale realtà”, ovvero dipenderà dall’abilità del leader carismatico di raccontare storie (quindi non necessariamente una, lineare, razionale, con un inizio e una fine), o, per usare termini più “attuali”, da un’efficace storytelling.
Pertanto le aspettative rispetto a ciò che ci riserverà il futuro fanno parte della percezione che abbiamo della realtà facendocela apparire più o meno piacevole. In quest’epoca storica (dominata dal consumo impulsivo) il senso del dovere e della responsabilità, interpretato in senso psicoanalitico dal Super-Io, cede il passo di fronte alle pretese dei desideri al punto che essi appaiono come se fossero realtà. In questi momenti arriviamo ad autoconvincerci che sia un diritto acquisito ciò che noi desideriamo (quindi non è detto sia sempre legittimo o conveniente). Può succedere allora che la percezione sia così collettiva da determinare nella classe politica la determinazione a fissare per legge queste nostre aspettative: il leader carismatico insegue i sondaggi degli umori da lui stesso suscitati nella popolazione attraverso lo storytelling ed agisce in conseguenza di questi, oppure facendole credere di aver agito in loro conseguenza. Insomma mentendole, che è generalmente la mossa più praticata, in particolare nel nostro Paese.
In altre fasi appare invece il timore di un futuro incerto per cui, mentre psicologicamente rientra in gioco il Super-Io, abbiamo timore di dover accettare una nuova formulazione mentale della realtà meno piacevole di come ce l’eravamo immaginata. Emerge una sorta di rabbia e il timore per cui ci si schiera dietro al baluardo di leggi che danno come acquisito quel diritto. Ed è a quel punto che calerà il sipario sul leader carismatico decretando la fine della sua popolarità. Ma niente paura, al suo posto ce ne sarà un altro già pronto a sostituirlo, perché viviamo in un momento storico nel quale a contare sono le autoritarie abilità comunicative, e non le autorevoli abilità di governo.

Emergenza immigrati: smettiamola di intervenire sugli effetti e agiamo sulle cause


Capisco la rabbia e il significato di quel che si vuole esprimere quando affermiamo che “gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi”, ma detta così è fuorviante, ed è una forma razzista di esprimersi, poiché al sostantivo “immigrato” è stato attribuito nel tempo un significato dispregiativo giacché sovente associato a termini come “rubare”, “violenza”, e “lavoro”, “casa” e “sussidi”, ossia a quei costituenti essenziali in una società come la nostra.

Di fatto, quando un microfono si avvicina a un qualsiasi cittadino per chiedergli cosa ne pensa degli immigrati, la risposta “mandata in onda” è prevalentemente la stessa:

«Gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi!» – aggiungendo, generalmente – «Io non sono razzista, ma non è giusto che si dia aiuto prima a loro mentre noi italiani veniamo lasciati per ultimi. Che rimangano a casa loro!».

Attraverso questa forma di informazione manipolatoria, deviante, nell’opinione pubblica viene a radicarsi un sentimento di astio, d’invidia nei confronti di chi “viene nel nostro paese a privarci dei nostri diritti”. Allora siamo esortati a propendere verso chi promette di liberarci dal “male che ci invade” e “ci toglie risorse vitali”. Purtroppo è tutto sbagliato. Più propriamente, sono le politiche economiche internazionali (dettate dalle multinazionali), lo sfruttamento selvaggio delle risorse, a costringere queste persone ad abbandonare i loro paesi d’origine, massacrati da guerre che hanno lo scopo prevalente di aggiudicarsi o difendere tali risorse. Gli immigrati sono in cerca di un riparo da tutto questo, dal momento che non hanno altra possibilità che scegliere fra vivere la tortura della schiavitù, oppure la morte. Non portano con sé ambizioni di conquista, ma gridi dilaniati in cerca d’aiuto. L’aiuto che possiamo dar loro, se vogliamo davvero aiutare anche noi stessi e fare in modo che questo caos termini, è quello di comprendere a fondo i motivi per i quali sono costretti a fuggire.
Sono le politiche economiche a togliere lavoro, case e sussidi, a tutti, in Italia come in Europa, e in tutto il mondo “occidentalizzato” nel quale è stato esportato (e si sta esportando) questo modello economico-sociale.
Va compreso che un essere umano che scappa da una guerra è ben più disposto ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione salariale, pur di sopravvivere. Ciò contribuisce enormemente ad abbassare i costi di produzione, a ridurre i diritti umani di ognuno di noi, a far aumentare le disuguaglianze sociali e a diminuire il potere d’acquisto nel suo complesso.

Il sostantivo “immigrato”, diventato ormai un’appellativo dispregiativo, non dovrebbe neppure essere preso in considerazione quando vogliamo esprimere la nostra contrarietà a una situazione complessa e drammatica come quella che stiamo vivendo. Stiamo parlando di esseri umani come noi, né più e né meno.
Se pensiamo di risolvere i problemi che ci sovrastano, innalzare muri per non vedere né sentire, né sapere, cosa accade al di là, non risolve niente. Dobbiamo comprendere che i problemi nell’antartico riguardano e condizionano anche l’artico e viceversa. È il modello sociale consumistico nel quale viviamo, ad averci trascinati in questo disordine intellettivo, e che sempre più ci impedisce di razionalizzare il mondo che ci circonda.
Chi promette di “scacciare via gli immigrati”, lo fa sfruttando la nostra ignoranza rispetto a un problema ben più ampio, profondo e complesso. E non sarà un semplice muro che ci esonererà dall’affrontarlo. Il compito di una sana politica dovrebbe esser quello di interpretare nel modo giusto la rabbia della popolazione, anziché cavalcarla per raccogliere voti. Una popolazione che però è composta anche da queste povere persone in cerca di sopravvivenza per i motivi suddetti. Perché il popolo è colui che abita la Terra, una Terra che non ha più confini né identità culturale a causa del capitalismo selvaggio, alle politiche neoliberiste, non a causa di chi è in fuga da esse. Dobbiamo smetterla di giudicare gli effetti e intervenire su di essi, e agire finalmente sulle cause. Ecco poi dove si arriva.

Matteo Salvini: l’alibi per il delitto perfetto della ragione, e il vero mendicante di questa società


Perché il consenso nei confronti di Salvini cresce? Perché nel Paese dove il tasso d’ignoranza cresce vertiginosamente uno così o lo ami o lo odi. Quello che dice risulta una manna dal cielo per chi (grazie a campagne mediatiche ad hoc) crede che tutti i mali derivino da immigrazione e Rom, mentre è oltremisura odioso per chi sa o anche solo percepisce che sono solo una caterva di falsità e cattiverie.
Salvini è utile al sistema corrotto italiano, un sistema che per poter mantenere indisturbato i suoi benefici e privilegi ha bisogno di indicare all’opinione pubblica un colpevole che non è certo quello vero – ovvero chi notoriamente occupa posizioni dominanti – ma chi è collocato in una posizione più debole, quindi più facile da colpire e, è il caso di dirlo, affondare: l’immigrato. Ed è utile anche all’Europa per lo stesso motivo. Lo possiamo registrare con l’ascesa di tutti i movimenti fascistoidi.

Salvini, lui stesso pedina del sistema, è necessario affinché il delitto della ragione sia perfetto. È l’alibi esemplare, ineccepibile.
Ma per essere sviluppato quest’alibi ha bisogno di mezzi potenti ed efficaci, quindi in soccorso alla sua concretizzazione ci deve essere un intermediario che incanali l’opinione pubblica su di esso. Rivolgere altrove le attenzioni della massa, anziché sul vero assassino, è la missione dei Media.
In Tv, com’è risaputo ai più, ci va chi incrementa i profitti alzando gli ascolti: quanto più alti sono gli ascolti, tanto più alto è il costo degli spazi pubblicitari. Il palinsesto televisivo italiano non mira a fare informazione di qualità (di spazzatura gronda), ma a fare profitto. Questo non va calcolato solamente per mezzo dei ricavi pubblicitari, ma soprattutto attraverso ciò che il sistema corruttivo ogni anno toglie alle casse dello Stato. Sappiamo come funziona il nostro Paese, delle mafie che lo occupano, e anche quanti sono i miliardi di euro che finiscono nelle loro casse. Ora, l’analisi da fare è molto semplice: s’invitano (negli infiniti e stantii Talk-Show) personaggi che risultano più telegenici, che bucano lo schermo, pertanto catturano l’attenzione dello spettatore; non ha importanza che si discuta dei contenuti, piuttosto incentrare tutto sulle abilità comunicative, che in un contesto dove il tasso d’ignoranza è l’unico ad avere il segno +, un Salvini qualunque pare dire delle verità assolute. Di contro, chi odia i Salvini resta comunque attaccato allo schermo un po’ per masochismo e un po’ per fare il tifo al suo antagonista (messo lì a tal proposito, non certo per la favola della par-condicio). Questo circuito, o recinto, o ring (o zoo), suscita non poche frustrazioni in entrambe le categorie di pubblico, che vedono darsi torto e ragione incessantemente. Accade allora che i più fragili intellettualmente si lascino convincere dalle presunte pressanti verosimiglianze, mendicate o estorte, oppure lascino stare convincendosi a non andare a votare. Ecco, a proposito di mendicanti nullafacenti, quelli veri sono i Salvini, non quelli che stanno per strada. Sono quelli come lui che mendicano da una vita occupando spazi, poltrone che eticamente non meritano. Sono quelli come lui i veri parassiti della società. Sono quelli come lui che lasciano la gente per strada. Sono quelli come lui che uccidono la ragione con una perfezione assoluta.

Dalle politiche economiche internazionali al popolo: siamo tutti forti coi deboli e deboli coi forti


Siamo tutti contro l’Europa tecnocratica e le sue politiche di austerità, ma non sappiamo bene il perché. L’austerità è l’artificio con il quale i tecnocrati europei ed americani hanno imposto al popolo una grave riduzione dei Diritti Umani con conseguenti grandi sofferenze, per risanare i conti mandati in rovina dalla Finanza internazionale, dal Mercato, dal Liberismo (dottrina economica che sostiene la necessità di accrescere le libertà individuali dei cittadini in campo produttivo e commerciale e limitare l’intervento dello Stato). Il mercato opera in base al principio del profitto, ed è il fondamento del nostro attuale sistema economico. Un sistema spietato che opera per convenienza individuale a dispetto della collettività, perché ricordiamoci che lo Stato “è” la collettività, il popolo. Le cause della crisi economica che stiamo attraversando sono note, ma non consapevoli. Ciò significa che tutti, più o meno, sappiamo dell’esistenza di una regia che manipola le sorti dei popoli indirizzandole ai loro perversi voleri, ma non siamo consapevoli delle conseguenze che queste generano. La perversione la si può (o potrebbe) distinguere contrappesando il contesto sociale presente con quello passato. Sono evidenti i fallimenti delle politiche lasciate in mano ai businessmen, eppure questi non bastano ad orientare la rabbia dei popoli (in particolare di quello italiano) nei confronti dei giusti colpevoli (qui ho già spiegato quali sono i principali motivi di tanta fatica).

Il punto è, quindi, che pur di raggiungere indisturbati le loro perverse ambizioni, lorsignori passerebbero (e ci passano) sopra le carcasse determinate da esse.
Le conseguenze di tutto ciò sono povertà, discriminazioni, disuguaglianze, frustrazioni, esasperazione, violenze, aumento delinquenziale, limitazione culturale, esodi di massa, un sistema sociale caotico e schizofrenico che sembra non conoscere intralci. Che continua indisturbato per la sua strada, indicando all’opinione pubblica ora quel colpevole ora quell’altro, con un martellamento quotidiano degno delle peggiori torture cinesi, perché è vero che la goccia spacca la pietra.
Mi rendo conto di scrivere spesso di immigrazione, ma non posso farne a meno. Ogni giorno, ahimé, mi scontro con chi addita l’immigrato come il responsabile dei problemi esistenziali di questa società, e non posso fare quindi altrettanto a meno di provare una viscerale indignazione nei confronti di uno Stato che invece di fare il buon padre e la buona madre lascia che i propri figli si scannino fra di loro. E qui sorge un altro aspetto che purtroppo è sempre più difficile da fissare nelle menti da anni condizionate da chi dice che esistono esseri umani ai quali è concessa la supremazia esistenziale e ad altri no. Dei buoni genitori sanno amare anche i figli degli altri, perché sanno immedesimarsi con indulgenza e umiltà, sentimenti inariditi dal deserto che il profitto lascia dietro di sé.
Per tutti è più facile essere forti coi deboli e deboli coi forti. Esattamente come lo è la Legge del Mercato, e noi ci siamo perfettamente adeguati, prostrati ai suoi princìpi. Perché queste sono le conseguenze logiche di una società così indirizzata. Ecco, se riuscissimo ad uscire da questo groviglio di assurdità, e a puntare il dito verso il solo ed unico colpevole, il vero responsabile del degrado in cui versiamo, anziché su altre vittime come noi, a me potrebbe tranquillamente venire in mente di scrivere d’altro. Sono le politiche Liberiste a rendere schiavi noi e i popoli che emigrano in massa, e fino a quando non lo capiremo saremo i loro burattini e tutta la rabbia e le frustrazioni accumulate le scaricheremo su chi loro ci indicano. 

Integrazione: siamo all’Era glaciale dei sentimenti


Viaggiamo, con la mente aperta alla ricerca di qualcosa di diverso, di luoghi diversi, di culture diverse, di facce diverse, di suoni diversi, di colori e odori diversi, per scappare dalla frenetica quotidianità cui siamo costretti, ma quando è il diverso a raggiungere la nostra “terra privata”, non siamo pronti né disposti ad accettarlo, poiché istruiti a decidere noi dove e quando incontrarlo, anche se coviamo spesso in silenzio un’altra vita, un nuovo inizio in terre meno deliranti. E allora dal rifiuto all’emarginazione del diverso è un passo, e ne basta un altro affinché da quest’ultima si elaborino i nostri spazi come terreni di battaglia sui quali combattere per assicurarsi la supremazia esistenziale, in un mondo proclamato sempre più angusto.

Capita inoltre che chi non ha viaggiato mai non sia preparato ad accettare il diverso, perché sperimentato soltanto attraverso i filtri di un documentario (anche se viaggiare non implica di per sé sensibilità, disponibilità, espansività, dato che sempre più frequentemente ci releghiamo in spazi dedicati al turista – specie per motivi di sicurezza – che a sua volta richiede servizi standardizzati), e lo considera quindi come una minaccia imminente, che priva di risorse – paventate insufficienti – la “nostra terra”.
Le politiche d’integrazione multiculturale poco sono prese in considerazione dai governi occidentali, ed è principalmente a causa della loro carenza che il diverso fatica ad essere compreso e accettato. Al contrario, perfettamente integrata nel tessuto sociale, nell’immaginario collettivo dei popoli occidentali, è la dottrina del PIL.

I governi occidentali infatti si spendono corruttivamente affinché beni e servizi transitino liberamente da una terra all’altra e siano ben presenti nelle nostre case, e ha poca importanza se è lo sfruttamento utilizzato per produrli a generare l’esodo di massa cui noi tutti stiamo assistendo. Poco spendono invece per insegnare il degrado sociale e culturale creato per inseguire il profitto, indirizzando furbescamente il sentimento collettivo verso dispotismi, egoismi, diffidenze, invidia, così chi è costretto a scappare da quelle realtà si ritrova a sbattere ancora contro la stessa insensibilità.
Perché è grazie ai potenti mezzi oggi a disposizione se siamo capaci di credere, come ingenui fanciulli incantati dalle favole, nella reale esistenza di Babbo Natale (un Salvini qualunque) e dell’Uomo Nero (un immigrato qualsiasi). E allora ti capita sovente di ascoltare in giro ragazzini che per offendersi si scambiano epiteti come «sei un marocchino», e ti accorgi di quanti passi è retrocessa l’umanità, e di quanti invece è avanzata la spietatezza.
Viviamo così nell’Era glaciale dei sentimenti, nel pieno di una catastrofe, e questo mondo somiglia sempre più a un mondo privo di umanità, e di comprensione, pietà, accoglienza, sostituita da marionette senz’anima, né calore né ombra. E non è un caso che in numero sempre maggiore l’uomo venga sostituito nei suoi compiti dalle macchine, come non lo è il fatto che ad un aumento del degrado corrisponda una diminuzione della coscienza.
Nessuno ha più responsabilità in questo carosello di scaricabarili, dove il colpevole si è fatto invisibile, attore di questa tragicommedia che è la vita, in cui svolge le sue attività solo su comando, e dove non è concesso, poiché non ne ha facoltà, domandare, avere dubbi, per non destabilizzare il fragile equilibrio economico da cui dipende la sua esistenza. L’oppressione della libertà di pensiero, della consapevolezza di un mondo alienato, dà origine a tensioni fra popoli che nulla hanno di opposto, e che anzi hanno in comune tutti la stessa oppressione e la stessa incolpevolezza. L’inciviltà verso la quale siamo diretti reprimerà quel po’ di empatia che ancora sopravvive educandoci a considerare la “nostra razza” superiore, e come l’unica degna di occupare terre. Ebbene sarà sempre guerra, una guerra stabilita dalla favola del PIL. Nel frattempo, quanto più il mercato è libero, tanto meno ci sentiamo sicuri. Ma è solo un caso.

Beneficenza: come farla nel modo giusto


“Aiutare gli altri” non lo si fa donando due euro in beneficenza, bensì andando alla ricerca delle ragioni per le quali gli altri hanno bisogno di aiuto. Donare due euro, dieci, cento, mille o diecimila non serve a risolvere il problema di alcuno, bensì a sollevarci dalle responsabilità, che tutti gli appartenenti alla società hanno, e cioè di operare affinché ognuno abbia pari diritti e pari dignità. Donare qualche euro serve quindi solo a lavare la coscienza di chi non vuol prendersi tali responsabilità, poiché troppo occupato a salvaguardare i confini del proprio giardino, diventato sempre più incapace di gettare lo sguardo oltre siepi e recinti innalzati attorno a sé: sempre più alti e incomprensibili. L’egoismo e l’ignoranza, introiettati e diffusi, sono i veri artefici dell’indigenza nella quale versa gran parte della società. Non serve donare, ma andare invece alla ricerca delle cause, e non alla ricerca di alibi per sollevarci da responsabilità cui nessuno può e deve sfuggire, dal momento che presto o tardi ciò non sarà più possibile. La donazione è un palliativo, un placebo somministrato al popolo per esularlo dall’andare alla ricerca delle vere cause del problema. La donazione è la forma con la quale si alimenta il degrado: quanto più una società ha bisogno di donazioni tanto più significa che lo Stato sociale è assente.


Mentre il fabbisogno dei servizi pubblici aumenta, gli interventi del governo tendono invece a ridurli, lasciando ai singoli individui, e alle famiglie, il compito di sopperire ad essi. I deficit strutturali dello Stato sociale accrescono poiché spalleggiati da forze finanziarie che non hanno alcun interesse economico nel far fronte ad essi. Le privatizzazioni di grossi pezzi dello Stato hanno questo come obiettivo: il profitto; non un’equa ridistribuzione dei guadagni e dei servizi; il bene di pochi (del privato che amministra per incrementare il ricavato), e il peggio per il resto (il popolo) – ovvero la “filosofia” del Neoliberismo –. Pertanto quanto più i governi legiferano a favore di quelle forze, tanto più aumentano i deficit di assistenza sociale. Ai deficit finanziari dello Stato non si interviene accrescendo il “deficit di assistenza”, e cioè tagliando i finanziamenti per scuole, disabili, malati, anziani e disoccupati. 


Va inoltre ricordato che i diritti per lo svolgimento della vita politica sono necessari a porre in essere i “diritti sociali”, e questi ultimi sono indispensabili per garantire il funzionamento dei “diritti politici”, che altrimenti, come dimostra il sempre più crescente disinteresse del popolo nei confronti della politica, non trovano ragione alcuna.


Le due tipologie di diritto hanno appunto bisogno l’una dell’altra per sopravvivere; tale sopravvivenza può essere solo il loro comune successo. Allo stato attuale delle cose entrambi sono “non pervenuti”, e i dati che indicano la disaffezione alla cosa pubblica, alla vita politica, dimostrano che tale assenza non accenna a diminuire; tutt’altro. Andare alla ricerca delle cause è l’unica soluzione, l’unica speranza che noi tutti abbiamo per ridurre degrado, disuguaglianze e deficit culturali. Solo attraverso la ricerca è possibile incanalare le forze nel modo e nella direzione giusti. Altrimenti, degrado, disuguaglianze e deficit culturali saranno inesorabilmente destinati ad aumentare e ad attecchirsi sempre più radicalmente a un concetto di “solidarietà” distorto e incapace di convertire la “società” in un bene “comune”, condiviso, posseduto dalla comunità, che è l’unico rimedio contro “miseria” e “umiliazione”, ossia l’esclusione (il terrore di essere spinti fuori strada o di cadere fuori dalla vettura del progresso che accelera sempre più) e la condanna dell’“esubero” sociale (il terrore di essere privati del rispetto dovuto agli esseri umani e di essere designati come “rifiuti umani”).


Purtroppo versiamo in una società satura di informazioni e i titoli dei media servono soprattutto a cancellare (efficacemente) dalla memoria pubblica i titoli del giorno prima. I mass media non hanno nulla a che vedere con la giusta formazione culturale rispetto alle cause dei problemi sociali in cui versiamo. Credere di ricevere informazioni oneste da apparati costituiti o finanziati da forze economiche estranee al bene comune è un atteggiamento fideistico che non possiamo più permetterci e anzi, che non avremmo mai dovuto lasciare accadere. Delegare l’interesse comunitario a qualcun altro è un paradosso: un’assurdità. Se teniamo veramente all’Altro, anziché donare due euro a una delle tante associazioni spuntate come funghi, andiamo in cerca delle reali cause dei suoi problemi. È questa l’unica polizza di assicurazione che lo Stato (la Comunità) può emettere in suo favore. È questa l’unica donazione efficace a risolvere alla radice i suoi problemi. Se non comprendiamo ciò, disuguaglianza e miseria non arresteranno il loro cammino, e noi ci assicureremo la catastrofe.

“Combattere per la pace è come fare l’amore per la verginità”


Nella quotidiana e perpetua discussione mediatica, ora su quel provvedimento ora sull’altro, quel che non manca mai sono quegli elementi che rendono la vita politica del Paese ignobile, stantia, ripugnante, oltre che socialmente molesta, irritante, frustrante. Ogni giorno la classe dirigente finge di chiedersi quali sono i motivi che hanno trascinato i cittadini verso una disaffezione cronica nei confronti della realtà sociale e politica senza mai, naturalmente, provare a darsi una risposta definitiva e con questa, da questa, conseguentemente ripartire daccapo rimuovendoli per far sì che le proteste, espresse più che chiaramente col non-voto, siano finalmente ascoltate. Invece, l’imbroglio delle riforme in atto volute da chi istruisce l’abile racconta-novelle premier italiano, degno successore di Berlusconi, viene spacciato ingegnosamente come la volontà della maggioranza assoluta del popolo italiano che, va ricordato, si tratta invece del 40,8% di elettori che rappresentano un esiguo 23,7% della popolazione elettorale con diritto di voto. Un 23,7% dal quale trarre prepotentemente legittimità per appropriarsi indebitamente dei bisogni e delle richieste angosciate di coloro che non ce la fanno più a sopportare questo ridicolo e deleterio gioco psicologico delle parti, dove a chi dice il bianco viene contrapposto chi afferma il nero, con un rimpallo di responsabilità infinito, senza mai arrivare a niente, senza mai risolvere niente, se non a garantire l’inattaccabilità e la prosecuzione indisturbata degli affari e delle ambizioni dei singoli attori che prendono parte alla commedia drammatica che è diventata la politica e la società tutta.

Riforme che vengono confezionate e presentate al popolo consumatore di slogan come la più passionale delle rivoluzioni in atto dal dopoguerra ad oggi.

Perché le riforme si fanno in Tv e, si badi bene, non solo negli ormai classici e sempre più avvalorati talk-show, ma anche nelle fiction, nel cinema, nei social, nei blog, nei giornaletti di gossip, nel calcio, nei romanzi, nelle manifestazioni di ogni tipo, e in tutto il possibile da spremere e sfruttare come palcoscenico utile a narrare una riforma, non in atto, ma narrata, appunto. Solo narrata. A benedire la fedeltà, nonostante tutto, dei restanti (pochi) milioni di elettori del partito (e non solo quelli) che pretende di essere l’unico erede delle speranze rivoluzionarie.

Assistiamo così inermi alla cannibalizzazione degli spazi mediatici, e conseguentemente pubblici, e a un protagonismo che purtroppo ha dei precedenti e avrà dei seguiti sempre più esaltati ed esaltanti. E come in ogni circostanza, fatta diventare volutamente di grande impatto mediatico affinché s’intrattengano le attenzioni del pubblico, si deve offrire a quest’ultimo — che subisce — un capro espiatorio, che nella narrazione corrente è incarnato nel “gufo”, nel “pessimista”, nel “disfattista”, che viene incastrato come fosse lui l’assassino, cosicché ci si possa prendere il merito d’aver ispirato ottimismo e fiducia; e condannare nello stesso tempo implicitamente tutti coloro che hanno pensato si potesse trovarlo “finalmente” in un regime politico esperto solo nel salvaguardare interessi che non appartengono certo alla collettività. Un colpevole, o presunto tale, dunque, che anche se non fosse lui lo sarà comunque a vita nell’immaginario collettivo.

Perché ormai è così, dai “piani alti”, di qualunque settore si tratti, basta dire insistentemente che si sta facendo qualcosa affinché questo diventi virale, quindi reale, effettivo, e se qualcuno provasse a dire che così non è, basterà semplicemente ribadire che così invece è, e il gioco del contraddittorio continua indefinitamente, sulla pelle di coloro che di questo genere di intrattenimento social-mediatico, sponsorizzato e pagato profumatamente dalle aziende che nel frattempo devono vendere i loro prodotti di consumo, ne hanno piene le scatole. E che ne hanno piene le scatole lo esprimono da anni non esercitando il diritto di voto, poiché sa quanto sia diventato inutile, infruttuoso, esercitarlo, forte dei reiterati scandali e corruzioni che ogni giorno la magistratura scoperchia in ogni settore e anfratto della società, ma soprattutto ai piani alti, quelli dai quali si “amministra” il Paese.

Nel frattempo, mentre gli animali da palcoscenico, negli interminabili dibattiti, discutono su come affrontare i problemi causati dalla crisi, ma non su quelli che hanno causato quest’ultima, la guerra bussa alle nostre porte.

E sembra essere proprio questo il futuro che ci attende: mentre fuori, la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, ovvero le socializzazioni, le relazioni, le esperienze, le comunità, eccetera, si va sfaldando sempre più, e a noi non resterà altro da fare che aggrapparsi alla costruzione virtuale di essa, le potenze mondiali si stanno organizzando per guerreggiare contro il terrorismo, per l’ennesima volta. Terrorismo che oggi si chiama Isis, o per “i più ammaestrati” Islam, ieri Bin Laden, l’altro ieri di Saddam, e che è figlio dell’egemonia occidentale, del nostro modello di sviluppo economico, che invade, sfrutta e distrugge, ma ignora quando c’è da soccorrere e ricostruire dopo aver raso al suolo ed essersi accaparrato le risorse. Conosciamo i moventi della guerra, così come conosciamo le giustificazioni utilizzate per promuoverla. Ne abbiamo esperienza. Già più di tremila anni fa, nei testi sanscriti del 1200 a.C., il termine utilizzato per indicare la guerra, युद्ध yuddha, significava “desiderio di possedere più mucche”, e più recentemente le due guerre mondiali dovrebbero essere un esempio tanto eclatante da non poter lasciare spazio all’immaginazione circa i disagi post-bellici che costituiscono il terreno fertile per le ideologie estreme dei regimi totalitari. Eppure regolarmente, metodicamente, a vincere è lo scenario vagheggiato dell’invasione dei nostri territori, della nostra libertà, della nostra sicurezza, che solletica la nostra paura, che a sua volta ci convince ad accettare l’attacco armato per difendere tutto ciò.

La politica, la democrazia, che un tempo credevamo essere soluzioni, oggi si rivelano inefficaci, trappole, sabbie mobili nelle quali l’umanità organizzata sta sprofondando. E così guerre, barbarie, razzismo e follia sono il risultato dei fallimenti delle operazioni pseudo-democratiche che perseveriamo, il vero avanzo di questo inestricabile groviglio. Troppi si ostinano a pensare che la fuga da paesi in guerra sia un segno di rinuncia e di codardia; al contrario, dovrebbe suggerire l’esperienza, essa è l’impossibilità di reazione nei confronti d’un sistema troppo grande e troppo forte da poter essere combattuto, contrastato, controllato. E a tutto questo cumulo di menzogne, oggi si aggiunge l’incubo di un’imminente invasione dei terroristi a bordo dei barconi carichi di profughi. E allora facciamo l’ennesima guerra, che darà i natali all’ennesimo nemico che dovrà essere combattuto per l’ennesima volta, non prima, s’intende, d’aver guadagnato l’ennesimo bel gruzzoletto vendendogli l’ennesimo consistente arsenale bellico.

Il nostro modello di sviluppo economico-sociale, il nostro modello democratico, non garantisce a noi, che facciamo parte di questa porzione di mondo, il giusto progresso verso una vita dignitosa, ma anzi sfrutta e alimenta l’ignoranza attraverso tagli alla Cultura, all’Istruzione, e mettendo altresì in atto campagne mediatiche mascherate sotto il nome di “informazione”, ma che nei fatti fornisce un surplus di notizie contrastanti, contraddittorie fra loro, celando in questo modo, dietro la facciata apparentemente democratica, una squallida, totale e assoluta disinformazione. La trasmissione di notizie di oggi assomiglia sempre più a un perpetuo funerale che celebra la morte dell’individualità, della razionalità, e che sembra avere il solo fine di alimentare ignoranze e inconsapevolezza. È l’eccesso delle ragioni, infatti, ad uccidere la ragione stessa. Andiamo a combattere una guerra fuori, quando l’unica a dover esser combattuta è qui e si chiama “ignoranza”. Non siamo in grado noi di conquistare dignità, come possiamo pensare di esportarla altrove, e di farlo per giunta con dignità?

2015: NON SARÀ UNA BUONA ANNATA…


In controtendenza, rispetto ai tradizionali auspici, in opposizione ai più affezionati fan dei più fidati oroscopi, infischiandomene dei folcloristici auguri di buon anno, delle ottimistiche previsioni che fantasticano su di un futuro ignorando il presente, voglio qui di seguito stendere due righe di realtà, che pur essendo spiacevole, problematica, spesso antipatica, molesta e intollerante, merita d’esser presa in considerazione.

Di giorno in giorno si susseguono notizie che mostrano tendenze negative in materia di uguaglianza. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha calcolato che tre miliardi di persone vivono oggi sotto il livello della povertà, fissato in 2 dollari di reddito al giorno. Sappiamo che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti, mentre il 20 per cento più povero consuma l’1 per cento. Si stima inoltre che il 40 per cento della ricchezza mondiale è posseduto dall’1 per cento della popolazione totale del mondo, mentre le 20 persone più ricche del mondo hanno risorse pari a quelle del miliardo di persone più povere. Nel 1998 nello Human Development Report delle Nazioni Unite si documentava che il 20 per cento della popolazione mondiale si accaparrava l’86 per cento di tutti i beni e i servizi prodotti nel mondo, mentre il 20 per cento più povero ne consumava solo l’1,3 per cento.
Se negli anni ’60 la retribuzione netta media dei Dirigenti era di 12 volte rispetto a quella media dei lavoratori, vent’anni dopo era di 42 volte, nel 1990 raddoppia a 84 volte, nel 1999 schizza a 400 e nel 2000 a 531 volte.

Tavola 1
Evidentemente qualcosa non va.

Raccogliamo, estremizzandole, quindi le idee di chi indirizza – o di chi crede di fare il bene indirizzandolo così – il mondo e la sua economia in questo senso.

Viviamo in una società che si regge sui consumi, nella quale, quindi, le persone sono vincolate (per non valersi di termini più adatti come “costrette” o “obbligate”) ad essi affinché la sua “organizzazione” non ne soffra e non rifletta conseguenze evidenti. Conseguenze che possono essere appunto più o meno visibili, giacché l’impulso a consumare, penetrato negli anni fra le vocazioni umane sfrattando dai primi posti ogni altra, è sostenuto massicciamente esercitando un’infinità di forme promozionali; è, di conseguenza, sempre più difficile riuscire a vedere quel che si nasconde dietro i cartelloni pubblicitari, dove a caratteri cubitali dominano inesauribili soluzioni ad inesauribili problemi indotti. Questa è infatti la verità indiscussa e indiscutibile sulla quale sta affannosamente tenendosi in equilibrio la nostra economia. Un paradosso, considerato l’enorme squilibrio sociale generato finora.
Tutto ciò ha un nome, una definizione ormai (è il caso di dirlo) celebre e celebrata come indispensabile, come il solo processo di sviluppo possibile per il futuro dell’umanità, smerciato ad essa come una casa di distribuzione discografica schiera sugli scaffali in bella vista, davanti a tutti gli altri, un qualsiasi vincitore di Talent Show spacciandolo proprio per talento:

Neoliberismo.

I Neoliberisti sono degli individualisti convinti, vale a dire: è al singolo individuo che spetta il compito di collocarsi nella società, di realizzare in essa la propria vita con le proprie forze e capacità, escludendo di fatto tutti coloro che non sono all’altezza di sbrogliarsela nell’arzigogolato groviglio realizzato nel tempo attraverso la commercializzazione selvaggia dell’esistenza stessa. È compito, dunque, degli individui cercare fra le soluzioni ingegnosamente disposte sugli scaffali le più adatte a dare risposte a domande tanto più stimolate quanto più infondate, ma necessarie a tenere in piedi il modello economico corrente. In poche parole: competerebbe alla maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, lasciarsi abbindolare da quanto viene offerto e fare del nostro meglio per sostenere l’attività economica. Pena l’esclusione, l’emarginazione da quel che è divenuto un meccanismo comportamentale vizioso, nel quale l’individuo si sentirà un estraneo e sarà considerato tale dalla società, asociale, perciò suscitando la stigmatizzazione del resto del gruppo che lo escluderà ancora di più.
Ancora:
“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire”, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Abbiamo detto che i consumi sono l’anima della nostra economia, ed è implicito che così indirizzata rimpolpa i soli conti in banca di chi produce beni di consumo, siano questi effimeri o necessari alla sopravvivenza. Chi produce ha interesse a minimizzare i costi di produzione massimizzando i profitti, dunque riducendo la manodopera e aumentando la meccanizzazione del lavoro i risultati possono essere sorprendenti… agli occhi di coloro che non perdono occasione di abusarne. E chi ne abusa sono gli avidi e gli avari.
L’avidità e l’avarizia sono due nozioni che hanno significati diversi, ma che se associati fanno assumere, a chi ne è conquistato, connotati più o meno consapevolmente perversi. Ed è attraverso la pubblicità, propinata collettivamente come un’esca per farci desiderare sempre qualcosa di più, che accettiamo l’avidità come modo di essere.

Non è vero quindi che chi produce e si arricchisce crea nuovi posti di lavoro.

Se ancora non basta, avviandoci alla conclusione di questo post, e di questo anno, rendiamo tutto più negativo prendendo in esame l’ultimo Rapporto dell’ILO (International Labour Organization):
“Ai ritmi attuali – si legge nel Rapporto –, da qui al 2018 saranno creati 200 milioni di posti di lavoro supplementari. Questo dato è inferiore al livello necessario per assorbire il numero crescente di nuovi ingressi nel mercato del lavoro”. […] “Il numero dei disoccupati a livello globale è salito di 5 milioni nel 2013, raggiungendo quota 202 milioni, che equivale ad un tasso di disoccupazione mondiale del 6%.
Nel 2013, circa 23 milioni di lavoratori hanno abbandonato il mercato del lavoro.
Entro il 2018 ci si aspetta un aumento di oltre 13 milioni di persone in cerca di lavoro.
Nel 2013, circa 74,5 milioni di persone tra i 15 e i 24 anni erano disoccupate, che equivale ad un tasso di disoccupazione giovanile del 13,1%.
Nel 2013, le persone che vivevano con meno di 2 dollari al giorno erano circa 839 milioni.
Nel 2013, circa 375 milioni di lavoratori vivevano con le loro famiglie con meno di 1,25 dollari al giorno.

La disoccupazione giovanile resta la principale preoccupazione.

Il rapporto sottolinea l’urgenza pressante di integrare i giovani nella forza lavoro. Attualmente, sono 74,5 milioni le donne e gli uomini disoccupati sotto i 25 anni, un tasso di disoccupazione giovanile che ha superato il 13%, ovvero più del doppio del tasso di disoccupazione generale a livello globale.

Nei paesi in via di sviluppo, il lavoro informale resta diffuso e il percorso verso un miglioramento della qualità dell’occupazione sta rallentando. Ciò significa che meno lavoratori riusciranno ad uscire dalla condizione di povertà da lavoro. Nel 2013, il numero di lavoratori in povertà estrema — che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno — è sceso solo del 2,7% a livello globale, uno dei tassi più bassi degli ultimi 10 anni, fatta eccezione degli anni immediatamente successivi alla crisi”.
[…] “La qualità del lavoro nella maggior parte dei paesi della regione (europea) è peggiorata a causa dell’ulteriore aumento dell’incidenza del lavoro temporaneo involontario e part-time, della povertà da lavoro, del lavoro informale, della polarizzazione del lavoro e dei salari, e delle disuguaglianze di reddito.
La ripresa fragile è in parte dovuta al perseguimento delle politiche di austerità nella regione.
Esiste il rischio che le politiche monetarie e fiscali continuino a non essere coordinate in quanto l’austerità fiscale è perseguita con la creazione di liquidità non convenzionale e accomodante da parte delle banche centrali degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone. […] «Con 23 milioni di persone che hanno abbandonato la ricerca di un impiego, è imperativo che le politiche attive del mercato del lavoro siano attuate con maggiore vigore al fine di contrastare l’inattività e il mismatch (condizione di disequilibrio) tra domanda e offerta di competenze», ha dichiarato Ernst, Direttore dell’Unità sulle tendenze globali dell’occupazione del Dipartimento di ricerca dell’ILO.
Una virata verso politiche più favorevoli all’occupazione e un incremento dei redditi da lavoro rafforzerebbe la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, sottolinea il rapporto. Nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, è cruciale rafforzare i sistemi di protezione sociale di base e promuovere transizioni verso l’occupazione formale. Anche questo contribuirebbe a sostenere la domanda aggregata e la crescita globale”.
(Qui il Rapporto completo)

Allora auguro a tutti noi, di cuore, un anno di consapevolezza in più, certo di felicità, e mi auguro non accettiate mai come giuste, cercando di approfondirle, le condizioni umilianti di chi non ha la possibilità materiale e la forza spirituale di lottare contro chi gli ripete che “volere è potere”, che si può tutto nonostante condizioni sociali sempre più avverse. Non è vero. Non credeteci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale.
BUON ANNO!

🙂
Cristiano

Manifestazioni di dissenso: ecco perché, “grazie ai media”, sono ininfluenti


Ruberie, soprusi, discriminazioni, disuguaglianze e povertà sono in costante crescita in Italia e nel mondo, eppure il popolo sembra aver perso la capacità di ribellarsi, o quantomeno di manifestare disgusto verso una
classe dirigente sempre più incapace, attenta solo a salvaguardare i propri interessi personali e quelli di chi finanzia le loro perenni campagne elettorali. Il dio denaro, sempre lui, abbatte tutto e tutti, comprese le manifestazioni di protesta che hanno da sempre evidenziato il carattere umano, solidale e comunitario delle società nei momenti di maggior sofferenza. Ma da solo il denaro non basta. Bisogna disporre anche dei giusti strumenti (che il denaro ovviamente compra) in grado di corrompere e compromettere la struttura psicologia e percettiva degli eventi cui il popolo viene a conoscenza ogni giorno. Ecco allora che i mezzi di comunicazione di massa, compresi i nuovi media, svolgono un ruolo fondamentale a tal fine.

Un tempo l’uomo si riuniva attorno a un fuoco e più tardi a una tavola imbandita dove assieme con altri consumava i pasti discutendo degli accadimenti passati, quotidiani e di quelli futuri; oggi il fuoco non ha più quell’utilità e i pasti, nell’era dei “fast food”, vengono consumati in tutta fretta e dove capita, magari chiusi ognuno nella propria stanza davanti al proprio televisore sintonizzati sul proprio programma preferito. Si è soli, teoricamente in compagnia di altri individui soli come noi, tuttavia ciò non ha la prerogativa di renderci meno soli. Anzi.

La Tv in particolare, oltre ad essere una fabbrica di stereotipi e di spettacolo, ha la funzione primaria di dare al pubblico spettatore ciò che la fantasia riesce a produrre, ovverosia offre una valvola di sfogo fittizia, priva di reale consistenza capace di placare sul nascere ogni forma di espressione costituita individualmente. Con l’avvento dei talent-show ad esempio — a sostegno di quella che non è certo una teoria — il numero di persone sedotte da essi che aspirano a diventare ballerini, cantanti, attori, scrittori, eccetera, è aumentato smisuratamente. I nuovi media a tal proposito, grazie al prezioso contributo dei social network, amplificano, esaltano e sviluppano ancor di più tutto il materiale che la Tv produce — anche se in alcuni casi può verificarsi l’inverso ottenendo comunque lo stesso risultato —, interagendo fra loro come una protesi fa con chi la indossa.

“Diventare famosi!”, di fatto, è il feticcio cui gran parte della società delle apparenze ambisce. «Essere famosi» non significa nulla di più (ma anche nulla di meno!) che essere i protagonisti delle prime pagine di migliaia di riviste ed essere presenti su milioni di schermi, essere visti e notati, essere oggetto di conversazione e dunque, presumibilmente, “di desiderio” da parte di tante persone.

La nostra fantasia produce empiricamente i suoi frutti, ovvero elabora desideri che gli giungono ai sensi attraverso l’esperienza dei fenomeni e degli accadimenti. E in un mondo, come afferma Germaine Greer, in cui “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, ciò che giunge ai sensi è accuratamente selezionato per essi dal mondo dei mass media.

L’aspirazione dell’umanità è sempre stata, utopisticamente, quella di raggiungere la “bellezza” della perfezione — o “la perfezione della bellezza” — e i modelli offerti dai media volgono dispoticamente verso quella che dal modello sociale dominante è spacciata per tale. Ma, come acutamente ci illumina Baudrillard, “la perfezione è sempre stata punita: la punizione della perfezione è la riproduzione”. Perfezione, pertanto, alla quale noi tutti siamo sottomessi indefessamente, cui noi tutti dobbiamo obbedire, sopportare e ambire di riprodurre, imitare per tentare di realizzare le nostre fantasie istigate dalla perfezione stessa dalla quale sono accerchiati.

Ci troviamo così di fronte a un’esibizione criminogena della perfezione, a una produzione di fantasie e aspirazioni bramose, ma l’elemento ancor più preoccupante è la convinzione che si insinua fraudolentemente negli individui, che è quella di fargli credere di star facendo qualcosa che in realtà non fanno; di essere qualcuno che in realtà non sono, e di possedere delle qualità che in realtà non hanno. Possiamo rilevare ciò registrando il tempo che trascorrono sui palcoscenici le miriadi di presunti nuovi talenti smerciati per tali al grande pubblico dalle case discografiche o dagli improbabili talent-scout, che appunto vendono persone come pane fresco, le loro facce, le loro voci, i loro corpi, il loro modo di (farsi) vestire, come fossero ognuno migliore dell’altro, proprio come un prodotto sullo scaffale di un supermercato sulla cui confezione campeggiano frasi come “il migliore in assoluto”, oppure “eletto prodotto dell’anno”. Di facile seduzione per il pubblico, ma anche di seria frustrazione quando chi apre la confezione si rende conto (ma senza prenderne realmente coscienza) che poco differisce dagli altri prodotti, o quando “il talento” stesso si accorge di essere stato rimpiazzato da quello successivo.

Naturalmente il pubblico fatica ad accorgersi di siffatti rimpiazzi poiché tenuto in perenne suspense ed eccitazione dall’annunciato prossimo fenomeno, e quand’anche se ne accorgesse non sarebbe rilevante dacché gli individui cui si rivolge il mercato non sono interessati, anzi, non percepiscono nemmeno certe strategie di marketing. Ma le subiscono; motivo per il quale ambiscono a diventare prodotti loro stessi, convinti di dare alla “perfezione” il proprio contributo, giacché persuasi di esserne portatori.

Ed è in questa riproduzione indefinita di prodotti da consumare che ci smarriamo, che ci consumiamo, e dalla quale usciamo vinti combattendo una battaglia che non siamo noi a chiedere di combattere, ma che ci depreda delle forze e della concentrazione necessarie per affrontare quelle di una vita sempre più avversa, che andrebbero invece osteggiate con impegno e costanza.

Generare un’aspettativa è il vero nocciolo di tutta la questione fin qui trattata. Una società che regge la propria economia grazie ai consumatori, infatti, cresce rigogliosa (gonfiando le sole tasche di chi produce selvaggiamente) finché riesce a rendere perpetua l’insoddisfazione dei suoi membri. In ogni aspetto della vita sociale. Per sostenerla, l’impulso a cercare le soluzioni ai nostri problemi, alle nostre ansie e dolori nei prodotti (o persone) pubblicizzati, non solo è incoraggiato esplicitamente, ma è un comportamento che provoca assuefazione verso l’insoddisfazione e la delusione, diventando abitudine priva di alternativa. Se la soddisfazione fosse definitiva nessuno venderebbe più soluzioni.

Mantenere il consumatore in persistente tensione è la strategia madre di tutte le strategie di vendita adottate dal mercato. Per vendere un prodotto, una persona, un’idea, una riforma, non c’è necessità che questi siano ciò che per cui sono spacciati. Devono rispondere semplicemente all’esigenza di un pubblico che chiede e desidera quanto gli è stato imbeccato di desiderare, di conseguenza, se chiede una rivoluzione basterà piazzare sugli scaffali qualcuno con su scritto sulla maglietta “rivoluzione in corso” per dargli l’impressione di trovarcisi nel bel mezzo; se chiede un talento basterà mandare in scena qualcuno spacciato per tale; se chiede che i suoi sogni possano essere realizzati basterà presentargli qualcuno cui (a tale scopo) sono stati realizzati; se chiede una riforma basterà annunciare qualcosa come tale; se chiede giustizia basterà fare la telecronaca degli arresti eseguiti; se chiede un colpevole basterà indicarglielo; se chiede la fine della fame nel mondo basterà allestire un’Expo; se chiede salari più alti sarà sufficiente fargli credere di avere 80€ in più in busta paga; e via di seguito. Allora è una delusione continua, che genera frustrazione continua, che reprime la rabbia e che ci convince di essere sempre più impotenti di fronte alle infinite complessità che ci vengono rappresentate quotidianamente, ininterrottamente, e alle quali, nonostante tutti i nostri sforzi, non troviamo soluzioni definitive. Del resto ansia da prestazione, eiaculazione precoce e orgasmi simulati sono peculiarità di una società esigente e “fast” come la nostra, insieme ad un consumo sempre più massiccio di antidepressivi.

Thomas Hylland Eriksen spiega perfettamente la società confusa nella quale viviamo:
“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.
(“Tempo tiranno”, p. 139 – 144)

Non essendoci narrazione logica, tantomeno percezione di quel che accade attorno a noi, ne consegue che preferiamo astenerci e lasciar fare agli altri, convinti, in senso lato, di dare lo stesso il nostro contributo poiché apparentemente ci sentiamo al centro del dibattito, quale che sia. In fondo, crediamo tutti di essere dei talenti e di poter cambiare il nostro microcosmo, nonostante il sempre più degradato macrocosmo che ci avvolge, e non viceversa, come invece dovrebbe essere.

Linguaggio abbreviato: sbagliando s’impara a sbagliare


Il linguaggio abbreviato accorcia la vita alla ragione.

Scrivere non è l’unica forma di linguaggio espressivo che abbiamo, è vero, ma sforzarsi di farlo meglio, se non bene, in ogni circostanza, non solo rafforza l’efficacia, l’incisività di quel che vogliamo comunicare, ma anche preserva, aiuta a custodire uno dei beni più preziosi di cui gode l’essere umano; un bene conquistato attraverso un processo evolutivo lungo e complesso che ci portiamo dentro e che tramandiamo di generazione in generazione; è parte di noi: ci fa contenenti, non soltanto contenitori.

Quel che è certo, è che con l’avvento delle nuove tecnologie questa forma espressiva sta andando sempre più sciupandosi, storpiandosi, deformandosi, spogliandosi, amputandosi, standardizzandosi a un modello sociale che, come spesso ripeto, esorta a tener conto della sola superficie anziché del contenuto. Esprimiamo perciò attraverso il linguaggio, affermiamo nel modo di parlare, la nostra disumanizzazione. Il linguaggio di oggi si “articola” in modo tale che venga utilizzato un significato abbreviato che blocca lo sviluppo del contenuto, e che ci spinge ad accettarlo come l’unica forma da apprezzare.

Il linguaggio abbreviato, e ripetuto assiduamente, fissa l’analisi abbreviata nella nostra mente e in quella del destinatario. Riducendo il linguaggio costringiamo il pensiero in uno spazio limitato. Oggi pensiamo e ci esprimiamo attraverso slogan che “scarnificano” l’analisi. La politica per prima si esprime utilizzando slogan persuasivi e noi, costretti ad ascoltarli poiché meticolosamente ripetuti, li approviamo e avvaloriamo erigendoli a metodo, giusti, sinceri, verità.

Nelle chat dei social network, oppure quando inviamo un messaggio dal cellulare, la tendenza è quella di tagliare le parole, riassumere concetti, sintetizzare frasi quanto più è possibile, di “onomatopeizzarle” per renderle ancor più brevi.

L’accorciamento della sintassi è la rovina del linguaggio espressivo: reprime lo sviluppo del significato, limita le capacità cognitive e pietrifica con concretezza sopraffattoria l’estensione della riflessione. Nel marketing l’immagine prevale sul contenuto, e lo slogan sull’analisi, di conseguenza una forma espressiva sprovvista di una corretta sintassi minimizza l’autorevolezza del contenuto. Ciò, oltre a rendere poco comprensibile ai nostri interlocutori quanto vogliamo comunicare, ci abitua a tralasciare sfumature che renderebbero più vigoroso, intenso e penetrante il linguaggio. Questo chiaramente vale anche per quel che concerne la punteggiatura, che pare non essere mai esistita. Una corretta punteggiatura dà il giusto tono alle nostre frasi, che altrimenti parrebbero atonali o stonate, senza sfumature anch’esse.

Oggi più che mai incombe la necessità di riprendere ad esprimerci come un tempo, di tornare ad apprezzare una qualità conquistata, ereditata, acquisita, avvalorata da grandi scrittori e oratori che hanno segnato profondamente l’esistenza umana, regalando alla storia opere d’arte senza tempo.

I gesti ripetuti diventano prassi, norma, senza che a nessuno venga imposto e nessuno imponga nulla esplicitamente, e se sono gesti sbagliati, ripetendoli non possiamo far altro che imparare a sbagliare, non a migliorare. Difendiamo la scrittura. Sempre. Non adattiamoci ai metodi persuasivi del marketing. Di sicuro c’è che a trarre vantaggio da questo modo di apprende ed esprimerci, non siamo noi.
“Errare humanum est, perseverare diabolicum”.