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San valentino: amare per decreto


“In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo
per evitare di confrontarsi con la propria anima.
Non si raggiunge l’illuminazione immaginando figure di luce,
ma portando alla coscienza l’oscurità interiore.
Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia”.
Carl Gustav Jung

Lasciataci alle spalle la festa di San Valentino, una fra le più incoerenti sul piano interazionale fra esseri umani messe a disposizione dei consumatori, riprendiamo la nostra routine quotidiana da dove l’avevamo “abbandonata” per un momento. Una routine già falsificata di per sé, ma sempre più snaturata dai continui attacchi che ci obbligano a vivere frangenti e provare sentimenti solo in determinate occasioni, e per un circoscritto lasso di tempo. In parole povere: le feste ormai sono un intervallo pubblicitario fra una pubblicità e l’altra.

E stendiamo allora una breve considerazione sull’amore, poiché questa la “sostanza” della festa appena trascorsa.

L’amore, che è l’unico antidoto contro il narcisismo, il primo a lanciare allarmi quando c’è da demolire la falsità delle pretese alle quali cerchiamo di tenere aggrappata la nostra autostima, oggi impallidisce davanti all’esuberanza e all’eccitazione, ma anche all’ansia, spesso all’angoscia e alle frustrazioni che scaturiscono da un senso di inadeguatezza sempre più marcato, nei confronti di emozioni e impulsi primordiali sempre più indecifrabili, ma obbligati a manifestarsi a comando poiché fissati sul calendario. Ed è così che, in questo enorme vortice di partecipazioni prescritte, capita che si avverta il bisogno di raccogliere le idee per dar vita all’indignazione. E’ da quest’ultima che emerge la necessità di adoperarsi per dare (anzi ridare) “un senso al senso”.

L’amore appunto, declassato a sottoprodotto di quel che erano nostri più intimi e antichi sentimenti, è impiegato oggi come un’efficace espediente per commercializzare quella che somiglia sempre più a una fiera delle ostentazioni. Il boom elettronico, i favolosi profitti ammassati dalla vendita di strumenti capaci di obbedire a qualsivoglia volontà del padrone, offre un vasto assortimento dal quale attingere l’esperienza della meraviglia. E non ha rilevanza alcuna che sia essa artificiosa o autentica, simulata o sincera, purché sia in grado di accomunarci tutti, di regalarci quel senso di appartenenza cui tanto aspiriamo, più o meno dichiaratamente, più e meno consapevolmente. Perché è dalla solitudine prodotta dai nostri schermi portatili che nasce il nostro senso di aggregazione, non più, quindi, dalla solitudine esistenziale di natura amletica, o filosofica che dir si voglia. Non desideriamo avere dubbi: desideriamo e basta, e lo facciamo per decreto. Non ci interessa imparare ad amare, tanto meno porci domande: ci interessa l’esibizione dell’amore, affinché altri possano riconoscersi e riconoscerci, affinché noi ci riconosciamo in quella degli altri. Ma un senso di appartenenza filtrato, e in aggiunta provocato per decreto, potrà mai renderci consapevoli d’essere “qualcuno” e di far parte, di conseguenza, di “qualcun altro”? Se tutto muove e scivola sulla superficie ornamentale dell’esistenza, se rifiutiamo la comprensione, la consapevolezza e soprattutto l’esperienza, allora rifiutiamo l’amore.

Perché l’esibizione dell’amore, la costrizione a cui siamo implicitamente chiamati ad ubbidire per ragioni programmatiche e come già detto per supplire, o peggio ancora surrogare, a quel che è rimasto del nostro senso di appartenenza, è un’ostentazione fine a se stessa, che dietro al buonismo sentimentale di facciata nasconde in realtà inquietudini come agonismo, emulazione, insoddisfazioni, incomprensioni… che ci è permesso di lavar via in un determinato momento fissato sul calendario, compiendo determinati gesti fissati sugli schermi, dai quali sfilano infinite immagini che richiamano (si voglia o no, o lo si creda o meno) la nostra attenzione convincendoci ad entrare a far parte di “qualcuno filtrato”, e attraverso i quali facciamo gran parte delle esperienze della vita, e dunque dell’amore.

Ora, è vero che il mondo è un mondo spietato, che sfrutta, inganna e mente, e che noi siamo la massima espressione di quest’inganno, di cui a volte ci adoperiamo per conoscere le cause, non per farvi fronte e ritrovare la verità dei nostri sogni, della nostra vita, del nostro senso di appartenenza… dell’amore, ma per adattarci e ingannare, e ingannarci, a nostra volta, perché in fondo che ci frega? A Natale siamo tutti più buoni, e a San Valentino tutti più innamorati.

Bene allora, San Valentino è trascorso, i regali sono stati consumati; possiamo tornare a ingannarci nell’attesa che arrivi il Natale.

2015: NON SARÀ UNA BUONA ANNATA…


In controtendenza, rispetto ai tradizionali auspici, in opposizione ai più affezionati fan dei più fidati oroscopi, infischiandomene dei folcloristici auguri di buon anno, delle ottimistiche previsioni che fantasticano su di un futuro ignorando il presente, voglio qui di seguito stendere due righe di realtà, che pur essendo spiacevole, problematica, spesso antipatica, molesta e intollerante, merita d’esser presa in considerazione.

Di giorno in giorno si susseguono notizie che mostrano tendenze negative in materia di uguaglianza. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha calcolato che tre miliardi di persone vivono oggi sotto il livello della povertà, fissato in 2 dollari di reddito al giorno. Sappiamo che il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale consuma il 90 per cento dei beni prodotti, mentre il 20 per cento più povero consuma l’1 per cento. Si stima inoltre che il 40 per cento della ricchezza mondiale è posseduto dall’1 per cento della popolazione totale del mondo, mentre le 20 persone più ricche del mondo hanno risorse pari a quelle del miliardo di persone più povere. Nel 1998 nello Human Development Report delle Nazioni Unite si documentava che il 20 per cento della popolazione mondiale si accaparrava l’86 per cento di tutti i beni e i servizi prodotti nel mondo, mentre il 20 per cento più povero ne consumava solo l’1,3 per cento.
Se negli anni ’60 la retribuzione netta media dei Dirigenti era di 12 volte rispetto a quella media dei lavoratori, vent’anni dopo era di 42 volte, nel 1990 raddoppia a 84 volte, nel 1999 schizza a 400 e nel 2000 a 531 volte.

Tavola 1
Evidentemente qualcosa non va.

Raccogliamo, estremizzandole, quindi le idee di chi indirizza – o di chi crede di fare il bene indirizzandolo così – il mondo e la sua economia in questo senso.

Viviamo in una società che si regge sui consumi, nella quale, quindi, le persone sono vincolate (per non valersi di termini più adatti come “costrette” o “obbligate”) ad essi affinché la sua “organizzazione” non ne soffra e non rifletta conseguenze evidenti. Conseguenze che possono essere appunto più o meno visibili, giacché l’impulso a consumare, penetrato negli anni fra le vocazioni umane sfrattando dai primi posti ogni altra, è sostenuto massicciamente esercitando un’infinità di forme promozionali; è, di conseguenza, sempre più difficile riuscire a vedere quel che si nasconde dietro i cartelloni pubblicitari, dove a caratteri cubitali dominano inesauribili soluzioni ad inesauribili problemi indotti. Questa è infatti la verità indiscussa e indiscutibile sulla quale sta affannosamente tenendosi in equilibrio la nostra economia. Un paradosso, considerato l’enorme squilibrio sociale generato finora.
Tutto ciò ha un nome, una definizione ormai (è il caso di dirlo) celebre e celebrata come indispensabile, come il solo processo di sviluppo possibile per il futuro dell’umanità, smerciato ad essa come una casa di distribuzione discografica schiera sugli scaffali in bella vista, davanti a tutti gli altri, un qualsiasi vincitore di Talent Show spacciandolo proprio per talento:

Neoliberismo.

I Neoliberisti sono degli individualisti convinti, vale a dire: è al singolo individuo che spetta il compito di collocarsi nella società, di realizzare in essa la propria vita con le proprie forze e capacità, escludendo di fatto tutti coloro che non sono all’altezza di sbrogliarsela nell’arzigogolato groviglio realizzato nel tempo attraverso la commercializzazione selvaggia dell’esistenza stessa. È compito, dunque, degli individui cercare fra le soluzioni ingegnosamente disposte sugli scaffali le più adatte a dare risposte a domande tanto più stimolate quanto più infondate, ma necessarie a tenere in piedi il modello economico corrente. In poche parole: competerebbe alla maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, lasciarsi abbindolare da quanto viene offerto e fare del nostro meglio per sostenere l’attività economica. Pena l’esclusione, l’emarginazione da quel che è divenuto un meccanismo comportamentale vizioso, nel quale l’individuo si sentirà un estraneo e sarà considerato tale dalla società, asociale, perciò suscitando la stigmatizzazione del resto del gruppo che lo escluderà ancora di più.
Ancora:
“I neoliberisti tendono a credere che, poiché il libero mercato è il sistema di scelta più razionale e democratico, ogni settore della vita dell’uomo dovrebbe essere aperto alle forze del mercato. Come minimo ciò significa che il governo dovrebbe smettere di fornire servizi che sarebbe meglio fornire aprendoli al mercato (compresi, presumibilmente, diversi servizi sociali e di welfare) […]”.
“I neoliberisti sono, in ultima analisi, degli individualisti radicali. Per loro qualsiasi appello a gruppi più ampi […] o alla società nel suo insieme non solo è privo di significato, ma è anche un passo verso il socialismo e il totalitarismo”.

Lawrence Grossberg
(“Caught in a Crossfire”, Paradigm, Boulder, Londra 2005, p. 112)

Abbiamo detto che i consumi sono l’anima della nostra economia, ed è implicito che così indirizzata rimpolpa i soli conti in banca di chi produce beni di consumo, siano questi effimeri o necessari alla sopravvivenza. Chi produce ha interesse a minimizzare i costi di produzione massimizzando i profitti, dunque riducendo la manodopera e aumentando la meccanizzazione del lavoro i risultati possono essere sorprendenti… agli occhi di coloro che non perdono occasione di abusarne. E chi ne abusa sono gli avidi e gli avari.
L’avidità e l’avarizia sono due nozioni che hanno significati diversi, ma che se associati fanno assumere, a chi ne è conquistato, connotati più o meno consapevolmente perversi. Ed è attraverso la pubblicità, propinata collettivamente come un’esca per farci desiderare sempre qualcosa di più, che accettiamo l’avidità come modo di essere.

Non è vero quindi che chi produce e si arricchisce crea nuovi posti di lavoro.

Se ancora non basta, avviandoci alla conclusione di questo post, e di questo anno, rendiamo tutto più negativo prendendo in esame l’ultimo Rapporto dell’ILO (International Labour Organization):
“Ai ritmi attuali – si legge nel Rapporto –, da qui al 2018 saranno creati 200 milioni di posti di lavoro supplementari. Questo dato è inferiore al livello necessario per assorbire il numero crescente di nuovi ingressi nel mercato del lavoro”. […] “Il numero dei disoccupati a livello globale è salito di 5 milioni nel 2013, raggiungendo quota 202 milioni, che equivale ad un tasso di disoccupazione mondiale del 6%.
Nel 2013, circa 23 milioni di lavoratori hanno abbandonato il mercato del lavoro.
Entro il 2018 ci si aspetta un aumento di oltre 13 milioni di persone in cerca di lavoro.
Nel 2013, circa 74,5 milioni di persone tra i 15 e i 24 anni erano disoccupate, che equivale ad un tasso di disoccupazione giovanile del 13,1%.
Nel 2013, le persone che vivevano con meno di 2 dollari al giorno erano circa 839 milioni.
Nel 2013, circa 375 milioni di lavoratori vivevano con le loro famiglie con meno di 1,25 dollari al giorno.

La disoccupazione giovanile resta la principale preoccupazione.

Il rapporto sottolinea l’urgenza pressante di integrare i giovani nella forza lavoro. Attualmente, sono 74,5 milioni le donne e gli uomini disoccupati sotto i 25 anni, un tasso di disoccupazione giovanile che ha superato il 13%, ovvero più del doppio del tasso di disoccupazione generale a livello globale.

Nei paesi in via di sviluppo, il lavoro informale resta diffuso e il percorso verso un miglioramento della qualità dell’occupazione sta rallentando. Ciò significa che meno lavoratori riusciranno ad uscire dalla condizione di povertà da lavoro. Nel 2013, il numero di lavoratori in povertà estrema — che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno — è sceso solo del 2,7% a livello globale, uno dei tassi più bassi degli ultimi 10 anni, fatta eccezione degli anni immediatamente successivi alla crisi”.
[…] “La qualità del lavoro nella maggior parte dei paesi della regione (europea) è peggiorata a causa dell’ulteriore aumento dell’incidenza del lavoro temporaneo involontario e part-time, della povertà da lavoro, del lavoro informale, della polarizzazione del lavoro e dei salari, e delle disuguaglianze di reddito.
La ripresa fragile è in parte dovuta al perseguimento delle politiche di austerità nella regione.
Esiste il rischio che le politiche monetarie e fiscali continuino a non essere coordinate in quanto l’austerità fiscale è perseguita con la creazione di liquidità non convenzionale e accomodante da parte delle banche centrali degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone. […] «Con 23 milioni di persone che hanno abbandonato la ricerca di un impiego, è imperativo che le politiche attive del mercato del lavoro siano attuate con maggiore vigore al fine di contrastare l’inattività e il mismatch (condizione di disequilibrio) tra domanda e offerta di competenze», ha dichiarato Ernst, Direttore dell’Unità sulle tendenze globali dell’occupazione del Dipartimento di ricerca dell’ILO.
Una virata verso politiche più favorevoli all’occupazione e un incremento dei redditi da lavoro rafforzerebbe la crescita economica e la creazione di posti di lavoro, sottolinea il rapporto. Nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, è cruciale rafforzare i sistemi di protezione sociale di base e promuovere transizioni verso l’occupazione formale. Anche questo contribuirebbe a sostenere la domanda aggregata e la crescita globale”.
(Qui il Rapporto completo)

Allora auguro a tutti noi, di cuore, un anno di consapevolezza in più, certo di felicità, e mi auguro non accettiate mai come giuste, cercando di approfondirle, le condizioni umilianti di chi non ha la possibilità materiale e la forza spirituale di lottare contro chi gli ripete che “volere è potere”, che si può tutto nonostante condizioni sociali sempre più avverse. Non è vero. Non credeteci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale.
BUON ANNO!

🙂
Cristiano

“Trip” e “bad trip”


In passato se si voleva fare un viaggio psichedelico ci si affidava a dosi di LSD o affini. Le percezioni si alteravano, le immagini prendevano forma e vita nella mente e la realtà veniva distorta, sostituita da una sintetica, immaginaria, inesistente, ma così vera da sembrare autentica. Negli ultimi anni però qualcosa è subdolamente e subliminalmente cambiato. Come in un processo di sublimazione infatti, la realtà è passata da uno stato solido a quello gassoso: impercettibile, inafferrabile, inconoscibile, ma respirabile, che come i gas di scarico dovuti al transito sfrenato e incontrollato dei mezzi di trasporto assumiamo forzatamente in dosi massicce ormai a qualunque ora e in qualsiasi luogo.

Subissati, e costantemente bombardati come siamo di messaggi subliminali, ci troviamo incessantemente in uno stato di subcoscienza, in un’assurdo assordante, frastornante, che s’impone, si propone e avanza come un paradosso sensato. Siamo collettivamente drogati, gettati in un’immensa Woodstock, con l’unica differenza che non aspiriamo a valori utopici quali fratellanza, uguaglianza, pace, e non andiamo alla scoperta di nuove emozioni sensoriali, alla ricerca del sé, tantomeno lo facciamo per senso artistico, nonostante aspiriamo tutti a diventare cantanti, attori, ballerini e scrittori. Lo facciamo, ma senza avere la volontà cosciente, la consapevolezza di farlo.

Oggi siamo immersi in un mondo in cui le follie assurgono a ragionevoli, le contraddizioni a coerenti e le utopie a concretezze che non si concretano mai, se non nelle nostre convinzioni derivate. Inseguiamo, senza mai raggiungere. Ingurgitiamo palinsesti televisivi, ci deconcentriamo sui cartelloni pubblicitari seminati ovunque, ci svaghiamo negli imperanti centri commerciali, ci rilassiamo nei magnifici e sontuosi centri benessere, brindiamo nei trionfi “happy hour”, esibiamo look firmati, acconciature, unghie finte, seni finti, labbra finte, zigomi finti, nasi finti, sederi finti, personalità finte, dacché non ne abbiamo più una nostra, mentre il mondo, quello vero intorno a noi, non esiste più, se non dentro un titolo di un telegiornale, che come una pillola eupeptica è buono a far digerire tutto e tutti. E allora, dalla realtà immateriale, ideale, spirituale, e al tempo stesso terribilmente materialistica, meccanicistica – coerentemente con le contraddizioni che la contraddistinguono – che ci viene offerta, guarnita di tutto punto, ci facciamo consigliare chi essere, quindi cosa indossare per esibirlo, cosa mangiare per conservarlo, quali medicine per difendere e scacciare via i mali che gli si mettono di traverso.

Oggi non siamo ciò che siamo e non pensiamo ciò che pensiamo: siamo ciò che ci dicono di essere, e pensiamo ciò che ci viene detto di pensare.

Viviamo in un mondo tradotto, parafrasato, interpretato, volgarizzato, che ci ha trasferiti in un altro mondo, parallelo, fiabesco, fittizio, illusorio, sognato, inventato, inesistente, drogato. Un mondo prescritto, disordinatamente ordinato, obbligatorio, stabilito e ormai più possibile da decifrare autonomamente, giacché autoritariamente eteronomi fin dalla nascita.

Immaginiamo però per un attimo un mondo senza Tv, senza pubblicità lungo le strade, nei paesi, nei centri cittadini, senza alcuna forma di indottrinamento e intrattenimento mediatico di massa: prima impazziremmo tutti dalla noia, e poi saremmo obbligati a guardarci dentro, e magari poi anche meglio intorno, in cerca di una personalità e di una realtà perdute, che ci si paleseranno come nuove, autentiche, originali, ingegnose, genuine, vere, e magari queste nelle quali siamo immersi finalmente ci appariranno perfettamente per quelle che sono: una riproduzione, un inganno, una brutta copia, la peggiore delle imitazioni cui l’uomo potesse aspirare.

Eppure gli allucinogeni dovrebbero essere illegali, banditi ormai da anni. Qui invece vengono distribuiti in dosi massicce alla massa, e gli effetti sono tali e quali a quelli indotti dall’LSD: alterazione della coscienza, euforia, perdita di consapevolezza e lucidità, riduzione dei riflessi psicofisici, alterazioni nella memoria a breve e lungo termine, impossibilità di concentrazione, difficoltà di elocuzione o elocuzione disordinata, sensazione di intensa beatitudine, cambio di stato d’animo con estrema facilità, amplificazioni sensoriali, distorsione della consapevolezza del tempo, dello spazio e del sé, percezione intensificata di suoni, colori, odori e sapori.

Ma i trip non sono solo “fiori e arcobaleni”, in particolare quando assunti in dosi eccessive e per lungo periodo, e così si verificano effetti indesiderati (o desiderati in base ai punti di vista), più propriamente detti “bad trip“, ovvero viaggi conditi da ansia e panico. E a determinare il “bad trip” e il “trip” sono proprio quegli elementi che in ambito vengono chiamati “set” (lo stato d’animo di chi assume l’acido) e il “setting” (l’ambiente in cui si trova chi assume l’acido). Ecco, set e setting negli ultimi decenni hanno raggiunto livelli di tale degrado che il nostro vivere è diventato la falsificazione mal riuscita di un ashram, con il solo fine d’ingrassare i portafogli dell’industria della soppressione dell’individuo.
E allora: buon viaggio.

Beneficenza


Ci sono mali che non si possono curare con latte in polvere e biscotti ad alto valore proteico. Orribili condizioni di vita, malattie, analfabetismo, disgregazione delle famiglie, indebolimento dei legami sociali, mancanza di lavoro e di prospettive nel futuro, sono il risultato di una società che non è più in grado (e forse non lo è mai stata dall’inizio dell’entrata in scena del capitalismo), o non ha volontà, di prendersi cura degli ultimi.
Thomas Paine:
“Quando un qualsiasi paese del mondo potrà dire che i suoi poveri sono contenti e non sono afflitti dall’ignoranza e dall’angoscia; le prigioni sono vuote, e non ci sono mendicanti per le strade; i vecchi non languono e le tasse non sono oppressive…; allora esso potrà farsi vanto della sua costituzione e della sua forma di governo”.
Ryszard Kapuscinski, uno dei più acuti osservatori della vita contemporanea, ricorda di aver attraversato villaggi e ghetti africani incontrando bambini «che non mi chiedevano pane, acqua, cioccolata o giocattoli, ma penne biro, perché andavano a scuola e non potevano prendere appunti».
Io ai carnevali di beneficenza non ci sto. È per me incomprensibile raccogliere milioni di euro senza prendersi neanche la responsabilità di spiegare analiticamente le reali cause di tanta miseria. Raccogliere fondi perché “in fondo grazie ad essi è possibile fare qualcosa”, non è una soluzione, ma un rimandare sempre a domani la soluzione al problema. Arginare non serve a nulla se continuiamo a scaricare inquinanti nel fiume. E il problema è causato dalle multinazionali che depredano quei popoli di un diritto che DEVE avere chiunque abiti questa terra. Le stesse multinazionali che alimentano una società come la nostra, indiscutibilmente fallimentare, immorale ed egoista. Le stesse multinazionali che mettono in piedi questi carnevali mediatici accompagnati immancabilmente da immagini di fronte alle quali anche la coscienza più assopita impallidirebbe e metterebbe mano a residui di moralità rimastagli. Le stesse multinazionali che ci offrono, tra una pubblicità e l’altra, prodotti di consumo che alimentano il degrado e aumentano il numero dei poveri nel mondo. È una presa in giro che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Non salviamo nessuno facendo beneficenza. Salviamo solo le nostre coscienze, perché “in fondo ne abbiamo bisogno”. Sappiamo che è il nostro modello di società a causare quelle atrocità, ma siamo talmente distratti da quello che desideriamo che riusciamo senza fatica a fregarcene di chi non ha una vita degna di essere vissuta.
“Un bambino, cento, mille, milioni di bambini ogni anno muoiono di fame… Ma non preoccuparti: adesso c’è la pubblicità. È tutto finito. E se hai versato una lacrima, hai fatto il tuo dovere.”
Abbiamo bisogno di alibi per non guardare in faccia la realtà. La realtà è che questo modello di società ha già fallito: le disuguaglianze si fanno sempre più ampie e profonde, e la povertà aumenta senza sosta in tutto il mondo, e sta diventando sempre più difficile e complesso far fede solo e soltanto alle distrazioni. Continuare dritti per la nostra strada servirà solo a diminuire i pochi metri che ci separano da una catastrofe senza precedenti.