Rapporto Istat: farmaceutica e “beni non durevoli” non conoscono crisi


Dal corposo rapporto Istat fresco di stampa arriva innanzi tutto l’ennesima conferma circa la drammatica situazione complessiva che comprende disoccupazione (Tavole 1.6 – 1.7 in fondo al post), diritti, potere d’acquisto delle famiglie (Tavola 1.8), salute e diseguaglianze sociali: rimane pressoché negativa e preoccupante (Tavole 1.1 – 1.2); ma quelli che seriamente sorprendono, e che dovrebbero esortare tutti a fare una riflessione più approfondita, sono i dati che riguardano l’import-export del settore farmaceutico (Figure 1.22 – 1.23).

Dai dati emerge che “i settori nei quali l’indicatore mostra i livelli più elevati sono computer e apparecchi elettronici e ottici (82 per cento), articoli farmaceutici (74,7 per cento) e mezzi di trasporto (67,8 per cento). A fronte di un incremento strutturale del grado di penetrazione delle importazioni, si rileva una crescita ancora più significativa della propensione a esportare (rapporto tra il valore delle esportazioni e il valore della produzione) per i prodotti manufatti, che sale dal 33,7 per cento nel 2008 ad oltre il 40 per cento nel 2013. Incrementi di questo indicatore toccano molti settori industriali rilevanti (Figura 1.23).
In particolare, la propensione a esportare è aumentata raggiungendo livelli molto elevati nei settori delle macchine e apparecchi (dal 62 al 77 per cento), dei prodotti farmaceutici (dal 49 al 74,3 per cento), dei mezzi di trasporto (da 57,7 a 72,9 per cento) e di tessile, abbigliamento, pelli e cuoio (da 40,8 a 48,8 per cento)”.

Nella stessa misura in cui aumenta la povertà diminuisce il potere d’acquisto, conseguentemente si riduce lo stato di benessere della popolazione quindi della sua salute. È un vero e proprio boom se osserviamo l’import-export del settore farmaceutico. In particolare aumenta significativamente la produzione e il consumo di farmaci ansiolitici, antidepressivi e tranquillanti. Sono sempre di più, infatti, gli italiani che, stressati e depressi, ricorrono all’aiuto degli psicofarmaci. Nel 2011 sono oltre undici milioni di persone che nel nostro Paese ne hanno fatto uso: 5 milioni hanno assunto tranquillanti e ansiolitici (il 12,8% della popolazione), delle quali più di 3 milioni sono donne. È ciò che emerge dallo studio Ipsad (Italian Population Survey on Alcohol and other Drugs) condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ifc-Cnr) di Pisa.

Da evidenziare come lo stato di salute diventa più allarmante nella fascia d’età che va dagli over 65 a salire, ovvero fra coloro che non riescono più a pagarsi le cure mediche, registrando così un drastico aumento delle disuguaglianze nel settore assistenziale. Si legge nel rapporto Istat che “nel 2012 sono aumentate le persone che dichiarano di stare male o molto male, la loro quota sul totale della popolazione si attesta al 7,7 per cento, circa un punto percentuale in più rispetto al 2005. Questa componente soggettiva della salute mostra delle differenze di genere: le donne che dichiarano di stare male o molto male sono complessivamente il 9,4 per cento contro il 5,8 per cento degli uomini, senza differenze rispetto al 2005. Oltre la metà della popolazione ultrasettantacinquenne soffre di patologie croniche gravi. Nella classe di età 65-69 anni e 75 e oltre, le donne che soffrono di almeno una cronicità grave rappresentano, rispettivamente, il 28 e il 51 per cento. Il diabete, i tumori, l’Alzheimer e le demenze senili sono le patologie che mostrano una dinamica in evidente crescita rispetto al passato. Gli uomini soffrono di almeno una cronicità grave nel 36 per cento dei casi, nella classe di età 65-69, e nel 57 per cento, tra quelli ultrasettantacinquenni (Tavola 4.2)”.
Si segnala inoltre come siano in aumento “le persone che soffrono di almeno una patologia cronica grave”, determinato da “un incremento della popolazione anziana esposta al rischio di ammalarsi (nel 2012 sono il 14,8 per cento della popolazione, con un aumento di 1,5
punti percentuali rispetto al 2005
)”. In particolare, “la cronicità grave aumenta, ma non con la stessa intensità sul territorio, nella classe di età 75 anni e più, gli incrementi maggiori si osservano nel Centro e nel Mezzogiorno, rispettivamente di 4,5 e 4 punti percentuali; nella classe di età 70-74 anni l’aumento è stato di 5,3 punti percentuali nel Nord-est e di 2,6 nel Mezzogiorno. Gli incrementi osservati acuiscono la distanza del Mezzogiorno dal resto del Paese, infatti nel 2005 la prevalenza di cronicità grave era pari al 53,7 e al 41,1 per cento nelle due classi di età più anziane, entrambe circa quattro punti percentuali in più rispetto alle altre ripartizioni. Nella classe di età 65-69 gli andamenti sono contrastanti: la prevalenza si registra in aumento di 2,5 punti percentuali nel Nord-est, sostanzialmente stabile al Centro e nel Mezzogiorno, in diminuzione nel Nord-ovest (-2,1 punti percentuali)”. Continua a preoccupare il tema delle disuguaglianze sociali nel settore sanitario. “Gli indicatori di cronicità e di sopravvivenza hanno, infatti, già messo in evidenza importanti divari di genere (Tavola 4.2 Il Sistema sanitario nazionale: un difficile equilibrio tra efficienza e qualità), e a questi si aggiungono quelli di natura economica. In particolare, le persone over65 con risorse economiche scarse o insufficienti, che dichiarano di stare male o molto male, sono nel 2012 il 30,2 per cento (28,6 per cento nel 2005) contro il 14,8 per cento di chi dichiara risorse ottime o adeguate (16,5 per cento nel 2005). In particolare, sono gli anziani del Sud il gruppo di popolazione più vulnerabile”.

È chiaro, dal rapporto Istat, che lo stato di salute della popolazione spinge ad indebitarsi per fronteggiare alle cure mediche, ma emerge anche come i “consumatori” siano propensi a contrarre debiti nel settore elettronico.

Resta ora da capire in che modo, e se, s’intende intervenire di fronte a dati così preoccupanti. Si farà finta di niente come s’è sempre fatto, quindi continuando a tagliare nella peggiore delle ipotesi o, nella meno peggio, a non rafforzare l’efficienza del nostro sistema Sanitario (vedi Tavola 4.3), oppure si deciderà (finalmente) d’intervenire con determinazione? La parola spetta al Governo. Quel che è certo è che non sono sufficienti i grandi titoli per riuscire a cambiare un Paese così disastrato. Staremo a vedere.

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La vita? Uno spettacolo in differita


Nel mondo delle apparenze, dei pregiudizi, delle realtà virtuali, dei sogni, della bellezza estetica, le cose sono ciò per cui si spacciano, prevalgono su ciò che c’è, mentre in realtà non sono e neppure ci sono. L’informazione, la cultura, sono diventati oramai atti di fede, convinzioni, anziché il raggiungimento, la realizzazione di una formazione personale attraverso un percorso ateo, fuori dalle dialettiche delle credenze popolari e dai paradigmi mediatici. Crediamo a tutto e a tutti, purché sia proiettato su uno schermo. La nostra è una cultura delle realtà televisive, virtuali, simulate, attraverso le quali ci viene offerto tutto un campionario di risposte stereotipate, preconfezionate, adatte ad ogni occasione della vita.

Persino la socializzazione è divenuta un atto di fede edificata sulle apparenze.

E viene da gridarlo allora sempre più forte, che questa non è più la realtà, ma uno spettacolo che va in onda ininterrottamente, dove ognuno di noi è il protagonista, l’attore principale della performance che ogni giorno va in onda. Ci comportiamo infatti da protagonisti, esponendo il nostro vissuto con la speranza, la prospettiva che sia osservato, pronto da essere proiettato sui grandi schermi, e così tutto quello che facciamo lo facciamo erigendolo sull’attesa che la nostra performance venga notata e mandata in onda. Non si spiega altrimenti l’eccessiva esibizione delle nostre intimità nei social network come nei programmi televisivi. Viviamo in simbiosi con lo spettacolo. La nostra vita è uno spettacolo che chicchessia può osservare e specchiarcisi.

Di fatto non c’è più neppure bisogno di gridare al complotto, d’ipotizzare che questo sia un modello esistenziale voluto da chissà quali menti dittatoriali, poiché l’unico vero tiranno è lo strumento, il medium in sé. La scienze sociali ci insegnano che l’essere umano apprende e opera prevalentemente per imitazione, per appartenenza (a ceti, gruppi, credo, ecc.), e quelle neurologiche che lo fa attraverso determinati neuroni chiamati, non a caso, “Specchio”. Piazzati davanti agli schermi, dentro i quali l’esibizione dell’intima natura umana è spettacolo — che spazza via l’esibizione del reale tangibile, corporea, diretta (e in diretta), priva di intermediazioni — assumiamo noi stessi le ragioni della spettacolarizzazione, dell’esibizione, dell’esternazione dell’intima individualità, che si perde così inesorabilmente e inevitabilmente nel mondo delle apparenze, delle realtà simulate, del varietà, della commedia, della tragedia della vita. Siamo noi, grazie al medium, che promuoviamo, sosteniamo e prolifichiamo realtà ritardate, mediate, indirette, digitali, create, recitate e proiettate in differita.

Viene dunque da chiedersi che futuro ci attende, dal momento che non esistono più presente né passato, schiacciati entrambi da un imperioso apparente, illusorio. Non esiste più memoria individuale organica, vivente, interiore, ma memoria digitale, catodica, sintetica, esteriore. Sembra che tutto voglia stare sulla superficie, che voglia essere visto, identificato, esibito, ma non riconosciuto, contraddistinto, caratterizzato. Paradossalmente, nonostante frustrazioni e psicopatie dilaghino, non riusciamo più ad interiorizzare. Motivo per il quale non riconosciamo più noi stessi e la realtà che ci circonda. Lo dimostrano i dati delle ultime elezioni: non abbiamo bisogno di capire il mondo, poiché il mondo è già spiegato dalla sempre più massiccia ed efficace propaganda. Non abbiamo bisogno di accresce, costituire e affermare per noi stessi la nostra intima individualità, poiché è all’“esterno”, nell’esibizione, che questa trova il “senso”. Non abbiamo bisogno di cambiare il mondo: è già cambiato; nelle nostre illusioni, nelle nostre convinzioni indotte, negli schermi che abitiamo, nella vita che recitiamo.

Il talento


Il talento non è voce: è fiato. È quella cosa che sta nell’aria, che ti arriva nei polmoni passando prima dal cuore per poi vibrare sulle corde vocali, ma non risiede in quest’ultime. Il talento non lo costruisci, non lo alleni, non lo insegni, non lo misuri, non lo componi: lo puoi sollecitare ma non produrre. Non esistono “scuole di talento”, ma riproduzioni commerciali. Il talento è un dono, è naturale, connaturato all’individuo che ne è portatore, e non ha bisogno di regole e consigli. Il talento è semplice oppure complesso, ma indomabile, indecifrabile, e irraggiungibile se ci troviamo al di fuori dei suoi confini. Il talento è paragonabile a un tramonto, a un’alba, per natura differenti dagli altri che li hanno preceduti fin dalla notte dei tempi, e da quelli che seguiranno fino alla fine del tempo. Il talento non si ripete mai. Unico per definizione, si riconosce dagli altri per le sue evidenti quanto impercettibili diversità. Il talento non è commercializzabile, né lo si può donare. Nessuno può essere insignito di tale titolo. Il talento non sa di averlo, non sente il bisogno di saperlo, di dimostrarlo né di sapere in che misura gli altri gliene investono. Non possono esserci numeri o maggioranze che determinino il valore di un talento in quanto virtù individuale unica per definizione. Il talento non consulta statistiche, non insegue sondaggi, non valuta vendite; semplicemente ascolta in silenzio, assiste e medita, senza ubbidire o farsi condizionare da forze che vanno oltre i suoi confini. Crea, esegue, istintivamente. Segue l’istinto. Il talento non è prevedibile, e tutto ciò che gli ruota attorno lo rende tale. Nel bene, e anche nel male. Il talento non è spettacolo sottotitolabile o doppiabile, né promovibile. È dato dal tempo, nel tempo in cui esso stesso stabilisce. Soffre di alti e bassi, di complessi e crisi, ma non sono questi ad affermarlo o a sconfessarlo. Il talento risale dopo ogni caduta, anche dopo quella eterna, e agisce sempre come quella fosse l’ultima sua azione: da gran finale. Il talento è curioso, e non si prende sul serio. Non fa miracoli, ma li stimola, insieme alle emozioni. Si arrende all’idea di piacere a tutti. Il talento lo saprà vivendo. Anche quando è limitato nel tempo, possiede un tempo infinito. Il suo spazio è ovunque e il suo tempo è mai. Soddisfa se stesso, non gli altri, anche se si appaga in quelle degli altri. Non sceglie, né si fa scegliere. Si fa domande non per analizzare e sentenziare ma per conoscere e ascoltare. È in bilico e in equilibrio al tempo stesso.
Il talento è la costante presenza del dubbio, poiché solo attraverso esso alimenta la sua esistenza. Il talento è filosofia.

Elezioni europee: il malato che prescrive la cura al dottore


Noi, la nostra generazione, quella dei nostri padri, dei nostri nonni, veniamo da una società strutturata sulla base di un’Etica del lavoro sulla quale le nostre identità si sono modellate, educate, organizzate, caratterizzate, determinate. Abbiamo imparato a relazionarci fra noi attraverso le nostre identità lavorative suddivise in categorie, ceti, gruppi, eccetera. La crisi che ci ha investiti dimostra però l’incapacità di alcuni uomini di governo nel garantire lo status di convivenza di tali «gruppi», ma anche una profonda inettitudine a garantire quello individuale. Si è dimenticata l’inevitabilità dell’essere umano d’essere vincolato (ci piaccia o meno), per cause esistenziali, alla coesistenza con altri gruppi al di fuori di uno specifico. Perciò l’accanimento a perseguire la il-logica del successo individuale non potrà che condurci – e ci ha condotti – verso il caos sociale.

La produzione incontrollata, la libera circolazione delle merci, la privatizzazione dello Stato sociale, sono misure partorite da menti offuscate dal profitto, dal voler dimostrare a se stesse (e solo a se stesse) di essere le uniche in grado di governare quella stragrande maggioranza di popolo ‘ignorante’, privo d’ambizioni, e che s’accontenta di quel tanto che gli basta per vivere dignitosamente. Il risultato di questa ostentazione di superiorità (ma che è invece espressione di un grave complesso di inferiorità e di emozioni represse), è quella che oggi viene definita insistentemente, arrogantemente «crisi economica», ma che dovrebbe invece essere chiamata col suo vero nome: «crisi Culturale», per evitare – come del resto è sempre avvenuto – di occultare ancora una volta le radici della grana con cui si vanno a scontrare sistematicamente i «signori dell’individualismo».

Il tentativo miserabile di voler mantenere – ulteriormente – nel limbo, problemi di natura strutturale del modello economico-sociale in corso comprova inconfutabilmente la loro incapacità. La rivoluzione avvenuta nel sistema delle intercomunicazioni non viene presa minimamente in considerazione da lorsignori, confidando e speculando sul fatto che l’eccesso, la sovrabbondanza di notizie messe in circolazione non siano in grado di condizionare o colpire i punti vitali del “loro” modello di società. È vero che «se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive» (Eriksen, “Tempo tiranno”), ma è proprio a causa di ciò che cresce il senso di angoscia, d’inquietudine, di preoccupazione, di sofferenza, di inconsapevolezza, e la storia ci insegna quanto sia arduo e decisamente azzardato scommettere sulla governabilità di tali emozioni, specie quando si è mossi da convenienze economiche individuali. Non è una sfida sulla quale conviene giocare come costoro sono abituati a fare in borsa; quando si tratta della vita delle persone, della loro sopravvivenza, messa ogni giorno più a rischio, non esiste governo in grado di contenere la rabbia di chi cerca pane da mettere sotto i denti dei propri figli, e poco importerà, in quel caso, quanto siano o meno consapevoli della realtà che li circonda.

Il gioco vale davvero la pena?

Siamo in piena campagna elettorale per le europee, e fino a ieri nessuno aveva messo in discussione le politiche di austerità messe in campo dai governi, che hanno ridotto alla povertà centinaia di milioni di persone non solo in Europa, ma in tutto il mondo cosiddetto “occidentale” (i dati sulla crescita del PIL americano, ad esempio, non dimostra affatto che la qualità della vita sia migliorata, anzi, le disuguaglianze sono in aumento a fronte di una drastica riduzione dei diritti), definizione, questa, implicitamente divenuta una formula autoassolutoria per ogni occasione, un’autolegittimazione per giustificare qualsiasi cosa nel nome di un progresso presunto ma che sistematicamente si è rivelato essere più un difetto che un pregio, più un fallimento che una conquista, più un demerito che un merito. Oggi, a due passi dalle elezioni, sembra che tutti concordino nell’ammettere che tali misure erano sbagliate e che, forse, avrebbero dovuto agire diversamente.

Che dire…? Peccato non averlo capito mentre la gente iniziava a suicidarsi, mentre le fabbriche chiudevano lasciando per strada milioni di famiglie, mentre le associazioni caritatevoli imploravano per essere degnate di un minimo di attenzione (mai ricevuta), mentre lo Stato sociale crollava (e continua a farlo) a causa delle loro politiche assassine. E non è finita, perché oggi si ostinano a parlarne come se tutto ciò appartenesse al passato, come se la ripresa “fosse alle porte”, come se da domani tutto cambierà. E allora mi chiedo come si può essere tanto idioti e sfacciati quando dietro alla propaganda le piccole e medie imprese continuano a chiudere o quelle più grandi a delocalizzare, e le richieste di assistenza crescono a un ritmo incessante? Come si può essere tanto cinici? È possibile non riuscire davvero a trovare limiti decenti e non così offensivi? Dopo aver distrutto milioni di famiglie, solo adesso, a ridosso delle elezioni europee si rendono conto dei loro errori? È la stessa storia che si ripete, fino alla nausea: per un voto venderebbero la propria madre. Sono un pugno di falliti che si possono contare sul palmo di una mano, e nei loro fallimenti hanno trascinano e continuano a trascinare interi popoli. È come se il malato prescrivesse la cura al dottore, che è e deve essere più democrazia, più poteri decisionali al popolo, più partecipazione nelle scelte di governo.

Forse sarebbe il caso di smetterla. Forse è il momento di mandare in onda un altro film.

L’esperienza simbolica dell’assenza


Ognuno di noi nella vita si batte per qualcosa. C’è chi si batte per un sogno, chi per un parcheggio, chi per un viaggio, chi per un cellulare, chi per un concorrente del Grande Fratello, chi per un’ideale politico, chi per mantenere vivo un ricordo, chi per un’ambizione, chi per una speranza, chi per un illusione e chi per illudere; chi per un amico, chi per una risposta, chi per sembrare… chi per essere e chi per distinguersi; chi per una relazione, chi per migliorarsi, chi per migliorare e chi per essere migliore d’altri… Chi per avere un’altra occasione e chi per offrirla, chi per coloro che soffrono e chi per non soffrire più. C’è chi si batte per mantenere viva la propria dignità, chi per mentire e chi per scoprire una menzogna, chi per affermare una verità, chi per nasconderla… e chi per difendere una verità altrui; chi per lasciare una traccia di sé, chi per vincere una partita, chi per farla perdere e chi per giocarla e basta… Chi per vivere e chi per aiutare a vivere. Lottiamo, contro un abbandono o un’unione, contro il silenzio o il frastuono, contro l’incoscienza, l’insensibilità, contro l’ignoranza, l’arroganza, e contro la ragione… contro il razzismo, contro la morte, contro l’inganno, contro l’oblio, l’assenza, contro un’ingiustizia… Ma una cosa è indiscussa: anche se a tutti sembra di lottare per un principio di sopravvivenza in realtà molto spesso ci battiamo, più e meno consapevolmente, o più o meno eteronomamente, per l’esatto contrario.

Non è solo l’“essere umani” che ci fa vivere nella paradossalità dell’essere “assoggettati a”, anziché “soggetti autonomi” che vivono affermando la propria individualità.

Accumuliamo, aggiungiamo, rilanciamo… abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza. Oggi non siamo più capaci di affrontare l’esperienza simbolica dell’assenza, e siamo immersi nell’illusione inversa, disincantata, che è quella della moltiplicazione degli schermi, delle immagini e delle “verità”. Oggi siamo più la derivazione di un’idea, il prodotto di un’idea consigliata, stimolata, persuasa, che non l’idea stessa formata, matura, compiuta, costituita, conosciuta e compresa autonomamente. Immersi come siamo nelle illusioni di queste realtà, dove la “comunicazione schermata”, sintetica (polisemicamente), temporanea, passeggera, prevale su quella permanente, duratura, lenta, che solca e affonda nella superficie, chi ha più forza di comunicazione ha più possibilità di vincere, di esistere e imporsi. Ma è diventata una battaglia per affermare la sopravvivenza di qualcosa o qualcuno che neppure riusciamo più a focalizzare, a ricordare… in mezzo a questa babele prescritta.

Per cosa, o per chi, lottiamo? Sono sicuro che ognuno di noi ha già la risposta pronta, lì, che aspetta solo che qualcuno la reclami. Pronta all’uso. O usa e getta.

I veri “sottosviluppati” siamo noi


La politica, la democrazia, che un tempo credevamo essere soluzioni, oggi si rivelano inefficaci, trappole, sabbie mobili nelle quali l’umanità organizzata sta sprofondando. E così guerre, barbarie, razzismo e follia sono il risultato dei fallimenti delle operazioni pseudo-democratiche che perseveriamo, la vera forma di questo inestricabile groviglio. Troppi si ostinano a pensare che la fuga da paesi in guerra sia un segno di rinuncia e di codardia; al contrario suggerisce ch’essa è l’impossibilità di reazione nei confronti d’un sistema troppo grande e troppo forte da poter essere combattuto, contrastato, controllato. Nei paesi “sottosviluppati” (termine davvero inadeguato) si combatte per vedersi riconosciuti una ciotola di riso, una medicina, un po’ d’acqua, o un briciolo di istruzione, che i paesi “sviluppati”, subdolamente negano loro. È evidente la contraddizione nei termini utilizzati per definire e distinguere i “due mondi”, dal momento che per “sviluppati” s’intendono tutti quei territori industrializzati, evoluti, progrediti. Al contrario, la definizione di “sottosviluppati” suggerisce infatti d’intendere l’opposto: arretrati, primitivi, perciò sprovvisti di un sistema industriale che, come avviene appunto nelle società industrializzate avanzate (almeno fino a qualche anno fa), dovrebbe sostenere l’economia, la cultura, tutta la struttura sociale, essendo il lavoro fondamento e realizzazione dell’organizzazione collettiva. Ma le industrie, soprattutto multinazionali, nei paesi sottosviluppati ci sono, sono preseti, e in maniera anche massiccia grazie all’abissale carenza di leggi internazionali atte a garantire il rispetto dell’ambiente dei diritti della forza lavoro, degli individui. Non esistono leggi e organi che vigilano e tutelano né l’ambiente né le popolazioni che lo abitano. Non esistono essendo questi territori dominati dalla corruzione che l'”occidente” ingrassa e sfrutta a proprio vantaggio.
Il nostro modello di sviluppo economico-sociale, il nostro modello democratico, non garantisce a noi, che facciamo parte di questa porzione di mondo, il giusto rispetto per una vita dignitosa, ma anzi sfrutta e alimenta l’ignoranza attraverso tagli alla Cultura, all’Istruzione, e mettendo altresì in atto campagne mediatiche mascherate sotto il nome di “informazione”, ma che nei fatti fornisce un surplus di notizie contrastanti, contraddittorie fra loro, celando in questo modo, dietro la facciata apparentemente democratica, una squallida, totale e assoluta disinformazione. La trasmissione di notizie di oggi assomiglia sempre più a un perpetuo funerale che celebra la morte dell’individualità, della razionalità, e che sembra avere il solo fine di alimentare ignoranze e inconsapevolezza. È l’eccesso della ragione ad uccidere la ragione stessa.

E allora si chiede agli immigrati di rimanere nei loro paesi a combattere piuttosto che scappare (vorrei vedere ognuno di noi nei loro panni); gli si chiede di rispettare Leggi e costumi dei paesi che li ospitano (ovvietà banali, ma anche stupide e autoritarie quando espresse senza cognizione di causa: dove sono le politiche d’integrazione?); gli si chiede di non prendere i sussidi che lo Stato offre loro (perché la colpa è dell’immigrato e non delle leggi dello Stato); gli si chiede di rimboccarsi le maniche invece di venir qua a fare i mantenuti (prima fanno lavori – sottopagati e schiavizzanti – che noi occidentali non vogliamo più fare giacché ci siamo accomodati troppo, poi sono fannulloni: decidiamoci, oppure basta con le generalizzazioni); gli si chiede in pratica di morire, in nome di un non ben preciso e precisato motivo, poiché nessuno sembra in grado di riconoscerlo, d’individuarlo. Nessuno conosce le ragioni di tanto disordine, di tanta mescolanza di popoli, di tanta disorganizzazione democratica, eppure tutti c’ostiniamo a esprimere la nostra opinione che, per carità, è legittima, permessa, sacrosantissima, ma che non vuol dire necessariamente sia giusta, ragionevole, razionale, fondata sul raggiungimento d'”una” verità, che esiste, e che comprende tutte le verità: la verità è una sola, poi diverse, poi di nuovo una sola. Invece oggi ci perdiamo a metà strada, lungo un percorso sempre più accidentato, indecifrabile, privo di segnaletica, di regole, tantomeno d’una direzione stabilita. Certo non da noi. “Contare fino a dieci prima di parlare” ci piace come locuzione da esibire, ma ci riesce meno metterla in pratica. Allora ci piacciono le filosofie orientali, ma siamo tutti rabbiosi; ci piacciono personaggi come Mandela, Gandhi, Martin Luther King, il Dalai Lama, e tutti coloro che hanno dato la vita in nome del riconoscimento dell’uguaglianza fra i popoli, ma siamo subdolamente più razzisti e ignoranti che mai, con solo il desiderio d’estrapolare frasi a effetto pronunciate da taluni personaggi eroici col solo fine di raccogliere consenso (va di moda), senza però aver mai letto un loro libro, conosciuto, studiato e, miracolosamente sposato i loro pensieri, la loro storia, la loro tenacia… la loro forma di non-violenza. Non sappiamo più chi siamo noi (se mai lo abbiamo saputo), figuriamoci se sappiamo interpretare correttamente tanta immensità di pensiero.

I veri “sottosviluppati”, riconosciamolo con umiltà, questa maledetta sconosciuta, siamo noi.

Lista Tsipras, Verdi e Movimento 5 Stelle per cambiare l’Europa


Ritenere che l’Euro sia la causa dei nostri mali è come pensare che gli psicologi siano i responsabili dell’aumento delle psicopatie, oppure che la colpa dei vasi rotti sia dell’Attack, o che la musica dipenda tutta dal pianoforte. Non è che se si eliminano i pianoforti poi la musica cambia o finisce: si cambia strumento, ma non la melodia sul pentagramma. Si capisce che non sta in piedi.
L’Euro è soltanto uno strumento, un mezzo per il raggiungimento di uno scopo, ma non la causa; tuttalpiù un contributo. Togli l’euro ma non toglierai il fine. Togli l’euro e si impiegheranno altri strumenti, senza incidere radicalmente sui fini. I fini sono il completo controllo dei mercati finanziari e delle Pubbliche amministrazioni da parte dei privati intenti a soddisfare i loro appetiti infiniti; sono il completo controllo delle coscienze degli individui, delle loro scelte, dei loro bisogni, dei loro pensieri, del loro stile di vita. Dal governo Monti in poi, i tagli al welfare, il decadimento crescente dell’istruzione pubblica, l’assenza di politiche di socializzazione, di integrazione, avrebbero dovuto farci riflettere seriamente.

Non è tagliando all’istruzione che si risolve una crisi, in compenso, però, si alimenta l’inconsapevolezza e conseguentemente la capacità decisionale.

Sono le politiche economiche, scientemente decise e imposte da un potere sovranazionale cui i governi democratici si assoggettano, la causa dei nostri mali. Dobbiamo riprendere il controllo democratico delle nostre decisioni, il contatto con la natura delle cose, e istituire massicciamente gruppi di consapevolezza, e non dobbiamo desiderarlo a livello nazionale, ma globale, giacché pensare di rinchiudersi in casa mentre fuori dalle quattro mura (sicure?) tutto affonda, non ci salverà dall’essere risucchiati. È impossibile pensare di isolarsi in un bunker, anche solo considerando la nostra posizione geografica, che non possiamo certo spostare.

Ben venga quindi la consapevolezza.

Il nostro attuale governo formato dall’asse Renzi-Alfano-Berlusconi è, oltre che incapace e improduttivo, intento solo nel realizzare un disegno organico, estremamente miope e precario, ovvero quello di liquidare la Costituzione italiana e lo Stato di diritto, insieme alla rappresentanza politica dei cittadini e quanto resta dei diritti dei lavoratori. Senza contare l’inefficacia delle leggine esposte in vetrina atte a contrastare l’imponente e sempre più dilagante corruzione endemica italiana.

Oggi siamo difronte a una classe politica privata di ogni capacità di indirizzo dell’economia per effetto dello spostamento del potere reale verso i centri di potere finanziario. Si continuano ad operare sconsiderate privatizzazioni (vedi le Poste) e a promuovere grandi opere inutili, come la Tav, e altri grandi eventi come Expo 2015 sperperando miliardi e costringendo alla schiavitù con lavori non retribuiti ed estremamente precari milioni di persone – sotto questo profilo il caso Expo è esemplare – in tutta Europa, dove ci sono un totale di 27 milioni di disoccupati.

Dare un futuro all’umanità significa aumentare gli strumenti democratici (vedi referendum in Svizzera) e potenziare il welfare, significa liberarci di questa tecnocrazia neoliberista incapace, vorace, fatta da imprenditori privi di spirito imprenditoriale, che vivono sullo sfruttamento accanito dei lavoratori e dei fondi pubblici, buona solo a creare voragini sociali dentro le quali stanno cadendo pezzi sempre più grossi di Comunità, che non si limita ai confini italiani: una comunità è sempre dentro una comunità più ampia e complessa; nessuna esclude l’altra. Ma la moneta, fondamentalmente, non c’entra nulla.

La classe politica attuale in questa campagna elettorale propone agli spettatori l’ennesima fiction facendo credere a tutti di essere critica nei confronti di quest’Europa, dopo aver assecondato e avallato supinamente e spudoratamente ogni decisione presa a favore della mitologica (poiché il rimpallo di responsabilità fa sembrare sia arrivata da una qualche forza divina) “austerità”. E allora tutti si riscoprono antieuropeisti per cavalcare senza ritegno la – giusta – indignazione contro questa Europa; voluta da loro. E partendo dalla Lega, passando da Forza Italia, Partito Democratico, fino a Fratelli d’Italia, la lista è lunga, oltre che ipocrita.

Lista Tsipras, Verdi e Movimento 5 Stelle – sia pure con qualche contraddizione – rappresentano un’alternativa radicale a questa Europa scellerata e corrotta, anche solo considerando il fatto che nessuna di esse si è resa complice del degrado in cui ci troviamo. Al loro interno contengono personalità estremamente competenti ed oneste, e sono più che certo sapranno rappresentare meglio di altri il bene comune.

I popoli europei non devono arrendersi alla subalternità della finanza parassitaria. Il 25 maggio dobbiamo svoltare pagina e scrollarci di dosso qualsiasi cosa che possa “fermentare”, che abbia in sé il rischio, la potenzialità, di corrompersi e corromperci, disconoscendo proprio ciò che la corruzione ri-conosce; ma un paio di questioni su tute devono essere ben chiare:
1. L’imprenditoria DEVE rimanere fuori dalla gestione dello Stato sociale;
2. L’Euro non è né la causa né la soluzione dei nostri problemi: semplicemente è un argomento utile a cavalcare opportunisticamente inconsapevolezza e indignazione diffuse con il solo scopo di raccogliere voti continuando così a lasciare le questioni di fondo come e dove stanno.
Ponderiamo bene le nostre scelte, e facciamolo su una base di buon senso, per un bene comune, fuori dagli schemi dei grafici economici che nulla hanno a che vedere con esso.

La civiltà delle realtà artificiali


Far vedere. Rendere presente. Connessioni. Costruzione di testi. Messa in scena. Messaggi. Corpo immateriale. Parola virtuale. Reti. Immagine. Danza rituale del video. Socializzazione. Rappresentazione tribale. Artificio. Materiali espressivi. Realtà piegata. Realtà costruita. Realtà artificiale. Sentimenti piegati. Sentimenti costruiti. Sentimenti artificiali.
Sono tutte parole, concetti, assunti nuovi, attuali, che noi tutti affrontiamo quotidianamente, anche senza volerlo; soprattutto senza saperlo. Cosa è cambiato, e cosa sta cambiando? Il mezzo come strumento semplificativo della vita è diventato il mediatore rappresentativo della vita: viviamo attraverso il mezzo, dentro il mezzo; il mezzo ci trasforma, sostituisce, insegna la vita. Non impariamo più la vita per utilizzare il mezzo, ma attraverso il mezzo impariamo la vita.

La dialettica soggetto-individuo/oggetto/società/comunità/natura si svolge sempre più sulla superficie, sull’aura del prodotto di consumo, rivelando che tutto è mutazione, alterazione, sostituzione, manipolazione, dentro cui la realtà materiale può essere rappresentata, riprodotta, inscenata, realizzata artificialmente. Prima essa è una realtà prodotta con ancora sostanziali legami con il mondo naturale, infine è una realtà prodotta attraverso oggetti che mirano ad escludere ogni nesso sostanziale, materiale, con la natura.

La realtà è dunque il “soggetto” nel suo abitare le immagini, che esso produce per dar senso a se stesso e alle cose. Immagini, si badi bene, non nel senso distintivo di linguaggi iconici, ma più esattamente di rappresentazioni artefatte, contraffatte, eretiche, infedeli alla comprensione ancestrale dell’immaginazione della realtà. Siamo finiti nella civiltà della realtà artificiale. La immaginiamo, viviamo, rappresentiamo: la rendiamo reale. Tanto reale da escluderla vivendola.

Ne risente così la percezione quotidiana delle cose, il senso che attribuiamo alle persone, ai ricordi, alle immagini, conferendo loro sentimenti di prossimità, affinità, relazione, o di distanza, distacco, assenza. E più questo processo surrogatorio si compie, per effetto stesso della sua logica di sviluppo, più cresce anche l’artificializzazione del mondo, e con essa crescono le mediazioni tra il soggetto e la natura, con la conseguente riduzione della partecipazione/presenza simbolica della natura: non si consuma più qualcosa che deve produrre l’effetto della realtà, ma produciamo noi stessi qualcosa da consumare immediatamente come realtà.

Quanto più la macchina degli artifici cresce, tanto più potente, intensa, s’è fatta la percezione intima dei limiti. Limiti che non dipendono più dall’individualità, dalla conoscenza, dalla scoperta e comprensione della nostra personalità, ma dall’intendimento che si ha della conoscenza stessa. È il quotidiano rincorrere la propria identità a separarci da essa. Una lotta tra individuo e artificio che richiama in noi scene primordiali, antiche paure, ignoti smarrimenti: chi siamo? Da dove veniamo? Che cosa ci facciamo qui? Dove stiamo andando? Perché? Domande in metamorfosi: Sono io questo? Chi desidero essere? Da dove desidero essere venuto? Dove desidero andare? Chi, o cosa, chiarisce i miei perché?

Questa, è la civiltà delle realtà artificiali.

Emergenza immigrati e modello di sviluppo economico: connessioni


Secondo taluni gli immigrati scappano dai loro paesi perché in cerca di lavoro. Si dice non sia vero che il nostro modello di sviluppo economico sia sbagliato, che non è a causa del capitalismo selvaggio che nei paesi più poveri le condizioni di vita peggiorino sempre più. Qualcuno si ostina con spudoratezza a chiamare “rifugiati economici” coloro che in massa abbandonano le proprie terre natie perché appunto attratti dal nostro modello di sviluppo economico. Si dice inoltre che perseguire una politica verso una “decrescita felice” sia una follia, poiché tornando a “pescare con l’amo” ci troveremmo nella stessa condizione di queste povere persone. Essi, secondo taluni “creativi”, scappano proprio dalla “pesca con l’amo”. Ma la follia sta proprio nel fatto di pensare che torneremmo a pescare con l’amo cambiando il nostro modello di sviluppo. È impensabile, oltre che falso, anche solo considerando semplicemente il livello di conoscenza acquisito dall’uomo.

Siamo perennemente in campagna mediatico-elettorale, perciò per raccogliere voti, consenso, legittimazione e giustificazioni si gioca, attraverso i mezzi di comunicazione, sulla paura che abbiamo di vederci togliere i comfort conquistati e, naturalmente, sulla nostra ignoranza. Da quando esistono i mass media la procedura è questa.
Il nostro modello di sviluppo selvaggio, illimitato, fa in modo che si vadano a ricercare e sfruttare all’eccesso risorse che si trovano nei continenti più poveri. Le disuguaglianze aumentano per ciò: perché la parte più forte economicamente schiaccia quella più povera. È una legge della natura: il pesce più grosso mangia quello più piccolo; ma per quanto sia naturale che i pesci grossi mangino quelli piccoli, non è altrettanto naturale ai piccoli essere mangiati da quelli grossi.

Il lavoro ci sarebbe in quelle terre, e c’è, ma è sottopagato, privo di qualsiasi diritto fondamentale, irrispettoso della sicurezza ambientale e manchevole (come da noi) di limiti consapevoli; ciò permette appunto la crescita economica selvaggia dei paesi “occidentali” e “occidentalizzandi“. Le guerre civili sono, infatti, una conseguenza, l’effetto, non la causa degli esodi. Tali guerre (in aumento e sempre più violente) scaturiscono prevalentemente da gruppi di ribelli armati (armati dalle industrie belliche degli stessi occidentali) che combattono l’invasione dell'”Impero del Bene” quale si dichiara il nostro modello di sviluppo, ovvero il modello di sviluppo voluto dall’America tecnocratica imperante, ma anche per rimanere in possesso del controllo degli esseri umani, per schiavizzarli al suddetto modello, che garantisce il soddisfacimento dei nostri bisogni. Sono le diverse ideologie a farsi la guerra. Di fatto, “produrre in quantità sempre maggiori e a costi sempre più bassi” è la formula mirata del capitalismo selvaggio.

I migranti sono quindi l’ostro* generato dai nostri bisogni effimeri, il risultato del nostro “stato eteronomo“, e della nostra incoscienza e ignoranza derivanti.

A tutto ciò si aggiunge un’ulteriore difficoltà di pensiero: le attività commerciali aperte, ad esempio, dalla popolazione cinese. Non tutte ovviamente. Ma proviamo a chiederci quali possono essere i motivi per cui le amministrazioni locali rilasciano le licenze come pane fresco per aprire parrucchieri, centri estetici e negozi vari a due metri da parrucchieri, centri estetici e negozi vari a gestione italiana, in barba al buon senso. La risposta è semplice: molti di essi portano con sé soldi in contanti, corrompono le amministrazioni locali (altrimenti non glieli farebbero aprire seguendo normali iter), e favoriscono il mercato nero (produzione a basso costo, quindi laboratori clandestini come quelli di Prato, oppure l’importazione di prodotti – fabbricati nelle modalità di cui sopra – senza alcun controllo doganale) nonché della prostituzione e del commercio umano da sfruttare nella manodopera. Sappiamo essere l’Italia uno dei Paesi più corrotti al mondo, ed è facile pertanto trarre le coerenti conclusioni. Il corrotto quindi fertilizza il terreno con altra corruzione, e chi vuole sopravvivere deve obbligatoriamente adeguarsi. Così invece di fare l’errore di dar la colpa a chi apre tali attività commerciali, sarebbe più corretto darla alle amministrazioni locali. Combattere il malaffare nel nostro Paese è sempre stato un’incognita. Certo è che questo non aiuta affatto a comprendere i problemi che ci circondano, sia a livello locale, sia a quello globale. Ne consegue quindi una guerra tra la ragione e l’ignoranza che, con la prepotenza-prevalenza assoluta degli scontri violenti che la cronaca ci espone ogni giorno, distrae l’opinione pubblica dalla vera radice dei problemi. Discutiamo allora sempre più degli effetti (spettacolari, da offrire al pubblico che segue appunto lo spettacolo) e sempre meno delle cause.

Paradossalmente, per mantenere in vita il nostro modello di sviluppo economico, abbiamo bisogno di guerre, carestie, ignoranza, inconsapevolezza, e di esseri umani disposti a tutto pur di sopravvivere: abbiamo bisogno di quanto sta accadendo nel mondo. E le disuguaglianze sociali in aumento lo dimostrano chiaramente. Ma per quanto ancora potrà durare?

*Nella mitologia greca, Austro (o Noto od Ostro) era il nome di uno dei figli di Eos e di Astreo, ed era uno dei quattro venti, quello del sud.
Austro portava con se caldo e pioggia, viveva nel profondo sud e possedeva un fiato talmente ardente che con esso bruciava intere città e vascelli.

Alan Friedman: come preparare psicologicamente al sacrificio un’intera generazione, in nome di “una splendida opportunità”


Avete presente Alan Friedman, il giornalista-economista, quello che parla simpaticamente come Ollio, che ha occupato il mondo della comunicazione per promuovere il suo libro Ammazziamo il gattopardo, da poco tempo prima che Matteo Renzi si insediasse a Palazzo Chigi con le modalità che noi tutti conosciamo? Ecco, guardate un po’ che ho trovato sul New York Time del ’98:
(un estratto dell’articolo)
“[…] quella splendida opportunità (Unione Monetaria Europea), se debitamente sfruttata, avrebbe significato per i paesi europei che non facevano parte dell’Unione:
[…] Provocherà un ulteriore ridimensionamento complessivo e, inizialmente, un aumento della disoccupazione
. Friedman prosegue citando Kim Schoenholtz, economista rinomato del Salomon Smith Barney di Londra, e l’opinione di “molti altri economisti del settore privato”, secondo cui, perché la moneta unica europea determini il previsto “miglioramento dell’efficienza”, “sono necessari profondi cambiamenti strutturali. L’articolo di Friedman è chiaro in merito ai cambiamenti strutturali da apportare che costituiranno “l’elemento mancante che i politici devono ancora aggiungere”. Il cambiamento strutturale, spiega Friedman, è “la chiave per rendere più semplici l’assunzione e il licenziamento, ridurre la spesa pubblica per le pensioni e altri benefici concessi dallo stato sociale, e diminuire gli elevati contributi previdenziali e gli oneri sociali che gravano sui datori di lavoro dell’Europa continentale […]”.

In quegli anni si parla anche che il raggiungimento di tali obiettivi (voluti dal Fondo Monetario Internazionale – FMI -) richiederà il sacrificio di una generazione, come spiegano un gruppo di leader religiosi dell’FMI degli Stati Uniti.
Mi sembra, considerate le riforme strutturali messe in campo da questo Governo, che tutto segua alla perfezione il disegno prestabilito. Poco importa del sacrificio di milioni di esseri umani. Sì, davvero “una splendida opportunità”. Anche se non è ben chiaro a favore di chi. O forse sì, dato che sappiamo con certezza a svantaggio di chi.

Qui l’articolo originale:

http://www.nytimes.com/1998/05/02/news/02iht-simpact.t.html