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OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

LE PROTESTE SONO DAVVERO COSÌ RIDICOLE?


Dunque, a me questa storia che chi manifesta contro Green Pass e misure anti-Covid siano da ritenersi tutti imbecilli, frustrati, ignoranti, sgrammaticati, terroristi, rivoltosi, e vittime delle Fake News, avrebbe anche un po’ stancato.

Intanto vorrei capire allora per quale motivo, se vengono considerati così incapaci, lo Stato non dovrebbe prendersene la responsabilità ammettendo le proprie colpe. Se la popolazione, che tu fino a quel momento hai guidato, educato e formato, non fa altro che scendere in piazza per manifestare il proprio dissenso (non importa di che natura) aumentando sempre di più la sfiducia nei tuoi confronti, significa che non hai fatto bene il tuo lavoro di governo. Deve essere chiaro prima di ogni altro aspetto questo punto.

Insomma, seguitare a dare dell’inetto al tuo popolo è come darlo implicitamente a se stessi. E non si comprende come persistendo con questa pratica si possa pensare di migliorare la condizione sociale generale. Anzi, la si peggiora gradualmente, perché creando un gruppo di dissidenti senza accollarsi alcun onere, e oltretutto reprimendola con ogni mezzo come fosse l’unico vero male della società arrivato dal nulla, non fa altro che aumentare disagi e frustrazioni anche in chi non fa parte di quella categoria, perché costretto in ogni caso a scontrarcisi.

Il problema fondamentale è che ci hanno apparecchiato davanti una società nella quale a vincere e a dominare crediamo essere colui che ne sa più di degli altri. Siamo esortati a competere l’uno contro l’altro e l’unico requisito richiesto per partecipare al confronto è quello di saper ammucchiare il più possibile informazioni dalle quali siamo letteralmente bombardati, e che sono sempre più vaste, infinite e contraddittorie.

I Media si sperticano in ogni modo per etichettare i “rivoltosi” come violenti e ignoranti, e chi ascolta passivamente non può fare altro che “scegliere” di stare da una parte o dall’altra. Quel che è certo è che non vengono dati margini per sollevare dubbi.

E il surplus di informazioni che riceviamo ci dà anche la ragione di sentire il bisogno di dire la nostra su argomenti e materie che non dovrebbero competerci.

Una gara a chi ne possiede di più, messi però nella condizione di saper apprendere sempre meno a causa del degrado educativo nel quale siamo stati infilati. Un po’ come fare un corso di chirurgia online e pretendere di saper effettuare subito dopo un trapianto di cuore.

Paradossalmente essere bombardati da informazioni che non trovano mai fine ci spinge all’interno di una megalomane presunzione, la quale ha come unico interesse quello di alimentare il proprio egocentrismo.

Oggi chi ha le basi per stabilire cosa è giusto e cosa non lo è? Tutti, di conseguenza nessuno. Le informazioni sono trasversali, di qualunque natura e materia, molteplici, differenti, discordanti e raggiungono chiunque e in ogni parte del mondo. Tutti sentono il bisogno di manifestare il proprio parere, il proprio dissenso, le proprie convinzioni, rafforzate puntualmente da algoritmi che seguono le nostre preferenze. Ci convinciamo di cosa è giusto e cosa non lo è proprio in proporzione alle conferme che ci vengono costantemente suggerite e che invadono la nostra vita. Convinzioni che a nostra volta rilanciamo dai nostri social; o sarebbe meglio dire “palcoscenici“.

Veniamo orientati scientemente e in maniera coerente verso le nostre convinzioni, pur non avendo queste nessuna sensatezza. E allora viene da chiedersi: chi regola questi algoritmi?

Se è il popolo a regolarne la condotta significa che tutto è lasciato nell’abbandono più totale. E in questo caso allora chi avrebbe lasciato tutto nelle mani del popolo? E perché?

La mancanza di controllo, di istituzioni dedite alla formazione culturale del popolo, sono elementi basilari che una società organizzata non può permettersi di perdere. E i risultati di questa assenza sono diventati così evidenti che si fa fatica a credere che siano veritieri per quanto incredibili. È una realtà talmente assurda da far perdere completamente la vista.

Chi guida il nostro cammino e verso quale direzione? Se davvero un algoritmo asseconda incessantemente le nostre preferenze per soddisfare interessi di mercato, chi ci insegna a controllare la nostra impulsività rispetto alle scelte che facciamo?

Nessuno.

Siamo prigionieri delle nostre stesse convinzioni, che per avere ragione hanno la sola necessità di essere rafforzate. Così ci circondiamo di altri che la pensano come noi. Si creano quindi fazioni, gruppi, correnti, partiti, movimenti e perfino sette.

Dove manca organizzazione sociale, dove mancano le condizioni sociali favorevoli, affinché un individuo possa affermarsi consapevolmente e trovare la propria posizione nella società, per sentirsi parte importante di un’intera popolazione, allora manca una guida, ed è inevitabile che in un tempo più o meno lungo il degrado faccia il suo corso.

E succede quello cui stiamo assistendo tutti, ma che la maggior parte degli spettatori ormai giudica in forza alle proprie convinzioni.

È così che finiamo banalmente per andare gli uni contro gli altri. Mentre chi governa può continuare indisturbato a fare i propri affari.

Ritengo che giudicare insensate le manifestazioni di questi ultimi mesi sia totalmente sbagliato. Si vogliono considerare incivili? Allora dovrebbe venire spontaneo chiedersi chi ha “educato” all’inciviltà tutte queste persone. E non chiederselo ci inquadra automaticamente nel gruppo contrapposto. In ogni caso, prendersela con chi ha un pensiero discordante con il nostro rivela di noi la stessa personalità di chi stiamo giudicando, e alla fine ce la prendiamo con le persone sbagliate.

Ma qui, in questo momento, non abbiamo bisogno di avere ragione o torto, come generalmente fanno i bambini che litigano e si fanno i dispettucci.

I popoli che scendono in piazza non sono degli inetti. Hanno le loro ragioni, che seppure dovessero essere irragionevoli hanno trovato nel tempo supporto e linfa vitale grazie ad un governo assente e insoddisfacente.

Questa battaglia, che viene condotta contro il malcontento e che si desidererebbe sopprimere a colpi di dati, spiegazioni, informazioni, non la vincerà mai nessuno, perché l’unico modo per interromperla risiede nella comprensione, e nella consapevolezza che il degrado è generato dalla mancanza di condizioni sociali favorevoli all’affermazione economica e alla crescita culturale dell’insieme degli individui intesi come popolo. Il modello sociale che viviamo impone di considerare questi aspetti. Invece le disuguaglianze economiche e sociali aumentano a dismisura.

Non possiamo pensare di sopprimere metà popolazione semplicemente perché la riteniamo inetta. Ed è a questo invece che molti anelano. Da una parte, e dall’altra. E siamo tutti pronti ad abbattere il nemico a colpi di informazioni, di articoli, di dati, di immagini, a supporto delle nostre ragioni, che riteniamo reali nella stessa misura in cui giudichiamo reali le nostre convinzioni.

Certo, pensare di far cambiare idea agli altri imponendo loro le nostre ragioni attraverso frasi e concetti che alle nostre orecchie sembrano insindacabili e meravigliose, è alquanto egocentrico. Va ammesso.

E il bello è che alla fine siamo tutti bravi a dire che ci manipolano, salvo poi precisare che i manipolati sono sempre gli altri. Invece nessuno è esente da questa pratica. Tutti i popoli del mondo sono manipolati, condotti verso una direzione più o meno giusta, e questo dipende unicamente da chi li governa.

Per concludere, quindi, se non si è d’accordo con chi manifesta il proprio malcontento, l’unico rimedio da adottare è quello di andare a risvegliare la nostra comprensione. Non giudicare, ascoltare in silenzio, ammettere i propri limiti. Insomma, bisognerebbe cercare di essere un po’ più umili.

NO, NON STA ANDANDO TUTTO BENE


Conte e Fedez

A proposito di Fedez, Ferragni e Conte, quello che secondo me non si è capito bene è il fatto che se il governo di una nazione sente il bisogno di interpellare personaggi come loro per raccomandare l’utilizzo della mascherina ai giovani può solo significare che siamo messi veramente male.

Gesti come questo servono in realtà a dare autorevolezza sociale a questi personaggi che, onestamente, non servono assolutamente a niente: sono l’emblema dell’inutilità. Non ho niente contro di loro, ma oggettivamente sono un esempio suffragato dal nulla, e questo nulla sconfinato da quel preciso momento è stato formalmente legittimato (o consacrato) a radicarsi e diffondersi sostituendo di fatto la cultura tradizionale degli uomini. Adesso possiamo dire che, essendo stati questi signori chiamati a divulgare il rispetto di normative in piena pandemia mondiale, tutto il nulla assoluto che realizzeranno sembrerà ancora più colmo che in passato, data l’importanza conquistata.

Uno Stato che ufficialmente affida il compito di educare la popolazione al senso civico ad un influencer e ad un cantante significa che prende atto che la scuola e tutti gli strumenti di cui storicamente si serviva per diffondere informazioni ed educazione non servono più a nulla. Inutile cercare di rafforzarli investendo affinché ci sia maggiore auterovelozza ed efficacia comunicativa attraverso questi strumenti, no, si cavalca e anzi si ratifica questo modello culturale completamente inutile.

I nostri figli ambiscono a fare i cantanti, rincorrono i “mi piace” e desiderano followers per realizzare il sogno di diventare influencer. Mentre noi ci domandiamo che fine hanno fatto i valori, qualcuno al posto nostro orienta l’attenzione delle nuove generazioni verso un modello sociale che desidera se stesso così com’è, privo del senso di appartenenza ad un mondo che poteva avere le potenzialità per diventare migliore, non attraverso i followers ma attraverso la formazione, la cultura millenaria di un pensiero critico che ha creato capolavori che si stanno dissolvendo sulle note di un inno alla spettacolarizzazione del vuoto lasciato dalla mancanza di esperienza di un popolo ormai abbandonato a se stesso.

Fedez e Ferragni sono i nuovi divulgatori del senso civico, del senso di responsabilità, del senso si appartenenza. Prendiamo atto del fallimento non solo di uno Stato, ma di un intero modello sociale al quale non rimane altro che cercare ispirazione all’interno di un contesto degradato e degradante nel quale sta affogando.

Ed è esattamente quello che sta (stanno) facendo nell’affrontare una pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo intero. Anziché rafforzare il complesso di elementi indispensabili a mantenere in piedi l’organizzazione sociale, punta a disgregarla sempre più compiendo scelte completamente fuori da ogni logica. A più contagiati equivangono più morti, pertanto oltre alle misure precauzionali c’era solo da intervenire potenziando le uniche strutture indispensabili in casi come questo: sanità e istruzione. Nulla di tutto questo è stato rafforzato. Nemmeno in una piccola significatica parte. E neppure le misure precauzionali sono state accettate da buona parte della popolazione dal momento che ormai lo Stato ha perduto ogni forma di autorevolezza nei confronti di cittadini ormai esausti e abbandonati sul baratro. E l’unica domanda che riesce a porsi, in tutto questo delirante nulla, è “quali influencer potrei consultare per diffondere il senso civico?

No, non sta andando tutto bene.

Siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere


A tutti coloro che non perdono mai occasione di schierarsi con le unghie e con i denti, e nemmeno quella di tacere.

Non è mai stato facile per nussuno fare l’educatore. Bisognerebbe andare a scavare fino alla settima generazione di ognuno per capire di chi è la colpa. Un ragazzo fa una rapina, e allora la colpa è dei genitori che non sono stati in grado di educarlo, e per lo stesso principio a loro volta hanno avuto padri e madri che li trascuravano, che di conseguenza hanno avuto la stessa sfortuna, perché altrimenti i loro figli non avrebbero trasmesso ai discendenti le loro lacune. E così via, fino alla preistoria.

Comprendere che i mali della nostra società arrivano da lontano è fondamentale, ma circoscrivere alle singole famiglie le colpe di un degrado diffuso è profondamente insufficiente come riflessione. E allora mi chiedo perché dovrebbero esistere uno Stato, una Costituzione, delle Leggi, un Sistema Formativo? A cosa dovrebbe servire una Istituzione del genere se poi, alla fine, la colpa del degrado è da imputarsi sempre agli individui e mai alla debolezza del Sistema nella sua complessità?

Allora se uno Stato schiacciasse dalle tasse il proprio popolo verrebbe facile pensare che quel popolo, pur di non farsi schiacciare, evaderà le tasse creando le basi per la corruzione. Il concetto è che se i reati e il degrado aumentano può solo significare che lo Stato non è in grado di funzionare come dovrebbe. Non è in grado di educare il proprio popolo.

Scaricare la colpa sul singolo individuo (che pure ha colpe, ma non lui soltanto), e concentrare l’attenzione giudicando la singola azione significa sollevare di ogni responsabilità un Sistema che avrebbe dovuto per primo evitare l’evolversi del degrado, che si manifesta soprattutto attraverso episodi come quelli che la cronaca racconta ogni giorno.

Siamo tutti bravi dare giudizi, ma siamo meno bravi in un’infinita di altra roba. Soprattutto siamo sempre meno bravi nel darci la possibilità di tacere.

Homo “haud” Sapiens


In un mondo dove nessuno sa né leggere né scrivere ad andare avanti sono gli sciacalli con la convinzione che l’esistenza consista nel depredare le risorse del prossimo così da assicurarsi la propria sopravvivenza. Del resto come dar loro torto se in effetti le sole alternative che gli vengono presentate sono la disfatta, il fallimento, l’umiliazione, la distruzione, l’abbandono, e l’insuccesso inteso esclusivamente come sconfitta personale, individuale anziché collettiva, sociale, comunitaria. Una società che vive nella menzogna di poter riuscire a fare tutto solo grazie all’istinto e alle presunte capacità di sopravvivenza individuali, escludendo un fatto ineludibile, la “con-vivenza”, non può essere consapevole di star scavando la propria fossa. L’uomo non vive di sola caccia e conquista. È un essere sociale con anche il bisogno di crescere intellettualmente, culturalmente, eticamente; elementi grazie ai quali ha realizzato opere senza tempo che hanno determinato la sua evoluzione, ma che a causa della loro progressiva e inesorabile deriva vengono abbandonate al degrado generato dall’ignoranza in attesa che facciano il loro tempo.
Una società resa ignorante non potrà mai riuscire ad apprezzare quel che ha, poiché non è consapevole di averlo.

Integrazione: siamo all’Era glaciale dei sentimenti


Viaggiamo, con la mente aperta alla ricerca di qualcosa di diverso, di luoghi diversi, di culture diverse, di facce diverse, di suoni diversi, di colori e odori diversi, per scappare dalla frenetica quotidianità cui siamo costretti, ma quando è il diverso a raggiungere la nostra “terra privata”, non siamo pronti né disposti ad accettarlo, poiché istruiti a decidere noi dove e quando incontrarlo, anche se coviamo spesso in silenzio un’altra vita, un nuovo inizio in terre meno deliranti. E allora dal rifiuto all’emarginazione del diverso è un passo, e ne basta un altro affinché da quest’ultima si elaborino i nostri spazi come terreni di battaglia sui quali combattere per assicurarsi la supremazia esistenziale, in un mondo proclamato sempre più angusto.

Capita inoltre che chi non ha viaggiato mai non sia preparato ad accettare il diverso, perché sperimentato soltanto attraverso i filtri di un documentario (anche se viaggiare non implica di per sé sensibilità, disponibilità, espansività, dato che sempre più frequentemente ci releghiamo in spazi dedicati al turista – specie per motivi di sicurezza – che a sua volta richiede servizi standardizzati), e lo considera quindi come una minaccia imminente, che priva di risorse – paventate insufficienti – la “nostra terra”.
Le politiche d’integrazione multiculturale poco sono prese in considerazione dai governi occidentali, ed è principalmente a causa della loro carenza che il diverso fatica ad essere compreso e accettato. Al contrario, perfettamente integrata nel tessuto sociale, nell’immaginario collettivo dei popoli occidentali, è la dottrina del PIL.

I governi occidentali infatti si spendono corruttivamente affinché beni e servizi transitino liberamente da una terra all’altra e siano ben presenti nelle nostre case, e ha poca importanza se è lo sfruttamento utilizzato per produrli a generare l’esodo di massa cui noi tutti stiamo assistendo. Poco spendono invece per insegnare il degrado sociale e culturale creato per inseguire il profitto, indirizzando furbescamente il sentimento collettivo verso dispotismi, egoismi, diffidenze, invidia, così chi è costretto a scappare da quelle realtà si ritrova a sbattere ancora contro la stessa insensibilità.
Perché è grazie ai potenti mezzi oggi a disposizione se siamo capaci di credere, come ingenui fanciulli incantati dalle favole, nella reale esistenza di Babbo Natale (un Salvini qualunque) e dell’Uomo Nero (un immigrato qualsiasi). E allora ti capita sovente di ascoltare in giro ragazzini che per offendersi si scambiano epiteti come «sei un marocchino», e ti accorgi di quanti passi è retrocessa l’umanità, e di quanti invece è avanzata la spietatezza.
Viviamo così nell’Era glaciale dei sentimenti, nel pieno di una catastrofe, e questo mondo somiglia sempre più a un mondo privo di umanità, e di comprensione, pietà, accoglienza, sostituita da marionette senz’anima, né calore né ombra. E non è un caso che in numero sempre maggiore l’uomo venga sostituito nei suoi compiti dalle macchine, come non lo è il fatto che ad un aumento del degrado corrisponda una diminuzione della coscienza.
Nessuno ha più responsabilità in questo carosello di scaricabarili, dove il colpevole si è fatto invisibile, attore di questa tragicommedia che è la vita, in cui svolge le sue attività solo su comando, e dove non è concesso, poiché non ne ha facoltà, domandare, avere dubbi, per non destabilizzare il fragile equilibrio economico da cui dipende la sua esistenza. L’oppressione della libertà di pensiero, della consapevolezza di un mondo alienato, dà origine a tensioni fra popoli che nulla hanno di opposto, e che anzi hanno in comune tutti la stessa oppressione e la stessa incolpevolezza. L’inciviltà verso la quale siamo diretti reprimerà quel po’ di empatia che ancora sopravvive educandoci a considerare la “nostra razza” superiore, e come l’unica degna di occupare terre. Ebbene sarà sempre guerra, una guerra stabilita dalla favola del PIL. Nel frattempo, quanto più il mercato è libero, tanto meno ci sentiamo sicuri. Ma è solo un caso.

“Combattere per la pace è come fare l’amore per la verginità”


Nella quotidiana e perpetua discussione mediatica, ora su quel provvedimento ora sull’altro, quel che non manca mai sono quegli elementi che rendono la vita politica del Paese ignobile, stantia, ripugnante, oltre che socialmente molesta, irritante, frustrante. Ogni giorno la classe dirigente finge di chiedersi quali sono i motivi che hanno trascinato i cittadini verso una disaffezione cronica nei confronti della realtà sociale e politica senza mai, naturalmente, provare a darsi una risposta definitiva e con questa, da questa, conseguentemente ripartire daccapo rimuovendoli per far sì che le proteste, espresse più che chiaramente col non-voto, siano finalmente ascoltate. Invece, l’imbroglio delle riforme in atto volute da chi istruisce l’abile racconta-novelle premier italiano, degno successore di Berlusconi, viene spacciato ingegnosamente come la volontà della maggioranza assoluta del popolo italiano che, va ricordato, si tratta invece del 40,8% di elettori che rappresentano un esiguo 23,7% della popolazione elettorale con diritto di voto. Un 23,7% dal quale trarre prepotentemente legittimità per appropriarsi indebitamente dei bisogni e delle richieste angosciate di coloro che non ce la fanno più a sopportare questo ridicolo e deleterio gioco psicologico delle parti, dove a chi dice il bianco viene contrapposto chi afferma il nero, con un rimpallo di responsabilità infinito, senza mai arrivare a niente, senza mai risolvere niente, se non a garantire l’inattaccabilità e la prosecuzione indisturbata degli affari e delle ambizioni dei singoli attori che prendono parte alla commedia drammatica che è diventata la politica e la società tutta.

Riforme che vengono confezionate e presentate al popolo consumatore di slogan come la più passionale delle rivoluzioni in atto dal dopoguerra ad oggi.

Perché le riforme si fanno in Tv e, si badi bene, non solo negli ormai classici e sempre più avvalorati talk-show, ma anche nelle fiction, nel cinema, nei social, nei blog, nei giornaletti di gossip, nel calcio, nei romanzi, nelle manifestazioni di ogni tipo, e in tutto il possibile da spremere e sfruttare come palcoscenico utile a narrare una riforma, non in atto, ma narrata, appunto. Solo narrata. A benedire la fedeltà, nonostante tutto, dei restanti (pochi) milioni di elettori del partito (e non solo quelli) che pretende di essere l’unico erede delle speranze rivoluzionarie.

Assistiamo così inermi alla cannibalizzazione degli spazi mediatici, e conseguentemente pubblici, e a un protagonismo che purtroppo ha dei precedenti e avrà dei seguiti sempre più esaltati ed esaltanti. E come in ogni circostanza, fatta diventare volutamente di grande impatto mediatico affinché s’intrattengano le attenzioni del pubblico, si deve offrire a quest’ultimo — che subisce — un capro espiatorio, che nella narrazione corrente è incarnato nel “gufo”, nel “pessimista”, nel “disfattista”, che viene incastrato come fosse lui l’assassino, cosicché ci si possa prendere il merito d’aver ispirato ottimismo e fiducia; e condannare nello stesso tempo implicitamente tutti coloro che hanno pensato si potesse trovarlo “finalmente” in un regime politico esperto solo nel salvaguardare interessi che non appartengono certo alla collettività. Un colpevole, o presunto tale, dunque, che anche se non fosse lui lo sarà comunque a vita nell’immaginario collettivo.

Perché ormai è così, dai “piani alti”, di qualunque settore si tratti, basta dire insistentemente che si sta facendo qualcosa affinché questo diventi virale, quindi reale, effettivo, e se qualcuno provasse a dire che così non è, basterà semplicemente ribadire che così invece è, e il gioco del contraddittorio continua indefinitamente, sulla pelle di coloro che di questo genere di intrattenimento social-mediatico, sponsorizzato e pagato profumatamente dalle aziende che nel frattempo devono vendere i loro prodotti di consumo, ne hanno piene le scatole. E che ne hanno piene le scatole lo esprimono da anni non esercitando il diritto di voto, poiché sa quanto sia diventato inutile, infruttuoso, esercitarlo, forte dei reiterati scandali e corruzioni che ogni giorno la magistratura scoperchia in ogni settore e anfratto della società, ma soprattutto ai piani alti, quelli dai quali si “amministra” il Paese.

Nel frattempo, mentre gli animali da palcoscenico, negli interminabili dibattiti, discutono su come affrontare i problemi causati dalla crisi, ma non su quelli che hanno causato quest’ultima, la guerra bussa alle nostre porte.

E sembra essere proprio questo il futuro che ci attende: mentre fuori, la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, ovvero le socializzazioni, le relazioni, le esperienze, le comunità, eccetera, si va sfaldando sempre più, e a noi non resterà altro da fare che aggrapparsi alla costruzione virtuale di essa, le potenze mondiali si stanno organizzando per guerreggiare contro il terrorismo, per l’ennesima volta. Terrorismo che oggi si chiama Isis, o per “i più ammaestrati” Islam, ieri Bin Laden, l’altro ieri di Saddam, e che è figlio dell’egemonia occidentale, del nostro modello di sviluppo economico, che invade, sfrutta e distrugge, ma ignora quando c’è da soccorrere e ricostruire dopo aver raso al suolo ed essersi accaparrato le risorse. Conosciamo i moventi della guerra, così come conosciamo le giustificazioni utilizzate per promuoverla. Ne abbiamo esperienza. Già più di tremila anni fa, nei testi sanscriti del 1200 a.C., il termine utilizzato per indicare la guerra, युद्ध yuddha, significava “desiderio di possedere più mucche”, e più recentemente le due guerre mondiali dovrebbero essere un esempio tanto eclatante da non poter lasciare spazio all’immaginazione circa i disagi post-bellici che costituiscono il terreno fertile per le ideologie estreme dei regimi totalitari. Eppure regolarmente, metodicamente, a vincere è lo scenario vagheggiato dell’invasione dei nostri territori, della nostra libertà, della nostra sicurezza, che solletica la nostra paura, che a sua volta ci convince ad accettare l’attacco armato per difendere tutto ciò.

La politica, la democrazia, che un tempo credevamo essere soluzioni, oggi si rivelano inefficaci, trappole, sabbie mobili nelle quali l’umanità organizzata sta sprofondando. E così guerre, barbarie, razzismo e follia sono il risultato dei fallimenti delle operazioni pseudo-democratiche che perseveriamo, il vero avanzo di questo inestricabile groviglio. Troppi si ostinano a pensare che la fuga da paesi in guerra sia un segno di rinuncia e di codardia; al contrario, dovrebbe suggerire l’esperienza, essa è l’impossibilità di reazione nei confronti d’un sistema troppo grande e troppo forte da poter essere combattuto, contrastato, controllato. E a tutto questo cumulo di menzogne, oggi si aggiunge l’incubo di un’imminente invasione dei terroristi a bordo dei barconi carichi di profughi. E allora facciamo l’ennesima guerra, che darà i natali all’ennesimo nemico che dovrà essere combattuto per l’ennesima volta, non prima, s’intende, d’aver guadagnato l’ennesimo bel gruzzoletto vendendogli l’ennesimo consistente arsenale bellico.

Il nostro modello di sviluppo economico-sociale, il nostro modello democratico, non garantisce a noi, che facciamo parte di questa porzione di mondo, il giusto progresso verso una vita dignitosa, ma anzi sfrutta e alimenta l’ignoranza attraverso tagli alla Cultura, all’Istruzione, e mettendo altresì in atto campagne mediatiche mascherate sotto il nome di “informazione”, ma che nei fatti fornisce un surplus di notizie contrastanti, contraddittorie fra loro, celando in questo modo, dietro la facciata apparentemente democratica, una squallida, totale e assoluta disinformazione. La trasmissione di notizie di oggi assomiglia sempre più a un perpetuo funerale che celebra la morte dell’individualità, della razionalità, e che sembra avere il solo fine di alimentare ignoranze e inconsapevolezza. È l’eccesso delle ragioni, infatti, ad uccidere la ragione stessa. Andiamo a combattere una guerra fuori, quando l’unica a dover esser combattuta è qui e si chiama “ignoranza”. Non siamo in grado noi di conquistare dignità, come possiamo pensare di esportarla altrove, e di farlo per giunta con dignità?

La vita? Uno spettacolo in differita


Nel mondo delle apparenze, dei pregiudizi, delle realtà virtuali, dei sogni, della bellezza estetica, le cose sono ciò per cui si spacciano, prevalgono su ciò che c’è, mentre in realtà non sono e neppure ci sono. L’informazione, la cultura, sono diventati oramai atti di fede, convinzioni, anziché il raggiungimento, la realizzazione di una formazione personale attraverso un percorso ateo, fuori dalle dialettiche delle credenze popolari e dai paradigmi mediatici. Crediamo a tutto e a tutti, purché sia proiettato su uno schermo. La nostra è una cultura delle realtà televisive, virtuali, simulate, attraverso le quali ci viene offerto tutto un campionario di risposte stereotipate, preconfezionate, adatte ad ogni occasione della vita.

Persino la socializzazione è divenuta un atto di fede edificata sulle apparenze.

E viene da gridarlo allora sempre più forte, che questa non è più la realtà, ma uno spettacolo che va in onda ininterrottamente, dove ognuno di noi è il protagonista, l’attore principale della performance che ogni giorno va in onda. Ci comportiamo infatti da protagonisti, esponendo il nostro vissuto con la speranza, la prospettiva che sia osservato, pronto da essere proiettato sui grandi schermi, e così tutto quello che facciamo lo facciamo erigendolo sull’attesa che la nostra performance venga notata e mandata in onda. Non si spiega altrimenti l’eccessiva esibizione delle nostre intimità nei social network come nei programmi televisivi. Viviamo in simbiosi con lo spettacolo. La nostra vita è uno spettacolo che chicchessia può osservare e specchiarcisi.

Di fatto non c’è più neppure bisogno di gridare al complotto, d’ipotizzare che questo sia un modello esistenziale voluto da chissà quali menti dittatoriali, poiché l’unico vero tiranno è lo strumento, il medium in sé. La scienze sociali ci insegnano che l’essere umano apprende e opera prevalentemente per imitazione, per appartenenza (a ceti, gruppi, credo, ecc.), e quelle neurologiche che lo fa attraverso determinati neuroni chiamati, non a caso, “Specchio”. Piazzati davanti agli schermi, dentro i quali l’esibizione dell’intima natura umana è spettacolo — che spazza via l’esibizione del reale tangibile, corporea, diretta (e in diretta), priva di intermediazioni — assumiamo noi stessi le ragioni della spettacolarizzazione, dell’esibizione, dell’esternazione dell’intima individualità, che si perde così inesorabilmente e inevitabilmente nel mondo delle apparenze, delle realtà simulate, del varietà, della commedia, della tragedia della vita. Siamo noi, grazie al medium, che promuoviamo, sosteniamo e prolifichiamo realtà ritardate, mediate, indirette, digitali, create, recitate e proiettate in differita.

Viene dunque da chiedersi che futuro ci attende, dal momento che non esistono più presente né passato, schiacciati entrambi da un imperioso apparente, illusorio. Non esiste più memoria individuale organica, vivente, interiore, ma memoria digitale, catodica, sintetica, esteriore. Sembra che tutto voglia stare sulla superficie, che voglia essere visto, identificato, esibito, ma non riconosciuto, contraddistinto, caratterizzato. Paradossalmente, nonostante frustrazioni e psicopatie dilaghino, non riusciamo più ad interiorizzare. Motivo per il quale non riconosciamo più noi stessi e la realtà che ci circonda. Lo dimostrano i dati delle ultime elezioni: non abbiamo bisogno di capire il mondo, poiché il mondo è già spiegato dalla sempre più massiccia ed efficace propaganda. Non abbiamo bisogno di accresce, costituire e affermare per noi stessi la nostra intima individualità, poiché è all’“esterno”, nell’esibizione, che questa trova il “senso”. Non abbiamo bisogno di cambiare il mondo: è già cambiato; nelle nostre illusioni, nelle nostre convinzioni indotte, negli schermi che abitiamo, nella vita che recitiamo.

Beneficenza


Ci sono mali che non si possono curare con latte in polvere e biscotti ad alto valore proteico. Orribili condizioni di vita, malattie, analfabetismo, disgregazione delle famiglie, indebolimento dei legami sociali, mancanza di lavoro e di prospettive nel futuro, sono il risultato di una società che non è più in grado (e forse non lo è mai stata dall’inizio dell’entrata in scena del capitalismo), o non ha volontà, di prendersi cura degli ultimi.
Thomas Paine:
“Quando un qualsiasi paese del mondo potrà dire che i suoi poveri sono contenti e non sono afflitti dall’ignoranza e dall’angoscia; le prigioni sono vuote, e non ci sono mendicanti per le strade; i vecchi non languono e le tasse non sono oppressive…; allora esso potrà farsi vanto della sua costituzione e della sua forma di governo”.
Ryszard Kapuscinski, uno dei più acuti osservatori della vita contemporanea, ricorda di aver attraversato villaggi e ghetti africani incontrando bambini «che non mi chiedevano pane, acqua, cioccolata o giocattoli, ma penne biro, perché andavano a scuola e non potevano prendere appunti».
Io ai carnevali di beneficenza non ci sto. È per me incomprensibile raccogliere milioni di euro senza prendersi neanche la responsabilità di spiegare analiticamente le reali cause di tanta miseria. Raccogliere fondi perché “in fondo grazie ad essi è possibile fare qualcosa”, non è una soluzione, ma un rimandare sempre a domani la soluzione al problema. Arginare non serve a nulla se continuiamo a scaricare inquinanti nel fiume. E il problema è causato dalle multinazionali che depredano quei popoli di un diritto che DEVE avere chiunque abiti questa terra. Le stesse multinazionali che alimentano una società come la nostra, indiscutibilmente fallimentare, immorale ed egoista. Le stesse multinazionali che mettono in piedi questi carnevali mediatici accompagnati immancabilmente da immagini di fronte alle quali anche la coscienza più assopita impallidirebbe e metterebbe mano a residui di moralità rimastagli. Le stesse multinazionali che ci offrono, tra una pubblicità e l’altra, prodotti di consumo che alimentano il degrado e aumentano il numero dei poveri nel mondo. È una presa in giro che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Non salviamo nessuno facendo beneficenza. Salviamo solo le nostre coscienze, perché “in fondo ne abbiamo bisogno”. Sappiamo che è il nostro modello di società a causare quelle atrocità, ma siamo talmente distratti da quello che desideriamo che riusciamo senza fatica a fregarcene di chi non ha una vita degna di essere vissuta.
“Un bambino, cento, mille, milioni di bambini ogni anno muoiono di fame… Ma non preoccuparti: adesso c’è la pubblicità. È tutto finito. E se hai versato una lacrima, hai fatto il tuo dovere.”
Abbiamo bisogno di alibi per non guardare in faccia la realtà. La realtà è che questo modello di società ha già fallito: le disuguaglianze si fanno sempre più ampie e profonde, e la povertà aumenta senza sosta in tutto il mondo, e sta diventando sempre più difficile e complesso far fede solo e soltanto alle distrazioni. Continuare dritti per la nostra strada servirà solo a diminuire i pochi metri che ci separano da una catastrofe senza precedenti.