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“Volere è potere”…?


È il concetto forse più diffuso nel mondo: volere è potere. Bene, vediamo quanta verità c’è in tutto ciò.

Considerando questa una società fondata sul reddito, ovvero sui salari, il lavoro, che è fonte di reddito, permette agli individui che ne fanno parte di trovare e ottenere una collocazione, un ruolo in essa. Il lavoro è il principale strumento messo a disposizione degli individui, per garantire loro un’esistenza, d’essere riconosciuti, di avere un’identità (l'”etica del lavoro“, storicamente, è stata fondata su questo genere di postulati), essendo questo appunto un modello sociale strutturato su di esso. Stabilito quanto appena detto, dobbiamo far lo sforzo di inquadrare l’attuale crisi economica (come quelle che l’hanno preceduta) come l’espressione di un problema ben più profondo di quel che immaginano o siamo portati a credere. È come la febbre: indica una “malattia in corso“, una malattia che è causa di ben più vittime di quante ne abbiamo percezione.

Facciamoci dunque qualche domanda.

“Questa società è una società sana?”
La consapevolezza gioca un ruolo fondamentale quando cerchiamo di rispondere a questa domanda. La coscienza è uno stato che si può raggiungere soltanto attraverso la comprensione dei problemi che ci circondano, e mai con il “pre-giudizio“. La società, e la convivenza “in e con essa“, peggiora proprio a causa della carenza di consapevolezza. Sovrastati come siamo di notizie, tutte in contraddizione fra loro, non siamo più in grado di definire ed identificare i problemi che ci circondano, poiché inconsapevolmente ci asteniamo dall’affrontare un’analisi più approfondita. Lasciamo che siano altri a sbrigarsela. Ci sono così tante verità, che non siamo in grado di valutare coscienziosamente cosa è più giusto per la comunità (quindi per noi stessi) e cosa invece non lo è; inversamente non ci troveremmo in questa situazione.

“Volere è potere”.
La “volontà” è un concetto fideistico, astratto, metafisico, indipendente dalla ragione, mentre il “potere“, di contro (semanticamente), significa “avere la possibilità“, “il diritto”, “il permesso”, e deve essere “possibile”, “consentito”, “lecito”, “probabile”, pertanto chi ne fa uso deve disporre dei mezzi affinché “possa esprimerlo“, concretizzarlo. Perfino il Papa (oggettivamente il più sociologo di tutti i Papi) chiama fuori la fede nel caso dell’esclusione sociale, ovvero quella condizione che esclude tutti coloro che non hanno le possibilità materiali e spirituali adatte ad esercitare un potere. Il potere oggi è inteso perlopiù come espressione di comando, di supremazia, di controllo (su di sé e su quanto gira intorno), di sopraffazione psicologica e materiale, perciò siamo esortati a pensare che “volere è potere”. È un’astrazione ambiziosa, e gli esseri umani – strano ma vero – non sono tutti ambiziosi, seppur oggi siamo condizionati ostinatamente (efficacemente) a concepire il contrario. La società è (dovrebbe essere) fatta di individui uguali, con eguali diritti e doveri, ma con diversità interiori, intime, riconosciute e accettate da tutte, e il fatto che oggi l’individualità (che noi confondiamo ormai con l'”individualismo” egoistico) sia continuamente schiacciata dagli stereotipi, non legittima a pensare che non esista. È un’opinione irrazionale, radicalmente errata: fa acqua da tutte le parti.
Il “potere“, inoltre, è oggi sempre più un concetto che concerne al materialismo, al positivismo (che in filosofia sono intesi come tutto ciò che concerne ai problemi “pratici della vita”), al meccanicismo (la vita intesa come movimento spaziale dei corpi, in senso materialistico-meccanico, ovvero il predominio della materia sullo spirito), nonché all’ambizione, alla pre-supponenza, alla presuntuosità. I due termini, “volere” e “potere” non vanno necessariamente d’accordo. “Volere è potere” è una locuzione che esclude implicitamente tutti coloro che non ci riescono.

“Quali sono quindi le conseguenze?”
Gli individui sono spesso portavoce inconsapevoli delle istituzioni, delle influenze, degli interessi incorporati al tessuto economico-sociale. E secondo questo modello sociale, fondato appunto su interessi economici, essi sono esortati a pensare che ognuno debba provvedere per sé, acquistando le soluzioni ai loro problemi da chi li crea, e promette di risolverglieli. Chi non ha reddito, e non può procurarselo poiché non ci sono le condizioni materiali sociali, viene automaticamente escluso dal “cerchio magico” delle soluzioni esposte e pubblicizzate in ogni dove e quando, pertanto ragionevolmente non potrà che esprime frustrazioni; proprio per il fatto che intimamente si considera incapace, di conseguenza tende a somatizzare tali frustrazioni attraverso atti di violenza, psicopatie, disturbi del comportamento in generale, astio e repulsione nei confronti delle istituzioni che «mi hanno abbandonato». L’astensione elettorale dovrebbe far riflettere molti, “riflettere” però in modo più approfondito. I problemi individuali odierni derivano dalla società che ci circonda, e non viceversa: non sono gli individui ad affrontare male la società, ma è la società, così indirizzata, e governata da interessi privati, a mettere a disposizione dei cittadini scelte sbagliate affinché se ne tragga il maggior profitto economico possibile. Ma appunto, sono scelte sbagliate.

Oggi c’è un rimedio a tutto, e tutti consigliano “come si deve essere“, e “cosa si deve fare” per “star meglio“. Ognuno provvede per sé, dimenticando un fatto imprescindibile: viviamo in una comunità, e che le nostre distrazioni, le nostre scelte, e le nostre ambizioni personali, escludono di fatto gli altri membri, ossia coloro che non hanno ambizioni, che non si riconoscono in una società nella quale si è considerati solo se si consuma, se si ha un reddito da spendere e se si ha una marcata attitudine alla competizione, appunto alle ambizioni e alla realizzazione (costi quel che costi) di esse .

“Non bisogna deprimersi, abbattersi, e non dobbiamo utilizzare come alibi il malfunzionamento della società”.

Proviamo a metterci nei panni di chi “vorrebbe“, ma non può.
L’esclusione sociale è una cosa seria, come lo è la depressione. Chi ci è entrato sa quanto si è fragili, e soprattutto inconsapevoli delle proprie potenzialità, quando si è depressi. Di fatto, i suicidi dall’inizio dell’anno sono stati centinaia. Il suicidio è uno dei termometri più efficaci per misurare la febbre a una società. Gli altri sono, nell’ordine, l’occupazione, dunque il livello di povertà, la qualità dell’esistenza pertanto i salari e le disposizioni materiali rispetto al costo di una vita degna, l’inquinamento, lo sfruttamento delle risorse, l’astensione elettorale, e la salute, che è la somma conseguente di tutti i succitati fattori. In un modello economico come questo si riesce a vivere solo se si ha un reddito. Se non si dispone di un salario, conseguentemente anche la vita viene vissuta male, indegnamente.

La società ha una struttura molto più complessa rispetto alle semplificazioni e le generalizzazioni stereotipate che recepiamo attraverso i mezzi di comunicazione. E purtroppo crediamo tutti che le questioni siano o bianche o nere, senza sfumature. Allora, noi siamo tutti uguali quando ci dicono che “volere è potere”, mentre le istituzioni si giustificano dichiarando che non hanno scelta, che “vorrebbero ma non possono”, che “non ci sono alternative” (metodo TINA, escamotage politico utilizzato pesantemente dalla Tatcher in poi: “There Is No Alternative“). Noi, individualmente, “se vogliamo possiamo“, mentre le istituzioni “vorrebbero ma non possono“. Appare almeno un po’ contraddittorio?

Eppure dovrebbe esser facile pensare che la medesima situazione alcuni la vivono in un modo, mentre altri in maniera diversa. Come dovrebbe esser facile sapere che i mali della società derivano da scelte politiche; scelte fondate indubbiamente sul profitto economico. Ma evidentemente non lo è, e io non me la sento di dar la colpa a chi non riesce a comprenderlo, a metterlo a fuoco. Non sono nessuno per giudicare, ma uno sforzo dobbiamo cercare di farlo tutti, insieme, per dare il giusto significato a quanto ci circonda. Guardiamo la società nel suo complesso, dove “non ci è possibile” individualizzare, scaricare sul singolo individuo tutti i suoi mali. Non avrebbe (e non lo ha) alcun senso. In ogni caso, tutti i più grandi studiosi dei fenomeni sociali indicano questo modello di società come un qualcosa di malato, di perverso. Forse allora sbagliano? Se sì, dove e perché? Perché se sbagliano, oggi dovremmo vivere tutti in un paradiso.

La povertà, tra indifferenza, diffidenza e superficialità


Ho, purtroppo, modo di interloquire sempre più spesso con persone che considerano la condizione di povertà l’effetto di un’incapacità esclusivamente personale, una caratteristica di quelle persone che non riescono, giacché non vogliono, a trovare una posizione sociale e quindi a realizzare una vita come quella di tutti gli altri che, invece, riescono a concretizzare perché ne hanno la volontà. Costoro pensano che il mondo sia costituito per una parte da predatori, sciacalli, imbroglioni, astuti, ingegnosi, volenterosi e interessati, di conseguenza immaginano che l’altra sia fatta di ingenui, sprovveduti, imbranati, sfaticati, oziosi, privi di interesse, lamentosi e parassiti. Plagiati quotidianamente da stereotipi, luoghi comuni, banalità e quant’altro capiti di ascoltare o leggere attraverso i media, come dargli torto. E dal momento che “la vita non è fatta solo di media, ma quasi”, il propagarsi di tali preconcetti è inesorabile. A dispetto quindi di quel che conseguentemente una crisi — che nessuno ha voluto — produce, ovvero povertà e degrado sociale, gli indigenti sono tuttavia elaborati come degli incapaci.

È, molto spesso, il povero stesso a ritenersi incapace, non all’altezza delle situazioni e dei problemi che è suo malgrado costretto a fronteggiare. Ed è anche il motivo principale che trascina un individuo alla depressione, e nei casi più estremi anche al suicidio, senza contare le umiliazioni con le quali si scontra ogni giorno e le frustrazioni che ne conseguono. E le umiliazioni sono proprio gli sguardi e i preconcetti di coloro che li considerano degli inetti, per questo ci dobbiamo sentire tutti responsabili nei confronti di chi versa in condizioni di miseria, facendo lo sforzo di comprendere che le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità.

Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in conto alcuni aspetti che una crisi come quella che stiamo vivendo genera: il terreno sul quale camminiamo che si fa sempre più fragile, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali inevitabilmente ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora e che non a tutti riesce facile governare, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e dunque tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche che diventano sempre più difficili da curare a causa della mancanza di risorse economiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.

Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità individuali per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Non esistono soluzioni individuali a problemi che sono di natura sociale. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha l’attitudine di diventare predatori, sciacalli, egoisti, astuti a nostra volta. Una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli “attrezzati”. Pensarlo equivale a essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo altezzosamente il resto del mondo. Coprire gli occhi, tappare le orecchie e turare il naso, durante la nostra corsa sfrenata verso il “successo”, poiché vedere, ascoltare i lamenti e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, non serve a nessuno, se non ad alimentare un egoismo e un’inconsapevolezza sempre più diffusi.

Il problema è che non siamo disposti e disponibili a vedere, ascoltare e sentire; l’uomo non è un essere incline a misurarsi con il “brutto”, con la bassezza umana, ma solo con il bello. È ininterrottamente esortato, sollecitato a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, “silenziosi”, e dunque sempre più irraggiungibili, convinto che ciò possa rendere bella, pulita e silenziosa anche la sua coscienza, tranquillo, sicuro di non aver colpe per le disgrazie altrui con il suo comportamento.

Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto ci si possa spruzzare di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare, classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”.

E poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei “loro” confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, ci vengono allora in aiuto espedienti in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà. Primo fra tutti è il metodo più semplice da adottare e anche il più efficace (non in termini di solidarietà; efficace per placare egoisticamente la nostra coscienza): quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione” si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato, inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.

Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere (vedi violenze e reati diffusi); più il numero dei malati di cancro aumenta, più saremo costretti a non vedere, non ascoltare, e a non sentire l’odore. L’indifferenza, la diffidenza e la superficialità dilaganti con le quali affrontiamo certi argomenti, e con le quali mi scontro ogni giorno, lo attestano chiaramente. E quanto vorrei sbagliarmi…

La solitudine: quell’universo smarrito


La solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile. L’analisi logica e linguistica sono diventati problemi metafisici illusori; la ricerca del “significato” delle cose viene riformulata come ricerca del significato di una singola parola, estraniata, dissociata, isolata dall’insieme. L’universo del discorso e del comportamento si restringe ad un mero adeguamento, nonché rassegnazione, alla risposta pronta, già confezionata e pronta all’uso, fedele alla farsa dell’immagine, dell’apparenza, della facciata di una società frettolosa che tutto lascia alle spalle e nasconde del contenuto, poiché questo non ha più ragione d’essere. È un universo razionale, che blocca ogni “sogno reale” entro i confini, solo in apparenza sconfinati, della sua struttura meccanicista. La domanda, la ricerca, la curiosità, il dubbio, non abitano più l’interno del corpo, ma l’epidermide, l’involucro che separa con sempre più forza, oblia e assopisce con sempre più metodo, le profondità dell’uomo. La solitudine, questa odiosa e spaventosa, ragionevolmente non ha più motivo d’essere considerata, tantomeno mediata, allora tutto muove e scivola sulla superficie ornamentale dell’esistenza. Un rifiuto alla comprensione, alla consapevolezza e all’esperienza, tali che non vogliamo e contemporaneamente non possiamo respingere, poiché il compenso assicurato sembra dare più soddisfazione che non il suo rifiuto stesso. Così la cultura ha luogo su una base materiale di accresciuto appagamento, effimera, come la durata stessa della soddisfazione, che andiamo cercando assiduamente esortati dall’irraggiungibile desiderio di “essere quel qualcosa” dal quale siamo circondati, non più “qualcuno“, che oggi degrada come un semplice materiale logorato e diventato inutile.

La solitudine, che un tempo cercava domande e trovava risposte nelle pieghe dell’anima, oggi è sostituita spensieratamente da strumenti che avviliscono la sua scoperta, l’esplorazione di quell’universo che esiste nelle profondità, in quelle intimità che solo ascoltandole e meditandole hanno almeno una possibilità di emergere.

È vero che il mondo è un mondo spietato e avido, che sfrutta, inganna e mente, e noi siamo gli ingannati che esprimono quest’inganno, di cui impariamo a conoscere le cause, non per farvi fronte e ritrovare la verità dei nostri sogni, ma per adattarci e ingannare, e ingannarci, a nostra volta.

«Vedi la luna su Soho, amor mio?»
«Un giorno ancora, e il giorno fu azzurro».
«Allora era sempre domenica».
«E una nave con otto vele».
«Vecchia luna di Bilbao, laggiù dove ancor abita l’amore».

Da “L’opera teatrale da tre soldi“, di Bertold Brecht

La vita? Uno spettacolo in differita


Nel mondo delle apparenze, dei pregiudizi, delle realtà virtuali, dei sogni, della bellezza estetica, le cose sono ciò per cui si spacciano, prevalgono su ciò che c’è, mentre in realtà non sono e neppure ci sono. L’informazione, la cultura, sono diventati oramai atti di fede, convinzioni, anziché il raggiungimento, la realizzazione di una formazione personale attraverso un percorso ateo, fuori dalle dialettiche delle credenze popolari e dai paradigmi mediatici. Crediamo a tutto e a tutti, purché sia proiettato su uno schermo. La nostra è una cultura delle realtà televisive, virtuali, simulate, attraverso le quali ci viene offerto tutto un campionario di risposte stereotipate, preconfezionate, adatte ad ogni occasione della vita.

Persino la socializzazione è divenuta un atto di fede edificata sulle apparenze.

E viene da gridarlo allora sempre più forte, che questa non è più la realtà, ma uno spettacolo che va in onda ininterrottamente, dove ognuno di noi è il protagonista, l’attore principale della performance che ogni giorno va in onda. Ci comportiamo infatti da protagonisti, esponendo il nostro vissuto con la speranza, la prospettiva che sia osservato, pronto da essere proiettato sui grandi schermi, e così tutto quello che facciamo lo facciamo erigendolo sull’attesa che la nostra performance venga notata e mandata in onda. Non si spiega altrimenti l’eccessiva esibizione delle nostre intimità nei social network come nei programmi televisivi. Viviamo in simbiosi con lo spettacolo. La nostra vita è uno spettacolo che chicchessia può osservare e specchiarcisi.

Di fatto non c’è più neppure bisogno di gridare al complotto, d’ipotizzare che questo sia un modello esistenziale voluto da chissà quali menti dittatoriali, poiché l’unico vero tiranno è lo strumento, il medium in sé. La scienze sociali ci insegnano che l’essere umano apprende e opera prevalentemente per imitazione, per appartenenza (a ceti, gruppi, credo, ecc.), e quelle neurologiche che lo fa attraverso determinati neuroni chiamati, non a caso, “Specchio”. Piazzati davanti agli schermi, dentro i quali l’esibizione dell’intima natura umana è spettacolo — che spazza via l’esibizione del reale tangibile, corporea, diretta (e in diretta), priva di intermediazioni — assumiamo noi stessi le ragioni della spettacolarizzazione, dell’esibizione, dell’esternazione dell’intima individualità, che si perde così inesorabilmente e inevitabilmente nel mondo delle apparenze, delle realtà simulate, del varietà, della commedia, della tragedia della vita. Siamo noi, grazie al medium, che promuoviamo, sosteniamo e prolifichiamo realtà ritardate, mediate, indirette, digitali, create, recitate e proiettate in differita.

Viene dunque da chiedersi che futuro ci attende, dal momento che non esistono più presente né passato, schiacciati entrambi da un imperioso apparente, illusorio. Non esiste più memoria individuale organica, vivente, interiore, ma memoria digitale, catodica, sintetica, esteriore. Sembra che tutto voglia stare sulla superficie, che voglia essere visto, identificato, esibito, ma non riconosciuto, contraddistinto, caratterizzato. Paradossalmente, nonostante frustrazioni e psicopatie dilaghino, non riusciamo più ad interiorizzare. Motivo per il quale non riconosciamo più noi stessi e la realtà che ci circonda. Lo dimostrano i dati delle ultime elezioni: non abbiamo bisogno di capire il mondo, poiché il mondo è già spiegato dalla sempre più massiccia ed efficace propaganda. Non abbiamo bisogno di accresce, costituire e affermare per noi stessi la nostra intima individualità, poiché è all’“esterno”, nell’esibizione, che questa trova il “senso”. Non abbiamo bisogno di cambiare il mondo: è già cambiato; nelle nostre illusioni, nelle nostre convinzioni indotte, negli schermi che abitiamo, nella vita che recitiamo.

Globalizzazione individuale


In fondo, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità in un mondo indirizzato verso la meccanizzazione della vita sociale-lavorativa dell’uomo? I diritti e la libertà, che furono i principi sui quali si era fatto credere di aver fondato l’etica del lavoro, hanno ceduto il passo alla concorrenza economica fra soggetti non egualmente attrezzati e implicitamente esortati ad accumulare capitale da reinvestire a scopo di dominio, del mercato, della forza lavoro, della società stessa. La libertà di pensiero, di parola e di coscienza erano idee sostanzialmente “critiche” che dovevano servire a promuovere e proteggere l’individualità e le libere iniziative che questa implicava, invece oggi stiamo assistendo alla completa soppressione delle identità storico-culturali dei piccoli artigiani, e con esse quelle che compongono la comunità. La globalizzazione economica, ovvero la libera circolazione dei capitali finanziari, ha permesso di creare una rete di dominio che opera mediante la manipolazione dei bisogni e che si estende su tutto il pianeta imponendo percorsi, scelte, abitudini, modelli, con il solo fine di accrescere i profitti di chi detiene le redini del mercato.

Ogni scelta individuale oggi viene fatta in base a giudizi di valore introiettatici dalle pubblicità: bisogni (indotti dal mercato)-vendita (“scelta” dei prodotti sul mercato)-acquisto (soddisfazione dei bisogni)-consumo (esaurimento della soddisfazione); una sequenza ciclica che continua indefinitamente, o almeno “fino ad esaurimento scorte” (vedi foto). Si è perso ogni fondamento logico della tradizionale natura umana in nome di una non ben ancora definita destinazione culturale, oltre quelle del consumo delle risorse e del profitto illimitato, impedendone così l’organizzazione internazionale a favore di un’equa ridistribuzione.

Si stima che entro qualche anno (non è possibile dare un tempo certo data la veloce e progressiva evoluzione tecnologica impiegata in campo industriale) la forza lavoro necessaria alla produzione sarà pari al 20% del totale disponibile; il restante 80% non troverà collocazione nel mondo del lavoro. La meccanizzazione e automazione del sistema produttivo industriale (che annienta il piccolo artigiano a un ritmo vertiginoso) rende inutile, oltre che dispendiosa, la presenza dell’uomo.

Se la strada intrapresa è quella di massimizzare la produzione diminuendone i costi incrementando i profitti, è facile immaginare il futuro che ci attende nel caso in cui questo processo non verrà invertito, o almeno regolato severamente. Allora dobbiamo iniziare a chiederci “criticamente” quali sono le priorità di cui abbiamo veramente bisogno, e quale mondo (e in quali condizioni) vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli.

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Neoliberismo e corruzione

Come si fa a volare con le ali spezzate

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Siamo tutti incapaci


Le difficoltà e gli insuccessi personali non possono (e non devono) essere addebitabili soltanto all’individuo e alle sue incapacità. Insieme a questi aspetti devono essere messi in conto il terreno fragile sul quale camminiamo, i legami umani sempre più sfilacciati e inaffidabili, le difficoltà con le quali ci scontriamo, che questa società malata ci sbatte in faccia senza alcuna remora, l’impraticabilità oggettiva e riconosciuta di alcuni percorsi, e tutta una serie di psicopatie che ne derivano: frustrazione, malattie psicosomatiche, depressione, ansie, angosce, disturbi della personalità, insicurezze, sensi di colpa, di inadeguatezza, rabbia, difficoltà esistenziali.
Quando violenze, corruzione, atti criminosi in generale e suicidi e omicidi aumentano, al di là di ogni ragionevole dubbio significa che le psicopatie presenti nella società aumentano a loro volta.
Non tutti disponiamo dei mezzi e delle capacità soggettive per far fronte al degrado sociale. Non tutti disponiamo delle basi culturali in grado di razionalizzare i problemi con i quali ci scontriamo inevitabilmente, e che la vita non manca mai di ricordarci. Addebitare la colpa al singolo individuo, ai suoi deficit personali, è un esercizio che distoglie la nostra attenzione dal vero problema: una società malata, che ha perso ogni senso di solidarietà, di comunità, nella quale siamo addestrati a rincorrere e incitati a raggiungere il successo personale, che possiamo conseguire solo se si ha la fortuna di avere buone gambe e buoni polmoni: per raggiungere la vetta di una montagna bisogna essere degli ottimi scalatori, e una società, inevitabilmente varia, variegata e variabile come quella nella quale viviamo, non è (e non può essere) composta di soli alpinisti. Pensarlo equivale ad essere convinti di vivere su una montagna, sulla quale dall’alto guardiamo il resto del mondo. Così copriamo gli occhi, tappiamo le orecchie e turiamo il naso durante la nostra corsa verso il “successo”, verso la vetta, poiché vedere, ascoltare e sentire l’odore di chi non ce l’ha fatta rischierebbe di rallentare il nostro passo, nonché di farci rendere conto che potremmo finire come “loro”: gli “incapaci”, quelli che vivono ai nostri piedi. E noi non siamo disposti e disponibili a farlo, non siamo inclini a misurarci con il “brutto”, con la bassezza umana, ma stimolati, sollecitati a seguire modelli sempre più “belli”, “puliti”, alti, e dunque sempre più irraggiungibili, convinti che ciò possa rendere bella e pulita anche la nostra coscienza, tranquilli, sicuri di non avere colpe per le disgrazie altrui con il nostro comportamento.
Eppure, per quanto si possa essere ciechi e sordi, e per quanto possiamo spruzzarci di profumo, i nostri sensi avvertono comunque la presenza dei meno fortunati, che noi, come appunto ci hanno efficacemente insegnato a fare classifichiamo e collochiamo nella categoria degli “incapaci”, poiché il loro numero non fa che aumentare di giorno in giorno, così se a volte ci capita di provare una certa sensazione di pena nei loro confronti e, nei casi più estremi anche una certa empatia, abbiamo bisogno di un espediente in grado di soddisfare e placare momentaneamente il nostro senso di solidarietà, e il metodo più efficace per farlo è quello di ricorrere alle infinite associazioni di solidarietà, cresciute come funghi sul terreno reso fertile e accogliente dall’assenza e la noncuranza dello Stato sociale, cosicché quel misero residuo di solidarietà di cui ancora disponiamo possa trovare un canale di sfogo e soddisfazione attraverso di esse. Ma la solidarietà “su commissione”, si può paragonare a una dose di aspirina somministrata a un malato di cancro, o a un’etto di prosciutto dato in pasto a un leone che non mangia da mesi: inutile. Inutile al malato; inutile al leone, ma perfetto come alibi per la nostra coscienza.
Si potrebbe quasi dire che, per far sì che una società malata come questa funzioni, se non ci fossero gli “incapaci”, bisognerebbe inventarli.
Dimentichiamo, però, che più alta è la vetta che si prospetta davanti a noi, più la mancanza di ossigeno durante la nostra corsa si farà sentire, e più il numero dei leoni affamati aumenta, più il numero delle vittime sbranate da essi sarà destinato a crescere. Allora, non ci resta che ammettere a noi stessi, una volta per tutte, di essere degli incapaci.

Identità


“Avere un’identità significa rifiutare di essere collocati in “tipi” o “categorie” e scardinare ogni categoria entrò i cui confini intendono ridurci coloro che elaborano le “tipologie”. “Individualità significa non sentirsi completamente a proprio agio in nessuna casella definita”.