Far vedere. Rendere presente. Connessioni. Costruzione di testi. Messa in scena. Messaggi. Corpo immateriale. Parola virtuale. Reti. Immagine. Danza rituale del video. Socializzazione. Rappresentazione tribale. Artificio. Materiali espressivi. Realtà piegata. Realtà costruita. Realtà artificiale. Sentimenti piegati. Sentimenti costruiti. Sentimenti artificiali.
Sono tutte parole, concetti, assunti nuovi, attuali, che noi tutti affrontiamo quotidianamente, anche senza volerlo; soprattutto senza saperlo. Cosa è cambiato, e cosa sta cambiando? Il mezzo come strumento semplificativo della vita è diventato il mediatore rappresentativo della vita: viviamo attraverso il mezzo, dentro il mezzo; il mezzo ci trasforma, sostituisce, insegna la vita. Non impariamo più la vita per utilizzare il mezzo, ma attraverso il mezzo impariamo la vita.
La dialettica soggetto-individuo/oggetto/società/comunità/natura si svolge sempre più sulla superficie, sull’aura del prodotto di consumo, rivelando che tutto è mutazione, alterazione, sostituzione, manipolazione, dentro cui la realtà materiale può essere rappresentata, riprodotta, inscenata, realizzata artificialmente. Prima essa è una realtà prodotta con ancora sostanziali legami con il mondo naturale, infine è una realtà prodotta attraverso oggetti che mirano ad escludere ogni nesso sostanziale, materiale, con la natura.
La realtà è dunque il “soggetto” nel suo abitare le immagini, che esso produce per dar senso a se stesso e alle cose. Immagini, si badi bene, non nel senso distintivo di linguaggi iconici, ma più esattamente di rappresentazioni artefatte, contraffatte, eretiche, infedeli alla comprensione ancestrale dell’immaginazione della realtà. Siamo finiti nella civiltà della realtà artificiale. La immaginiamo, viviamo, rappresentiamo: la rendiamo reale. Tanto reale da escluderla vivendola.
Ne risente così la percezione quotidiana delle cose, il senso che attribuiamo alle persone, ai ricordi, alle immagini, conferendo loro sentimenti di prossimità, affinità, relazione, o di distanza, distacco, assenza. E più questo processo surrogatorio si compie, per effetto stesso della sua logica di sviluppo, più cresce anche l’artificializzazione del mondo, e con essa crescono le mediazioni tra il soggetto e la natura, con la conseguente riduzione della partecipazione/presenza simbolica della natura: non si consuma più qualcosa che deve produrre l’effetto della realtà, ma produciamo noi stessi qualcosa da consumare immediatamente come realtà.
Quanto più la macchina degli artifici cresce, tanto più potente, intensa, s’è fatta la percezione intima dei limiti. Limiti che non dipendono più dall’individualità, dalla conoscenza, dalla scoperta e comprensione della nostra personalità, ma dall’intendimento che si ha della conoscenza stessa. È il quotidiano rincorrere la propria identità a separarci da essa. Una lotta tra individuo e artificio che richiama in noi scene primordiali, antiche paure, ignoti smarrimenti: chi siamo? Da dove veniamo? Che cosa ci facciamo qui? Dove stiamo andando? Perché? Domande in metamorfosi: Sono io questo? Chi desidero essere? Da dove desidero essere venuto? Dove desidero andare? Chi, o cosa, chiarisce i miei perché?
Questa, è la civiltà delle realtà artificiali.