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LE PROTESTE SONO DAVVERO COSÌ RIDICOLE?


Dunque, a me questa storia che chi manifesta contro Green Pass e misure anti-Covid siano da ritenersi tutti imbecilli, frustrati, ignoranti, sgrammaticati, terroristi, rivoltosi, e vittime delle Fake News, avrebbe anche un po’ stancato.

Intanto vorrei capire allora per quale motivo, se vengono considerati così incapaci, lo Stato non dovrebbe prendersene la responsabilità ammettendo le proprie colpe. Se la popolazione, che tu fino a quel momento hai guidato, educato e formato, non fa altro che scendere in piazza per manifestare il proprio dissenso (non importa di che natura) aumentando sempre di più la sfiducia nei tuoi confronti, significa che non hai fatto bene il tuo lavoro di governo. Deve essere chiaro prima di ogni altro aspetto questo punto.

Insomma, seguitare a dare dell’inetto al tuo popolo è come darlo implicitamente a se stessi. E non si comprende come persistendo con questa pratica si possa pensare di migliorare la condizione sociale generale. Anzi, la si peggiora gradualmente, perché creando un gruppo di dissidenti senza accollarsi alcun onere, e oltretutto reprimendola con ogni mezzo come fosse l’unico vero male della società arrivato dal nulla, non fa altro che aumentare disagi e frustrazioni anche in chi non fa parte di quella categoria, perché costretto in ogni caso a scontrarcisi.

Il problema fondamentale è che ci hanno apparecchiato davanti una società nella quale a vincere e a dominare crediamo essere colui che ne sa più di degli altri. Siamo esortati a competere l’uno contro l’altro e l’unico requisito richiesto per partecipare al confronto è quello di saper ammucchiare il più possibile informazioni dalle quali siamo letteralmente bombardati, e che sono sempre più vaste, infinite e contraddittorie.

I Media si sperticano in ogni modo per etichettare i “rivoltosi” come violenti e ignoranti, e chi ascolta passivamente non può fare altro che “scegliere” di stare da una parte o dall’altra. Quel che è certo è che non vengono dati margini per sollevare dubbi.

E il surplus di informazioni che riceviamo ci dà anche la ragione di sentire il bisogno di dire la nostra su argomenti e materie che non dovrebbero competerci.

Una gara a chi ne possiede di più, messi però nella condizione di saper apprendere sempre meno a causa del degrado educativo nel quale siamo stati infilati. Un po’ come fare un corso di chirurgia online e pretendere di saper effettuare subito dopo un trapianto di cuore.

Paradossalmente essere bombardati da informazioni che non trovano mai fine ci spinge all’interno di una megalomane presunzione, la quale ha come unico interesse quello di alimentare il proprio egocentrismo.

Oggi chi ha le basi per stabilire cosa è giusto e cosa non lo è? Tutti, di conseguenza nessuno. Le informazioni sono trasversali, di qualunque natura e materia, molteplici, differenti, discordanti e raggiungono chiunque e in ogni parte del mondo. Tutti sentono il bisogno di manifestare il proprio parere, il proprio dissenso, le proprie convinzioni, rafforzate puntualmente da algoritmi che seguono le nostre preferenze. Ci convinciamo di cosa è giusto e cosa non lo è proprio in proporzione alle conferme che ci vengono costantemente suggerite e che invadono la nostra vita. Convinzioni che a nostra volta rilanciamo dai nostri social; o sarebbe meglio dire “palcoscenici“.

Veniamo orientati scientemente e in maniera coerente verso le nostre convinzioni, pur non avendo queste nessuna sensatezza. E allora viene da chiedersi: chi regola questi algoritmi?

Se è il popolo a regolarne la condotta significa che tutto è lasciato nell’abbandono più totale. E in questo caso allora chi avrebbe lasciato tutto nelle mani del popolo? E perché?

La mancanza di controllo, di istituzioni dedite alla formazione culturale del popolo, sono elementi basilari che una società organizzata non può permettersi di perdere. E i risultati di questa assenza sono diventati così evidenti che si fa fatica a credere che siano veritieri per quanto incredibili. È una realtà talmente assurda da far perdere completamente la vista.

Chi guida il nostro cammino e verso quale direzione? Se davvero un algoritmo asseconda incessantemente le nostre preferenze per soddisfare interessi di mercato, chi ci insegna a controllare la nostra impulsività rispetto alle scelte che facciamo?

Nessuno.

Siamo prigionieri delle nostre stesse convinzioni, che per avere ragione hanno la sola necessità di essere rafforzate. Così ci circondiamo di altri che la pensano come noi. Si creano quindi fazioni, gruppi, correnti, partiti, movimenti e perfino sette.

Dove manca organizzazione sociale, dove mancano le condizioni sociali favorevoli, affinché un individuo possa affermarsi consapevolmente e trovare la propria posizione nella società, per sentirsi parte importante di un’intera popolazione, allora manca una guida, ed è inevitabile che in un tempo più o meno lungo il degrado faccia il suo corso.

E succede quello cui stiamo assistendo tutti, ma che la maggior parte degli spettatori ormai giudica in forza alle proprie convinzioni.

È così che finiamo banalmente per andare gli uni contro gli altri. Mentre chi governa può continuare indisturbato a fare i propri affari.

Ritengo che giudicare insensate le manifestazioni di questi ultimi mesi sia totalmente sbagliato. Si vogliono considerare incivili? Allora dovrebbe venire spontaneo chiedersi chi ha “educato” all’inciviltà tutte queste persone. E non chiederselo ci inquadra automaticamente nel gruppo contrapposto. In ogni caso, prendersela con chi ha un pensiero discordante con il nostro rivela di noi la stessa personalità di chi stiamo giudicando, e alla fine ce la prendiamo con le persone sbagliate.

Ma qui, in questo momento, non abbiamo bisogno di avere ragione o torto, come generalmente fanno i bambini che litigano e si fanno i dispettucci.

I popoli che scendono in piazza non sono degli inetti. Hanno le loro ragioni, che seppure dovessero essere irragionevoli hanno trovato nel tempo supporto e linfa vitale grazie ad un governo assente e insoddisfacente.

Questa battaglia, che viene condotta contro il malcontento e che si desidererebbe sopprimere a colpi di dati, spiegazioni, informazioni, non la vincerà mai nessuno, perché l’unico modo per interromperla risiede nella comprensione, e nella consapevolezza che il degrado è generato dalla mancanza di condizioni sociali favorevoli all’affermazione economica e alla crescita culturale dell’insieme degli individui intesi come popolo. Il modello sociale che viviamo impone di considerare questi aspetti. Invece le disuguaglianze economiche e sociali aumentano a dismisura.

Non possiamo pensare di sopprimere metà popolazione semplicemente perché la riteniamo inetta. Ed è a questo invece che molti anelano. Da una parte, e dall’altra. E siamo tutti pronti ad abbattere il nemico a colpi di informazioni, di articoli, di dati, di immagini, a supporto delle nostre ragioni, che riteniamo reali nella stessa misura in cui giudichiamo reali le nostre convinzioni.

Certo, pensare di far cambiare idea agli altri imponendo loro le nostre ragioni attraverso frasi e concetti che alle nostre orecchie sembrano insindacabili e meravigliose, è alquanto egocentrico. Va ammesso.

E il bello è che alla fine siamo tutti bravi a dire che ci manipolano, salvo poi precisare che i manipolati sono sempre gli altri. Invece nessuno è esente da questa pratica. Tutti i popoli del mondo sono manipolati, condotti verso una direzione più o meno giusta, e questo dipende unicamente da chi li governa.

Per concludere, quindi, se non si è d’accordo con chi manifesta il proprio malcontento, l’unico rimedio da adottare è quello di andare a risvegliare la nostra comprensione. Non giudicare, ascoltare in silenzio, ammettere i propri limiti. Insomma, bisognerebbe cercare di essere un po’ più umili.

Yara, Riforme e Mondiali: quando la rivoluzione è un palcoscenico


Se il principale partito italiano, il PD (sic!), è legato a una potenza straniera, l’America, e a una europea, la Germania, che offrono l’esempio di un regime sempre meno edificante, ciò che sorprende non è l’affievolirsi della passione rivoluzionaria, che al contrario viene confezionata e presentata al popolo consumatore di slogan come la più passionale delle rivoluzioni in atto dal dopoguerra ad oggi, ma invece la fedeltà, nonostante tutto, dei restanti (pochi) milioni di elettori al partito che pretende di essere l’unico erede delle speranze rivoluzionarie.

Nella quotidiana e perpetua discussione mediatica, ora su quel provvedimento ora sull’altro, quel che non manca mai sono proprio quegli elementi che rendono la vita politica del Paese immobile, stantia, antipatica, oltre che socialmente molesta, irritante, frustrante. Ci si chiede giornalmente quali sono i motivi che hanno trascinato i cittadini verso una disaffezione cronica nei confronti della realtà sociale e politica senza mai, naturalmente, provare a darsi una risposta definitiva e con questa, da questa, conseguentemente ripartire daccapo rimuovendoli per far sì che le proteste, espresse più che chiaramente col non-voto, siano finalmente ascoltate. Invece, l’imbroglio del 40,8% di elettori che rappresentano un esiguo 23,7% della popolazione elettorale con diritto di voto, viene spacciato ingegnosamente come la maggioranza assoluta del popolo italiano, dalla quale trarre prepotentemente legittimità per appropriarsi indebitamente dei bisogni e delle richieste angosciate di coloro che non ce la fanno più a sopportare questo ridicolo e deleterio gioco psicologico delle parti, dove a chi dice bianco viene contrapposto chi afferma il nero, con un rimpallo di responsabilità infinito, senza mai arrivare a niente, senza mai risolvere niente, se non a garantire l’inattaccabilità e la prosecuzione indisturbata degli affari e delle ambizioni dei singoli attori che prendono parte alla commedia drammatica che è diventata la politica e la società tutta.

Le riforme si fanno in Tv e, si badi bene, non solo negli ormai classici e sempre più avvalorati talk-show, ma anche nelle fiction, nel cinema, nei social, nei blog, nei giornaletti di gossip, durante partite di calcio (i Mondiali in corso sono il palcoscenico per eccellenza dove tutti fanno a gara per dichiararsi ipocritamente parte di una comunità), nei romanzi, nelle manifestazioni di ogni tipo, e in tutto il possibile da spremere e da sfruttare come palcoscenico per presentare ognuno la propria riforma, non in atto, ma rappresentata, appunto. Solo rappresentata. La povera Yara, insieme con tutti i suoi familiari, è vittima 1 milione di volte in questo sporco gioco dei meriti e delle conoscenze forensi, sociologiche e psicologiche dell’assassino che si nasconde nell’abitazione accanto alla tua o fra le quattro mura che si abitano. Una cannibalizzazione degli spazi mediatici e di un protagonismo di competenze (incompetenti e indelicate) che non competono a nessuno al di fuori degli addetti al lavoro specifico del caso specifico, e che purtroppo ha dei precedenti e avrà dei seguiti sempre più esaltati ed esaltanti. E come in ogni circostanza, fatta diventare volutamente di grande impatto mediatico affinché s’intrattengano le attenzioni del pubblico, si deve offrire a quest’ultimo — che subisce — un capro espiatorio, che in questo caso è incarnato dal Ministro Alfano che incastra l’assassino e si prende i meriti, così da condannare implicitamente tutti coloro che hanno pensato si fosse trovato “finalmente” un colpevole, e il presunto assassino stesso, che anche se non fosse lui lo sarà comunque a vita nell’immaginario collettivo. Morale?

Perché ormai è così, dai piani alti, di qualunque settore si tratti, basta dire insistentemente che si sta facendo qualcosa perché questo diventi virale, quindi reale, effettivo, e se qualcuno prova dire che così non è, basta semplicemente ribadire che così invece è, e il gioco del contraddittorio continua indefinitamente, sulla pelle di coloro che di questo genere di intrattenimento mediatico, sponsorizzato e pagato profumatamente dalle aziende che nel frattempo devono vendere i loro prodotti di consumo, ne ha piene le scatole. E che ne ha piene le scatole lo esprime da anni non esercitando il diritto di voto, poiché sa quanto sia diventato inutile, infruttuoso, esercitarlo, forte dei reiterati scandali e corruzioni che ogni giorno la magistratura scoperchia in ogni settore e anfratto della società, ma soprattutto ai piani alti, da dove si “amministra” il Paese.

Dal 2008, anno in cui la crisi economica ha iniziato a fare vittime, il numero dei super-ricchi a livello mondiale è ininterrottamente aumentato: da 8,6 milioni di individui si è passati agli oltre 12 milioni del 2012. Negli Stati Uniti il 10% della popolazione detiene l’85% della ricchezza economica complessiva. C’è un problema di redistribuzione della ricchezza che non può più passare inosservato. Mentre gli animali da palcoscenico, negli interminabili dibattiti, discutono su come affrontare i problemi causati dalla crisi, ma non su quelli che hanno causato quest’ultima, la rivoluzione individualista continua imperturbabile, prepotentemente ostinata sul suo cammino: smantellare lo Stato Sociale per far posto a quei gran geni dei privati, gli stessi che ci hanno impantanato in questo grazioso stato di incoscienza, dove ognuno pensa per sé, nel suo mondo virtuale, ai suoi sogni, desideri, alle sue aspirazioni, che si segregano sempre più nella fantasia, comprensibilmente, non trovando altre valvole di sfogo. E sembra essere proprio questo il futuro che ci attende: mentre fuori, la realtà, con tutti i suoi annessi e connessi, ovvero le socializzazioni, le relazioni, le esperienze, le comunità, eccetera, si va sfaldando sempre più, non resterà altro da fare che aggrapparsi alla costruzione virtuale di essa, sostituendola definitivamente a quella effettiva in carne e ossa, e chissà se poi sarà tanto meglio o tanto peggio. Quel che è certo, è che non sarà mai come la realtà con la quale l’uomo ha sempre fatto i conti. Mi chiedo perciò come possano tornare i conti in una realtà simulata, se in quella in cui noi tutti eravamo abituati a vivere non trovano risultato. E le realtà, si sa, per quanto si faccia fatica ad accettarlo, cozzano sempre l’una con l’altra. Specialmente quando quelle dei paesi vicini, che l’occidente continua a invadere attribuendosene la paternità quando c’è da sfruttare e distruggere, ma ignorandola quando c’è da soccorrere, cercano rifugio nella nostra.

Allora non rimangono che due prospettive per il futuro dell’umanità. La prima è la manna dal cielo: aspettando che la buona fortuna o che altri appianino per noi le difficoltà, e la seconda, quella più probabile e non meno auspicabile, stando ai fatti, è che arrivi il colpo di grazia, cosicché ai costretti a subire le incapacità dei governanti siano abbreviate le sofferenze dell’agonia.

Chissà come sarà il futuro… Nessuno di coloro che dirigono — meglio, fa finta di dirigere — la baracca lo disegnano mai, ma lascia a ognuno di noi la facoltà di idearlo, e non meno idealizzarlo, di modo che tutti possano raggiungerlo senza raggiungerlo o identificarlo mai veramente, collettivamente, come una comunità.

A proposito, non so quanto “Pepe” Mujiha, lo straordinario Presidente dell’Uruguay, non la squadra di calcio, ma lo Stato, segua il calcio; spero quanto me, e allora: forza Uruguay! In tutti i sensi.

La civiltà delle realtà artificiali


Far vedere. Rendere presente. Connessioni. Costruzione di testi. Messa in scena. Messaggi. Corpo immateriale. Parola virtuale. Reti. Immagine. Danza rituale del video. Socializzazione. Rappresentazione tribale. Artificio. Materiali espressivi. Realtà piegata. Realtà costruita. Realtà artificiale. Sentimenti piegati. Sentimenti costruiti. Sentimenti artificiali.
Sono tutte parole, concetti, assunti nuovi, attuali, che noi tutti affrontiamo quotidianamente, anche senza volerlo; soprattutto senza saperlo. Cosa è cambiato, e cosa sta cambiando? Il mezzo come strumento semplificativo della vita è diventato il mediatore rappresentativo della vita: viviamo attraverso il mezzo, dentro il mezzo; il mezzo ci trasforma, sostituisce, insegna la vita. Non impariamo più la vita per utilizzare il mezzo, ma attraverso il mezzo impariamo la vita.

La dialettica soggetto-individuo/oggetto/società/comunità/natura si svolge sempre più sulla superficie, sull’aura del prodotto di consumo, rivelando che tutto è mutazione, alterazione, sostituzione, manipolazione, dentro cui la realtà materiale può essere rappresentata, riprodotta, inscenata, realizzata artificialmente. Prima essa è una realtà prodotta con ancora sostanziali legami con il mondo naturale, infine è una realtà prodotta attraverso oggetti che mirano ad escludere ogni nesso sostanziale, materiale, con la natura.

La realtà è dunque il “soggetto” nel suo abitare le immagini, che esso produce per dar senso a se stesso e alle cose. Immagini, si badi bene, non nel senso distintivo di linguaggi iconici, ma più esattamente di rappresentazioni artefatte, contraffatte, eretiche, infedeli alla comprensione ancestrale dell’immaginazione della realtà. Siamo finiti nella civiltà della realtà artificiale. La immaginiamo, viviamo, rappresentiamo: la rendiamo reale. Tanto reale da escluderla vivendola.

Ne risente così la percezione quotidiana delle cose, il senso che attribuiamo alle persone, ai ricordi, alle immagini, conferendo loro sentimenti di prossimità, affinità, relazione, o di distanza, distacco, assenza. E più questo processo surrogatorio si compie, per effetto stesso della sua logica di sviluppo, più cresce anche l’artificializzazione del mondo, e con essa crescono le mediazioni tra il soggetto e la natura, con la conseguente riduzione della partecipazione/presenza simbolica della natura: non si consuma più qualcosa che deve produrre l’effetto della realtà, ma produciamo noi stessi qualcosa da consumare immediatamente come realtà.

Quanto più la macchina degli artifici cresce, tanto più potente, intensa, s’è fatta la percezione intima dei limiti. Limiti che non dipendono più dall’individualità, dalla conoscenza, dalla scoperta e comprensione della nostra personalità, ma dall’intendimento che si ha della conoscenza stessa. È il quotidiano rincorrere la propria identità a separarci da essa. Una lotta tra individuo e artificio che richiama in noi scene primordiali, antiche paure, ignoti smarrimenti: chi siamo? Da dove veniamo? Che cosa ci facciamo qui? Dove stiamo andando? Perché? Domande in metamorfosi: Sono io questo? Chi desidero essere? Da dove desidero essere venuto? Dove desidero andare? Chi, o cosa, chiarisce i miei perché?

Questa, è la civiltà delle realtà artificiali.