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Coronavirus: la regola del silenzio


Indosso la mascherina perché la struttura organizzativa dello Stato di cui faccio parte ritiene sia necessaria per limitare il diffondersi del Covid-19. Questo non implica necessariamente che si debba essere d’accordo con questa prescrizione, fermo restando che personalmente lo sono.
Non ho problemi a coprirmi mento, bocca e naso perché ritengo che le privazioni delle libertà individuali siano da identificare altrove.

Scaricare l’App Immuni è facoltativo, non un obbligo, pertanto tutte le discussioni in merito alla questione sono totalmente inutili.

Non mi sento controllato da nessuno, e sono abbastanza sereno ad ammettere che tra “essere comandati” ed “essere governati” c’è una profonda differenza: le società, in tutta la storia dell’uomo, non sono mai state, e mai lo saranno, esentate da organizzazioni atte alla formazione dei popoli. Possono essere giuste o sbagliate, certamente è irrazionale determinarlo sulla base di un obbligo come quello di indossare una mascherina.

Non mi spertico in congetture giuridiche o mediche perché nessuno in tutta la mia esperienza di vita mi ha mai fatto sentire migliore di altri, e soprattutto perché sono profondamente consapevole che se avessi voluto o potuto avventurarmi sulla strada verso uno dei due ambiti avrei dovuto necessariamente studiare. Non l’ho fatto. Taccio perlopiù. Questo non significa che mi senta inferiore, no, significa accettare le competenze e rispettarle.

Riesco a vivere senza paura, con apprensione sicuramente e molta prudenza, perché i pericoli durante il viaggio della vita sono ovunque, da sempre. Questo non debilita il mio stile di vita, anzi, lo fortifica e mi spinge a cercare soluzioni sempre più adatte a semplificare la mia vita e quella della mia famiglia: ciò che è necessario stimola la creatività, e la creatività è una risorsa. Sentirsi impotenti, abbattuti e frustrati è la conseguenza alla convinzione di poter battere tutti e tutto. Non siamo delle creature mitologiche. Non siamo indistruttibili. Abbiamo tutti delle debolezze, e soprattutto deficienze.

Se tutto questo pensi possa condizionare il giudizio che gli altri hanno di te allora dovresti seriamente iniziare a chiederti perché vivi la tua vita sprecando tempo concentrando la tua attenzione su questo, piuttosto che spostarla sul rispetto di semplici norme che, onestamente, non limitano il tuo comportamento ma lo modificano soltanto.

Se sei dell’idea che indossare la mascherina sia un’imposizione sbagliata nessuno ti impedisce di pensarlo, non è illegittimo avere idee diverse. Diverso è imporre concretamente il tuo pensiero sugli altri, che osservano banalmente regole e leggi. Ed il rispetto verso gli altri affonda le sue radici nel terreno delle regole del vivere in comune: non viviamo su un’isola deserta, e non facciamo parte di società anarchiche.

L’unica cosa che dannatamente mi preoccupa è questo delirante accanimento praticato sui social media da parte di tutti. Siamo tormentati dal pensiero di essere controllati, ma al tempo stesso non facciamo altro che esporre quanto di più intimo abbiamo: i nostri pensieri. Non esistono più vergogna, riserbo, modestia, e prevale sempre più la convinzione di poter fare e dire tutto quello che ci passa per la testa senza considerare minimamente che questo modo di essere è l’equivalente di quel che contestiamo attraverso le nostre ossessive esternazioni. È un paradosso talmente lampante che sfugge alla comprensione con la stessa velocità con la quale si presenta. Ci mettiamo in mostra, raccontiamo le nostre giornate nei minimi dettagli, mostriamo chi siamo, cosa pensiamo e cosa facciamo a chiunque, ma al tempo stesso ci dichiariamo succubi di un governo che ci spia, proiettando però sugli altri difetti che appartengono a noi. Non vogliamo seguire le regole però ci lamentiamo se gli altri non seguono le nostre. Tutto ciò è inquietante.

L’inutilità del superfluo, dell’effimero, era ciò cui tutti, chi più e chi meno, profondamente aspiravamo. Il desiderio di riscoprire abitudini e valori, abbandonati a causa del tempo che “preferivamo” impiegare consumando l’inessenziale, è svanito nel nulla, disperso come polvere nel vento, e siamo dunque tornati a consumare pensieri e vita, immersi nel vuoto che lascia questa perpetua perdita di intimità. E insieme alle nostre intimità la nostra dignità.

Ora, sei contro la mascherina, la dittatura mediatica, quella politica (o di una certa politica a tuo giudizio), il sistema giudiziario, quello sanitario, le Forze dell’Ordine, e chissà cos’altro? Bene, fonda un partito e fatti votare, ottieni la maggioranza in parlamento, governa e cambia la società a tua immagine e somiglianza. Perché questa è la democrazia. Sì, proprio quella che tu reclami a gran voce in ogni dove. Ed è l’unico strumento a tua disposizione in grado di realizzare la tua visione della vita. Nel frattempo però rispetta le regole in corso. E se ritieni che questo governo sia illegittimo ripeti il procedimento sopra, perché se insisti allora significa che ti è poco chiaro il concetto. Oppure, se reputi difficoltoso e dispendioso tutto ciò, ingegnati, magari cominciando a supporre di non essere al di sopra di tutti, e su quel principio iniziare il percorso per essere qualcuno. Non uno qualunque: un individuo. E un individuo non si misura sulla base della sua popolarità, bensì sulle sue profondità. Esattamente quelle che incessantemente, ossessivamente sbatti fuori da te stesso invece di curarle e custodirle.

E comunque ogni tanto taci, che male non fa in tutta questa confusione.

Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner. (1ª parte)


«Wir arme Leute…», “noi povera gente”. È ciò che dice Wozzeck nel corso del primo atto dell’opera, mentre canta difendendosi contro le accuse di indecenza e impudicizia che il Capitano e il Dottore gli scaricano addosso. Wozzeck ha fallito nel vivere secondo gli standard di decenza e decoro che il Capitano e il Dottore hanno fissato. Quegli standard che credono di rispettare e a cui chiedono che tutti gli altri obbediscano; questo almeno è ciò che hanno dichiarato il Capitano e il Dottore, i quali scherniscono Wozzeck, lo deridono e lo oltraggiano per il fatto che, in modo così stridente, “non è come loro”. Lo incolpano della sua bassezza, della sua grossolanità e volgarità come di un peccato abominevole e imperdonabile. «Wir arme Leute», «noi povera gente – replica Wozzeck – non potremmo vivere come voi, per quanto appassionatamente tentassimo di farlo. Nel gioco del vizio e delle virtù, le regole sono state stabilire da voi e da quelli ‘come voi’, ed è per questo che trovate facile seguirle; ma lo trovereste difficile se foste poveri come lo siamo ‘noi, povera gente’». Vi prego di notare che Wozzeck dice “wir” (noi), non “ich” (io)! In altre parole: “Quello di cui mi rimproverate – avrebbe potuto spiegare – non è una mia colpa ‘personale’. Non sono soltanto io che non rispetto gli standard che avete stabilito. Ci sono molte altre persone fallite come me. E biasimandomi, biasimate tutte queste persone, tutti noi“.
Ma chi sono quei “noi” che Wozzeck chiama in sua difesa? Wozzeck non si riferisce a una classe, a una razza, a un’etnia, a una fede, a una nazione. Non fa riferimento a nessuno di quei nomi generalmente invocati, che presumono in modo tacito o che dichiarano rumorosamente di essere delle comunità; gruppi che ritengono di essere uniti (bene o male) dal passato comune, dalla presente condizione e dal destino futuro, dalle poche gioie e dai molti dolori, dai pochi colpi di fortuna e dalle molte disgrazie. Quei gruppi che richiedono ai propri membri la lealtà, che nascono proprio sulla base di questa lealtà, e che risorgono quotidianamente grazie alla dedizione continua dei propri membri. Quei gruppi che si aspettano che ognuno dei propri membri condivida la responsabilità per il benessere di ogni altro, e che si combatta insieme per ovviare alle cattive condizioni di ciascuno. Quei gruppi che sanno chi è un membro (“uno di noi“), e chi non lo è (e che dunque è “uno di loro“), che tracciano un confine tra “noi” e “loro” e cercano con ogni mezzo di controllare il traffico al confine. Nel riferimento di Wozzeck a “wir arme Leute“, questa comunità è presente solo come un fantasma: presente attraverso la sua (deplorevole, incresciosa) “assenza“. Ma vi prego di notare che nell’opera di Georg Büchner quel che più importa non sono i pochi, sobri discorsi di Wozzeck, ma i suoi eloquenti silenzi, ampi e raramente interrotti. È come se Wozzeck obbedisse all’ingiunzione di Wittgenstein: “di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere“. Della “comunità” Wozzeck tace, dal momento che non è mai esistita e non esiste comunità di cui potrebbe parlare. E così, nella sua disperata ricerca di scuse e di qualche forma di autodifesa, ha preferito invocare la povera gente, “arme Leute“. “Arme Leute” non forma una comunità. La miseria di chi ne fa parte, piuttosto che unire, differenzia e divide. La povera gente sopporta le proprie sofferenze individualmente, e individualmente viene accusata per le proprie sconfitte e miserie (individualmente causate e individualmente sofferte). Ciascuno degli appartenenti alla povera gente è piombato nella categoria “arme Leute” a causa delle proprie colpe individuali, e ognuno e ognuna si lecca le proprie ferite da solo. Arme Leute può invidiare o temere gli altri; a volte può provare pena, o può darsi perfino che apprezzi qualcun altro (sebbene non troppo spesso). Nessuno che ne fa parte, però, “rispetterebbe” mai un’altra creatura “come lui” (o come lei). Infatti, se quest’altra persona è “come” sono io, allora anch’essa non sarà degna di rispetto, meriterà disprezzo e derisione come li merito io! Arme Leute ha una buona ragione per rifiutare di concedere rispetto e, a sua volta, per non attendersi di essere rispettata: la sua povertà, la sua mancanza di risorse materiali e dunque anche spirituali, che segnalano privazione materiale e condizioni indubitabilmente miserabili e dolorose, sono infatti delle tracce indelebili e una vivida prova della mancanza di dignità e di rispetto sociale. Testimoniano che coloro che detengono l’autorità, la gente che ha il potere di concedere o revocare diritti, ha rifiutato di assicurargli i diritti dovuti agli altri esseri umani “normali“. Se solo il nome che Wozzeck ha potuto usare quando si è riferito agli “altri come me” è stato arme Leute, noi povera gente, allora, in maniera indiretta, che ne sia stato consapevole oppure no, ha palesato la sua esclusione dalla famiglia degli esseri umani “normali“, e allo stesso tempo il suo esilio dalle comunità che conosceva e da cui era conosciuto, e il fatto che non avesse né un invito a raggiungerne un’altra né la prospettiva che gli venisse concessa l’ammissione a un’altra comunità.

(Fine 1ª Parte) (Parte seconda)