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OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

LE PROTESTE SONO DAVVERO COSÌ RIDICOLE?


Dunque, a me questa storia che chi manifesta contro Green Pass e misure anti-Covid siano da ritenersi tutti imbecilli, frustrati, ignoranti, sgrammaticati, terroristi, rivoltosi, e vittime delle Fake News, avrebbe anche un po’ stancato.

Intanto vorrei capire allora per quale motivo, se vengono considerati così incapaci, lo Stato non dovrebbe prendersene la responsabilità ammettendo le proprie colpe. Se la popolazione, che tu fino a quel momento hai guidato, educato e formato, non fa altro che scendere in piazza per manifestare il proprio dissenso (non importa di che natura) aumentando sempre di più la sfiducia nei tuoi confronti, significa che non hai fatto bene il tuo lavoro di governo. Deve essere chiaro prima di ogni altro aspetto questo punto.

Insomma, seguitare a dare dell’inetto al tuo popolo è come darlo implicitamente a se stessi. E non si comprende come persistendo con questa pratica si possa pensare di migliorare la condizione sociale generale. Anzi, la si peggiora gradualmente, perché creando un gruppo di dissidenti senza accollarsi alcun onere, e oltretutto reprimendola con ogni mezzo come fosse l’unico vero male della società arrivato dal nulla, non fa altro che aumentare disagi e frustrazioni anche in chi non fa parte di quella categoria, perché costretto in ogni caso a scontrarcisi.

Il problema fondamentale è che ci hanno apparecchiato davanti una società nella quale a vincere e a dominare crediamo essere colui che ne sa più di degli altri. Siamo esortati a competere l’uno contro l’altro e l’unico requisito richiesto per partecipare al confronto è quello di saper ammucchiare il più possibile informazioni dalle quali siamo letteralmente bombardati, e che sono sempre più vaste, infinite e contraddittorie.

I Media si sperticano in ogni modo per etichettare i “rivoltosi” come violenti e ignoranti, e chi ascolta passivamente non può fare altro che “scegliere” di stare da una parte o dall’altra. Quel che è certo è che non vengono dati margini per sollevare dubbi.

E il surplus di informazioni che riceviamo ci dà anche la ragione di sentire il bisogno di dire la nostra su argomenti e materie che non dovrebbero competerci.

Una gara a chi ne possiede di più, messi però nella condizione di saper apprendere sempre meno a causa del degrado educativo nel quale siamo stati infilati. Un po’ come fare un corso di chirurgia online e pretendere di saper effettuare subito dopo un trapianto di cuore.

Paradossalmente essere bombardati da informazioni che non trovano mai fine ci spinge all’interno di una megalomane presunzione, la quale ha come unico interesse quello di alimentare il proprio egocentrismo.

Oggi chi ha le basi per stabilire cosa è giusto e cosa non lo è? Tutti, di conseguenza nessuno. Le informazioni sono trasversali, di qualunque natura e materia, molteplici, differenti, discordanti e raggiungono chiunque e in ogni parte del mondo. Tutti sentono il bisogno di manifestare il proprio parere, il proprio dissenso, le proprie convinzioni, rafforzate puntualmente da algoritmi che seguono le nostre preferenze. Ci convinciamo di cosa è giusto e cosa non lo è proprio in proporzione alle conferme che ci vengono costantemente suggerite e che invadono la nostra vita. Convinzioni che a nostra volta rilanciamo dai nostri social; o sarebbe meglio dire “palcoscenici“.

Veniamo orientati scientemente e in maniera coerente verso le nostre convinzioni, pur non avendo queste nessuna sensatezza. E allora viene da chiedersi: chi regola questi algoritmi?

Se è il popolo a regolarne la condotta significa che tutto è lasciato nell’abbandono più totale. E in questo caso allora chi avrebbe lasciato tutto nelle mani del popolo? E perché?

La mancanza di controllo, di istituzioni dedite alla formazione culturale del popolo, sono elementi basilari che una società organizzata non può permettersi di perdere. E i risultati di questa assenza sono diventati così evidenti che si fa fatica a credere che siano veritieri per quanto incredibili. È una realtà talmente assurda da far perdere completamente la vista.

Chi guida il nostro cammino e verso quale direzione? Se davvero un algoritmo asseconda incessantemente le nostre preferenze per soddisfare interessi di mercato, chi ci insegna a controllare la nostra impulsività rispetto alle scelte che facciamo?

Nessuno.

Siamo prigionieri delle nostre stesse convinzioni, che per avere ragione hanno la sola necessità di essere rafforzate. Così ci circondiamo di altri che la pensano come noi. Si creano quindi fazioni, gruppi, correnti, partiti, movimenti e perfino sette.

Dove manca organizzazione sociale, dove mancano le condizioni sociali favorevoli, affinché un individuo possa affermarsi consapevolmente e trovare la propria posizione nella società, per sentirsi parte importante di un’intera popolazione, allora manca una guida, ed è inevitabile che in un tempo più o meno lungo il degrado faccia il suo corso.

E succede quello cui stiamo assistendo tutti, ma che la maggior parte degli spettatori ormai giudica in forza alle proprie convinzioni.

È così che finiamo banalmente per andare gli uni contro gli altri. Mentre chi governa può continuare indisturbato a fare i propri affari.

Ritengo che giudicare insensate le manifestazioni di questi ultimi mesi sia totalmente sbagliato. Si vogliono considerare incivili? Allora dovrebbe venire spontaneo chiedersi chi ha “educato” all’inciviltà tutte queste persone. E non chiederselo ci inquadra automaticamente nel gruppo contrapposto. In ogni caso, prendersela con chi ha un pensiero discordante con il nostro rivela di noi la stessa personalità di chi stiamo giudicando, e alla fine ce la prendiamo con le persone sbagliate.

Ma qui, in questo momento, non abbiamo bisogno di avere ragione o torto, come generalmente fanno i bambini che litigano e si fanno i dispettucci.

I popoli che scendono in piazza non sono degli inetti. Hanno le loro ragioni, che seppure dovessero essere irragionevoli hanno trovato nel tempo supporto e linfa vitale grazie ad un governo assente e insoddisfacente.

Questa battaglia, che viene condotta contro il malcontento e che si desidererebbe sopprimere a colpi di dati, spiegazioni, informazioni, non la vincerà mai nessuno, perché l’unico modo per interromperla risiede nella comprensione, e nella consapevolezza che il degrado è generato dalla mancanza di condizioni sociali favorevoli all’affermazione economica e alla crescita culturale dell’insieme degli individui intesi come popolo. Il modello sociale che viviamo impone di considerare questi aspetti. Invece le disuguaglianze economiche e sociali aumentano a dismisura.

Non possiamo pensare di sopprimere metà popolazione semplicemente perché la riteniamo inetta. Ed è a questo invece che molti anelano. Da una parte, e dall’altra. E siamo tutti pronti ad abbattere il nemico a colpi di informazioni, di articoli, di dati, di immagini, a supporto delle nostre ragioni, che riteniamo reali nella stessa misura in cui giudichiamo reali le nostre convinzioni.

Certo, pensare di far cambiare idea agli altri imponendo loro le nostre ragioni attraverso frasi e concetti che alle nostre orecchie sembrano insindacabili e meravigliose, è alquanto egocentrico. Va ammesso.

E il bello è che alla fine siamo tutti bravi a dire che ci manipolano, salvo poi precisare che i manipolati sono sempre gli altri. Invece nessuno è esente da questa pratica. Tutti i popoli del mondo sono manipolati, condotti verso una direzione più o meno giusta, e questo dipende unicamente da chi li governa.

Per concludere, quindi, se non si è d’accordo con chi manifesta il proprio malcontento, l’unico rimedio da adottare è quello di andare a risvegliare la nostra comprensione. Non giudicare, ascoltare in silenzio, ammettere i propri limiti. Insomma, bisognerebbe cercare di essere un po’ più umili.

“Io so’ io… e voi non siete un cazzo”


È da un po’ di tempo che avverto una certa repulsione nell’affrontare una riflessione. Ci barrichiamo sempre dietro a postulati tipo: “tutto si può dire, purché corrisponda a quel che penso io”. Valutiamo ogni critica, di qualunque natura essa sia e nei confronti di qualsiasi argomento, sul piano personale, e ogni obiezione diventa così un giudizio mirato. Oggi sembra che la regola base per avere visibilità sia quella di sparare mitragliate di cazzate (quello è il loro nome, e tali devono essere definite) per dimostrare di avere sempre qualcosa da dire, e il vero dilemma è capire su chi davvero abbiamo intenzione di puntare il mirino: sulla folla, oppure contro uno specchio in cerca di autoapprovazione? A me sembra semplicemente un suicidio culturale di massa; un harakiri inconsapevole di cui tutti andiamo, profondamente, fieri. Abbiamo perso ogni valore, e la conseguenza naturale è la quasi (se non del tutto) assenza di valori in quel che facciamo e proferiamo. La nostra è un’esposizione senza fine di contenuti sempre più vuoti, di miliardi di parole dette al vento che non possono far altro che aggiungersi alle altre, formando così un’uragano di stronzate che spazza via tutto quello che di razionale e di buon senso incontra sulla sua strada. E la cosa che trovo ancor più pazzesca, paradossale, schizofrenica, nel vero senso dei termini, è che non si può più dire nulla. C’è da avere il timore d’esser fraintesi e veniamo in un certo senso sollecitati a sparare cazzate per non sembrare, perlomeno, diversi dagli altri, dalla maggioranza, dal gruppo, e allora siamo stimolati ad adeguarci, pena l’esclusione, l’indifferenza. Se proviamo a fare un ragionamento con l’intenzione di trascende dalle argomentazioni spicciole, irrilevanti ai suoi fini, quello che ne ricaveremo sarà soltanto un gran bel giudizio, certamente sul piano personale. Le cose viste dall’alto, da lontano, a volte possono sembrare diverse da come le si vedono da vicino, e con questo non voglio intendere che andrebbero viste con superiorità soggettiva, con arroganza, ma con altezza di prospettiva. Se guardi una singola formica lavorare, e ti soffermi solo su di essa, inevitabilmente perderai di vista il resto della colonia, e difficilmente riuscirai a capire come si svolge la vita sociale all’interno di un formicaio: per comprendere una società, le sue abitudini e i problemi che la soffocano, si deve studiare il suo comportamento, di tutta la colonia, non “solo il comportamento di un singolo individuo”, altrimenti perderemo del tempo prezioso, e quello che ne ricaveremo sarà una formica che segue le altre, o che girovaga qua è là a raccogliere carogne di insetti, pezzettini di legno, di foglie, e magari che viene schiacciata dal primo numero 41 che sfortunatamente si trova a passare per la sua strada. E allora diamo la colpa al destino, al fato, al numero 41, e sempre con maggior frequenza all’individuo incapace di crearsi un occasione, di costruirsi un futuro, al fatto che “quella” formica è stupida, perché avrebbe dovuto vedere la scarpa che le veniva incontro e cambiare direzione in tempo per evitare di essere schiacciata. La colpa è della stupida formica che non ha capito dove si trovava, che non ha saputo cogliere in tempo l’occasione di cambiare direzione, o che si è discostata dal resto del gruppo per andare alla ricerca del suo pezzettino di foglia. Ma quando quella formica si trova a cercare nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, e viene avvelenata da un’insetticida INSIEME al resto della colonia, su chi deve essere addossata la colpa: sulla singola stupida formica che ha seguito tutte le altre? Su tutta la colonia? Su chi ha spruzzato l’insetticida? Oppure su chi ha inventato e reso lecito e abituale, consueto, l’uso dell’insetticida?
A me viene sempre in mente il periodo nazista, al fatto che Hitler, Eichmann, e tutti i “grandi” nomi storici conosciuti che sono stati i protagonisti, gli emblemi delle atrocità di cui è capace l’essere umano, i capri espiatori di cui la nostra misera coscienza/esistenza si serve per andare avanti, e al fatto appunto che siano considerati gli unici personaggi portatori “sani” di disumanità, ma ci si dimentica, in questo esercizio di “illogica”, sempre degli sconosciuti, di tutti coloro che non hanno un nome, che non sono stati al centro delle cronache, ma “semplici” comparse, nascoste nell’ombra, gli ultimi nomi che passano che nei titoli di coda e che nessuno legge mai, di quelli che sono fuori dall’obiettivo della cronaca, dell’informazione che negli anni ci ha abituati a divorare un nome, senza mai farci riflettere sul fatto che “quel” nome non sarebbe contato un cazzo senza il sostegno di un’intera popolazione. Una volta eravamo abituati a pensare che il titolare di una fabbrica senza i suoi operai non sarebbe contato un cazzo, poiché senza di essi mai avrebbe avuto la possibilità di arricchirsi. Oggi invece siamo completamente rincoglioniti, dopo anni e anni di preparazione ed educazione scientifica, e allora basta che ci venga dato in pasto un nome, che lo diano alla folla affamata, per placare le nostre sempre più inconsapevoli frustrazioni. Sbraniamo quel nome, magari riusciamo anche a calmare per qualche minuto la nostra bulimia, e a colmare quel senso di vuoto che ci riempie, ma solo per qualche minuto, perché sistematicamente poco dopo, chissà perché (forse potremmo chiederlo alla trasmissione Mistero, visti i tempi), la fame torna a farsi sentire, e così il quel senso di vuoto. E come fossimo tutti in una grande fiera, facciamo un altro giro, un’altra corsa… In un divertimento monotono senza fine, e senza fini.

È possibile dire che siamo circondati da superficialità senza pensare che qualcuno possa offendersi? È o no un dato di fatto oggettivo affermare che siamo contenitori di stronzate piuttosto che di contenuti razionali? È possibile affermarlo senza che qualcuno si senta offeso sul piano personale?

Insomma, a me sembra tutto un “io so’ io… e voi non siete un cazzo”, solo che quelli erano altri tempi, e non ci rendiamo conto, che i primi a non contare un cazzo siamo noi, povere formiche…