Buon 1° Maggio


L’obiettivo, a lungo braccato, di far tornare il lavoratore ad essere merce di scambio a tutti gli effetti, e che sembrava aver raggiunto i massimi risultati con la riforma del mercato del lavoro del Governo Monti, trova oggi la possibilità di nuovi traguardi all’orizzonte grazie al “Jobs Act”. Considerando l’attuale condizione dei lavoratori possiamo attestare che la schiavitù è tornata ad essere di moda: alla luce del sole, ma un po’ nascosta all’ombra del classico mantra «non ci sono alternative». Maggior potere al sistema capitalistico-neoliberista, che lo esercita senza impedimenti concretizzando il totale controllo sul corpo e sull’anima del lavoratore, sostituisce definitivamente la partecipazione dello Stato Sociale che così diventa un surrogato a tutti gli effetti.Un’ulteriore precarizzazione del lavoro ha come conseguenza inevitabile la riduzione dei salari e dei diritti. I costi di produzione si abbasseranno ancora di più, e ad avvantaggiarsene saranno soltanto le grandi cooperative, le multinazionali, i grossi industriali. I piccoli imprenditori, come sappiamo, vivono di professionalità e competenza in determinati settori, non grazie al lavoro dei contratti a tempo determinato che, in aggiunta a quel che si sostiene, favoriscono non solo la compravendita di manodopera nei momenti di maggior produzione, bensì “sempre”. Il totale precariato è un generatore di tensioni che ha conseguenze disastrose sull’autonomia dei lavoratori.

Orientare gli individui alla logica del mercato solo perché “i rapporti economici vanno in quella direzione”, non è certo la scelta migliore per contrastare la disoccupazione dilagante o per creare – anche solo in minima quantità – nuovi posti di lavoro. Anzi, i disoccupati accresceranno ancora di più eludendo scientemente i dati occupazionali: maggior flessibilità non comporta maggior impiego, ma ulteriore precarietà del lavoratore, che potrà essere chiamato per qualche ora alla settimana all’abbisogna risultando “parzialmente occupato”, ossia un “non disoccupato”, gettato così in un limbo da dentro il quale sarà ancora più complicato affermare la propria esistenza sociale.

Come si può pensare che un mercato senza regole o vincoli sia a sua volta in grado di indirizzare nella giusta direzione la vita dei lavoratori quando ha la possibilità di sfruttarli per trarne quanto più profitto possibile? Sappiamo bene quali conseguenze ci hanno riservato la logica dei mercati economici. Il Jobs Act ha pretese che vanno al di là del buon senso, e si prefissa soltanto di agevolare e potenziare la compravendita dei lavoratori da parte delle forze del mercato, facendola diventare a tutti gli effetti una “moderna tratta di essere umani“. La “libera contrattazione” non protegge né salari né diritti, e questo dimostra quanto la politica sia male amministrata e poco equilibrata. Chi potrà più pensare di costruirsi un futuro senza avere quelle basi, quelle certezze sulle quali fino a ieri si è “retto” il nostro modello economico? Sarà ancora meno possibile, tra l’altro, pensare di accendere un mutuo, o chiedere un prestito, per quanto piccolo esso sia. “La regola” fondamentale del Jobs Act recita così: – “Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto d’inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Nessuno è in grado di dare un’interpretazione corretta al Jobs Act, infatti già da tempo ormai, come da tradizione italiana, opinionisti e pseudo, giornalisti e pseudo, ai quali è dato incarico di divulgare all’opinione pubblica il disordine, si stanno contendendo il titolo di “peggiore”. Sappiamo bene però, anche in questo caso, quanto l’eccesso di norme poco chiare che disciplinano il nostro sistema (tutto) abbia offuscato con gli anni il corretto svolgimento della macchina dello Stato. Pertanto, «processo verso un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» lascia spazio alle interpretazioni semantiche più libere da parte dei datori di lavoro. Quali sarebbero le «tutele crescenti»? Chi stabilisce quali sono e in che misura dovranno essere esercitate? Se il contratto di lavoro prevede termini di rapporto ancora più flessibili, su quali criteri si stabilisce l’avanzamento delle citate tutele? Ci sono vincoli contrattuali che riguardano quale dovrebbe essere la soglia di partenza da cui il lavoratore inizierà il suo percorso? Perché se le tutele sono crescenti, può significare soltanto che l’inizio di ogni percorso in una determinata azienda ne sarà privo, o in ogni caso ridotte al minimo, ma in un sistema nel quale la flessibilità è la regola, e la competenza non necessaria alla grossa produzione e distribuzione, basterà semplicemente assumere lavoratori sempre diversi per fare in modo che la partenza sia sempre con le tutele ridotte al minimo. Se maggiori tutele equivalgono a maggiori costi di produzione, il datore di lavoro per contenerli al minimo non dovrà far altro che usufruire delle agevolazioni contrattuali che il governo gli offre. È improbabile che qualcosa possa tornare a vantaggio dei lavoratori giacché i “pregi” delle forme di determinazione del salario non sono misurati in base ai loro effetti, ma alle conseguenze che hanno sui rapporti di potere impliciti nella condizione di lavoro: più produttività, meno costi di produzione, salari più bassi, maggior precarietà, meno diritti al lavoratore, minori possibilità di organizzare il proprio futuro.

Una rivoluzione del mercato del lavoro in mano alle multinazionali.

Felice Festa del Lavoro.
Foto di copertina: “Il quarto stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901)

Spirito di contraddizione


La nostra è un’esistenza che contraddice se stessa, in preda all’ansia da prestazione, in perpetua aspettativa di un’occasione da non perdere, fra le infinite che il Paese delle Meraviglie ci destina.Aspettiamo di svegliarci per sognare e di sognare per vivere il mondo reale, che ci sia data la caccia per nasconderci o combattere, che il mondo ci si riversi contro per reagire alle sue ingiustizie, di soffrire per non dover soffrire più, di essere felici per ignorare le altrui sofferenze, di avere fede, quando in verità siamo tutti atei, che l’ambiente si risani, quando poi siamo i primi a rovinarlo, che la società torni ad essere una comunità, quando invece ognuno nei fatti pensa per sé. Amiamo fare la guerra per avere pace, fare beneficenza a patto che nessuno bussi alle nostre porte, e contemplare in solitudine paesaggi deserti non per sentirci parte di un tutto sterminato, ma perché intimamente non sopportiamo l’idea di condividerli. Non amiamo essere considerati razzisti, giacché gli esseri umani son tutti uguali: davanti alla Legge, alle Tasse, alla Dignità, alle Necessità, all’Esistenza, purché i figli dell’amata Patria abbiano la precedenza di fronte alle indigenze. Parliamo tutti d’amore, ma solo perché tutti ci odiamo. Ti amo, anzi no: ti odio. Non amiamo la polvere, la sporcizia, l’incuria e privilegiamo le cure alternative, perciò puliamo e lucidiamo, verniciamo e inceriamo, disinfettiamo e depuriamo, ma gli spazi in comune sono discariche a cielo aperto, assumiamo farmaci attraverso il cibo, ci imbottiamo di antidepressivi, antinfiammatori, analgesici e integratori dietetici. Non ci consideriamo superiori, però bisogna ammettere che da lassù c’è una vista migliore. Facciamo tutto alla luce del sole, non abbiamo bisogno di nasconderci, tuttavia la nostra privacy è sacra, salvo poi esporla sulla bacheca pubblica di un social, giacché sappiamo ben distinguere la vita reale da quella virtuale… Viviamo alla giornata, poiché il Futuro è un’incognita: nella vita, è cosa arcinota, non si può mai sapere… Però speriamo tutti in un futuro migliore, perché la speranza, quella no, non va mai perduta. Ma al tempo stesso il Destino va costruito, creato, agevolato, sollecitato, e allora siamo noi i Padroni del Nostro Destino, pur essendo l’unico elemento sul quale sappiamo di non esercitare alcun potere… anzi sì, perché sono le occasioni che cerchiamo e rincorriamo con ansia a costituirlo; anzi no, perché il futuro è un’incognita: una disgrazia, un intoppo inaspettato, un ostacolo non segnalato sul cammino e finisce tutto, pertanto bisogna vivere alla giornata; anzi sì, perché “volere è potere”; anzi no, perché chi s’accontenta gode; anzi sì, perché nella vita bisogna rischiare e aspirare sempre a qualcosa di più. Insomma, chi fa da sé fa per tre, ma insieme è meglio, però da soli lo è ancora di più, che sennò poi si deve tener conto anche delle esigenze degli altri… Però la solidarietà è cosa buona; anzi no, che poi se gli dai un dito si prendono tutto il braccio.

Oggi piove, anzi no, o forse sì, mah…, a dire il vero non saprei… Chi guarda il cielo e poi mi fa sapere?

Homo “haud” Sapiens


In un mondo dove nessuno sa né leggere né scrivere ad andare avanti sono gli sciacalli con la convinzione che l’esistenza consista nel depredare le risorse del prossimo così da assicurarsi la propria sopravvivenza. Del resto come dar loro torto se in effetti le sole alternative che gli vengono presentate sono la disfatta, il fallimento, l’umiliazione, la distruzione, l’abbandono, e l’insuccesso inteso esclusivamente come sconfitta personale, individuale anziché collettiva, sociale, comunitaria. Una società che vive nella menzogna di poter riuscire a fare tutto solo grazie all’istinto e alle presunte capacità di sopravvivenza individuali, escludendo un fatto ineludibile, la “con-vivenza”, non può essere consapevole di star scavando la propria fossa. L’uomo non vive di sola caccia e conquista. È un essere sociale con anche il bisogno di crescere intellettualmente, culturalmente, eticamente; elementi grazie ai quali ha realizzato opere senza tempo che hanno determinato la sua evoluzione, ma che a causa della loro progressiva e inesorabile deriva vengono abbandonate al degrado generato dall’ignoranza in attesa che facciano il loro tempo.
Una società resa ignorante non potrà mai riuscire ad apprezzare quel che ha, poiché non è consapevole di averlo.

Noi, e loro, i senza terra


Eteronomia.com

Oggi il mondo è sempre più eterogeneo, multiculturale, internazionale, interculturale e interdipendente: siamo disposti allora a vivere insieme a queste diversità? Essendo questo un processo irreversibile e inesorabile, ci sentiamo pronti ad accettarlo? Migliaia di migranti quest’anno (come da anni ormai) saranno costretti a scappare dai propri luoghi d’origine per scampare a guerre, torture, carestie, all’occupazione dei loro territori, all’espropriazione dei loro spazi vitali, alla depredazione delle loro risorse per appagare le esigenze (istigate) del (nostro) mondo “occidentale” e riempire così i portafogli di chi detiene le redini del mercato economico globale; riusciamo allora a comprendere fino in fondo cosa si sta verificando nel mondo? Siamo davvero consapevoli di tutto ciò? I governi stanno facendo le acrobazie (come sempre) per schermare questa carneficina, e fanno passare tempo prezioso accollando sistematicamente la colpa ora a questo, ora a quest’altro organo governativo, ma mai esortando i veri responsabili (poiché loro stessi)…

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“SCOPRIRSI” NELL’ERA DEI SOCIAL


Eteronomia.com

Svestirsi, vale a dire ciò che di più facile viene da fare nella società delle immagini, è un gesto che non confina esclusivamente nella fisicità, ma anche nella mentalità, nel modo in cui ci abituiamo ad esibire i nostri pensieri, i più e i meno intimi. Nell’era dei social infatti tale comportamento è ampiamente dimostrabile, praticato, e più o meno implicitamente riconosciuto e accettato dalla maggior parte di noi.
Mettere in piazza i propri pensieri equivale a spogliarsi.

Si è molto parlato del video/esperimento (poi emulato, riprodotto in serie ovunque nel mondo) nel quale si vede una ragazza vestita con un jeans e una maglietta neri che passeggia per le strade di New York ricevendo un centinaio fra commenti e complimenti da parte di uomini. Il video, chiaramente di stampo razzista, è un girato di 10 ore riassunte in nemmeno 2 minuti, nei quali si…

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Umberto Eco e gli imbecilli? Ha ragione Eco: siamo imbecilli


La tecnologia raggiungerà il suo pieno senso solo il giorno in cui non verrà più utilizzata dagli uomini per sostituire se stessi esclusivamente per diminuire i costi di produzione e ipnotizzare masse sempre più ampie con tecniche sempre più efficaci. Nel frattempo, prima che tutto ciò accada, lasciatemi dire che in larga parte Umberto Eco ha ragione.
Magari serve dirlo, affinché si raggiungano scopi diversi da quelli in corso d’opera. A questo ritmo nel 2050 (ma stime dicono molto prima) per sopperire alla produzione mondiale sarà necessaria solo il 20% della forza attualmente al lavoro. E non ci sono per il momento prove a dimostrare che il resto troverà occupazione in campo tecnologico. Gli uomini non sono tutti scienziati. Ci sono i contadini e gli artigiani per vocazione ancestrale. E i segnali dicono che questi sono schiacciati o, nel “migliore” dei casi, assorbiti dalla grossa produzione e distribuzione. Costringere l’umanità verso un percorso di esclusione non è il miglior approccio alla tecnologia. Eppure questo è quel che accade oggi. Lo stato occupazionale è diminuito in tutto il mondo, insieme ai salari, ai diritti e alle condizioni sociali, esclusi i paesi in via di sviluppo, che in ogni caso presto si ritroveranno nelle stesse condizioni. E a quel punto non ci saranno più terre da sfruttare, e il sud del mondo sarà soltanto un deserto arido bruciato da guerre combattute con i droni in nome dello sviluppo tecnologico imperante. Magari con qualche oasi “felice” qua e là.
La tecnologia, la tecnocrazia, il mondo congetturato unicamente alla tecnica esclude l’altra parte di mondo che non vuole esser concepita così, che vuole invece preservare migliaia di anni di storia dell’umanità, cancellata rapidamente e comodamente premendo bottoni. Il tecnicismo, questa rincorsa alla perfezione non porterà mai l’umanità a raggiungerla, poiché la perfezione non è una caratteristica costante di essa. Ogni individuo è unico per definizione e difetto; tralasciare questo aspetto significherebbe trascendere l’umanità degli uomini per far posto unicamente all’aspetto meccanico. È un’idiozia pensare di poter oltrepassare la natura umana, e questo squilibrio, che noi tutti possiamo osservare, provoca inevitabilmente conflitti con la coscienza, che pur cercando un dialogo con il calcolatore, evidentemente per il momento a soccombere è proprio lei.
Rivoluzionare la concezione del mondo attuale, ovvero far sì che all’uomo, pur lavorando di meno, sia assicurata una vita dignitosa, sarebbe un grande passo verso il futuro. Ma per adesso quel che possiamo attestare è essenzialmente un fatto: l’uomo non ha ancora imparato a convivere con se stesso. Al contrario, ha imparato a sfruttare la propria conoscenza per espandere e amplificare i margini di conquista attraverso il condizionamento, che passa più veloce attraverso la tecnologia. Le discriminazioni in aumento e la distribuzione delle risorse sempre più iniqua stanno lì a dimostrazione.
Forse un giorno tutto questo troverà il suo equilibrio, ma non prima di aver sfruttato e consumato e distrutto tutto il possibile. A partire dalle relazioni umane, che passano sempre più attraverso medium calcolatori di emozioni.
Ci sono aspetti “anche” positivi, ma non basta escludere dal dialogo la pena di morte per far sì che questa scompaia dalla faccia della terra, altrimenti non servirebbero neppure tutte le campagne di sensibilizzazione messe in atto “anche” grazie e attraverso strumenti tecnologici. Pensiamo alla piattaforma Change.org. Lasciare però che il mondo vada in una direzione senza mai avere il dubbio che forse è quella sbagliata, lascerebbe intendere agli uomini che appellarsi alla propria coscienza sia un esercizio del tutto inutile. E purtroppo, se vogliamo fare i tecnici fino in fondo, i dati ci dicono la coscienza è in via di estinzione.
Nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di morte. Possiamo avere il dubbio che ci siano relazioni con tutto ciò?
Non è mia intenzione demonizzare il progresso tecnologico, non c’è niente di più lontano da me. Ma fotografare lo stato attuale delle cose; quello sì. E la fotografia che ho davanti mi fa vedere quanto la tecnologia nelle mani degli uomini di oggi sia profondamente degenerativa.
Ecco cosa ha fotografato provocatoriamente Umberto Eco. E chi lo conosce almeno un poco lo ha capito. O quantomeno onestamente accettato. Ecco perché siamo imbecilli: non accettiamo che qualcuno metta in discussione una strumentazione che apparentemente ci regalala soddisfazioni immediate, tanto immediate quanto mediate, e che apparentemente ci mette a disposizione illimitate informazioni, tanto infinite quanto confuse e ancora sconosciute… e certamente mediate.

Salvini e Renzi: leader carismatici a tempo determinato


Come ci insegna Max Weber, esistono tre tipi di autorità nella nostra società: tradizionale, carismatica e legale-razionale, che qui (per semplificare) indicativamente identificheremo rispettivamente nell’ex premier Letta, spodestato proprio da un’autorità carismatica, ovvero quella di Renzi (che in questo momento si contende la scena politico/mediatica con il carismatico Salvini), e l’altro ex premier Mario Monti.
Vediamo quali sono le differenze.
Innanzi tutto dobbiamo chiederci:

su quali basi quelli che detengono l’autorità hanno il diritto di impartire ordini alla popolazione che si trova sotto il loro dominio?

L’autorità tradizionale (Letta) risponde a questa domanda sulla base di quanto è successo prima. In altre parole, la legittimità si basa semplicemente sul fatto che si è sempre fatto in quel modo.
L’autorità carismatica (la coppia Renzi-Salvini), al contrario, si basa sulle doti eccezionali attribuite a chi le esercita: in virtù di questa caratteristica di eccezionalità, i capi carismatici abrogano o modificano la tradizione. Ad esempio, la frase che Gesù ripete nel Nuovo Testamento, «Avete udito che fu detto, ma io vi dico…» è una pura affermazione di autorità carismatica.

Domanda: con quale diritto quest’uomo fa delle dichiarazioni così eccezionali?

Risposta: ne ha diritto perché Dio parla attraverso lui.

Come si nota nella risposta non appare alcun fondamento razionale, ma al contrario suscita un sentimento fideistico, peculiare nelle persone propense a seguire un leader carismatico.
L’autorità carismatica appare sempre contrapposta ad un’autorità tradizionale (ciò non implica che lo sia sempre nei fatti), che mette in discussione sia cercando di cambiarla, sia, nel caso estremo, tentando di abbatterla (abbiamo come esempio Renzi-Letta).

L’autorità carismatica è intrinsecamente rivoluzionaria: essa sconvolge le forze abitudinarie su cui riposa il potere tradizionale. Ma per questo stesso motivo l’autorità carismatica è estremamente precaria e non è in grado di mantenersi a lungo; essa può instaurarsi soltanto in un’atmosfera di intensa esaltazione. Forse per la stessa natura dell’uomo questo stato di esaltazione non può durare a lungo e, quando incomincia a spegnersi, l’autorità carismatica dev’essere modificata o sostituita da qualche altra forma di autorità.
L’autorità legale-razionale (Mario Monti) infine è basata sulla legge e su procedure razionalmente dimostrabili.

Domanda: con quale diritto l’esattore può esigere una tassa?

Risposta: ne ha il diritto grazie a una determinata legge approvata dal Parlamento.

A differenza dei primi due tipi, questa forma di autorità non si avvolge di mistero, e la fede in questo caso non trova collocazione e non ha alcun valore.

In ogni caso, l’esercizio del potere legale-razionale è, come si dice, confortato da specifici provvedimenti di legge che, almeno in linea di principio, possono essere spiegati razionalmente, assieme alle finalità sociali che ne stanno alla base.
Il tipo di autorità carismatica è il più comune nel mondo d’oggi, e la forma amministrativa che gli si addice e lo legittima è, come abbiamo visto, la fede. Ma una fede a tempo determinato: almeno fino a quando l’atmosfera di intensa esaltazione si manterrà alta, ovvero fino a quando la popolazione non si accorgerà che saranno tradite le aspettative promesse.

A questo punto, però, nasce un problema, ovvero la percezione che si ha della realtà. Viviamo in una società mass-mediatica: percepiamo la realtà che ci circonda attraverso la rappresentazione, la narrazione che i leader propagandano attraverso i media, piuttosto che come è nella realtà che viviamo. Questa, che si può definire “alienazione dalla realtà”, viene ben espressa da Eriksen:

“Invece di organizzare la conoscenza secondo schemi ordinati, la società dell’informazione offre un’enorme quantità di segni decontestualizzati, connessi tra loro in maniera più o meno casuale. […] Per riassumere: se si distribuisce una crescente quantità di informazioni a una velocità anch’essa crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive. C’è il rischio che i frammenti prendano il sopravvento, con conseguenze rilevanti sul modo di rapportarsi al sapere, al lavoro e allo stile di vita in senso lato”.

(Eriksen, “Tempo tiranno”, p. cit. 139, 144)
E una delle conseguenze è proprio quella che William Thomas sintetizza così:

“se la gente definisce una situazione come reale, essa produce delle conseguenze reali”.
Pertanto, l’autorità che risulterà più efficace e durevole nel tempo dipenderà da quel che la maggioranza della popolazione percepirà come “reale”, indipendentemente dalla “reale realtà”, ovvero dipenderà dall’abilità del leader carismatico di raccontare storie (quindi non necessariamente una, lineare, razionale, con un inizio e una fine), o, per usare termini più “attuali”, da un’efficace storytelling.
Pertanto le aspettative rispetto a ciò che ci riserverà il futuro fanno parte della percezione che abbiamo della realtà facendocela apparire più o meno piacevole. In quest’epoca storica (dominata dal consumo impulsivo) il senso del dovere e della responsabilità, interpretato in senso psicoanalitico dal Super-Io, cede il passo di fronte alle pretese dei desideri al punto che essi appaiono come se fossero realtà. In questi momenti arriviamo ad autoconvincerci che sia un diritto acquisito ciò che noi desideriamo (quindi non è detto sia sempre legittimo o conveniente). Può succedere allora che la percezione sia così collettiva da determinare nella classe politica la determinazione a fissare per legge queste nostre aspettative: il leader carismatico insegue i sondaggi degli umori da lui stesso suscitati nella popolazione attraverso lo storytelling ed agisce in conseguenza di questi, oppure facendole credere di aver agito in loro conseguenza. Insomma mentendole, che è generalmente la mossa più praticata, in particolare nel nostro Paese.
In altre fasi appare invece il timore di un futuro incerto per cui, mentre psicologicamente rientra in gioco il Super-Io, abbiamo timore di dover accettare una nuova formulazione mentale della realtà meno piacevole di come ce l’eravamo immaginata. Emerge una sorta di rabbia e il timore per cui ci si schiera dietro al baluardo di leggi che danno come acquisito quel diritto. Ed è a quel punto che calerà il sipario sul leader carismatico decretando la fine della sua popolarità. Ma niente paura, al suo posto ce ne sarà un altro già pronto a sostituirlo, perché viviamo in un momento storico nel quale a contare sono le autoritarie abilità comunicative, e non le autorevoli abilità di governo.

Emergenza immigrati: smettiamola di intervenire sugli effetti e agiamo sulle cause


Capisco la rabbia e il significato di quel che si vuole esprimere quando affermiamo che “gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi”, ma detta così è fuorviante, ed è una forma razzista di esprimersi, poiché al sostantivo “immigrato” è stato attribuito nel tempo un significato dispregiativo giacché sovente associato a termini come “rubare”, “violenza”, e “lavoro”, “casa” e “sussidi”, ossia a quei costituenti essenziali in una società come la nostra.

Di fatto, quando un microfono si avvicina a un qualsiasi cittadino per chiedergli cosa ne pensa degli immigrati, la risposta “mandata in onda” è prevalentemente la stessa:

«Gli immigrati ci rubano lavoro, case e sussidi!» – aggiungendo, generalmente – «Io non sono razzista, ma non è giusto che si dia aiuto prima a loro mentre noi italiani veniamo lasciati per ultimi. Che rimangano a casa loro!».

Attraverso questa forma di informazione manipolatoria, deviante, nell’opinione pubblica viene a radicarsi un sentimento di astio, d’invidia nei confronti di chi “viene nel nostro paese a privarci dei nostri diritti”. Allora siamo esortati a propendere verso chi promette di liberarci dal “male che ci invade” e “ci toglie risorse vitali”. Purtroppo è tutto sbagliato. Più propriamente, sono le politiche economiche internazionali (dettate dalle multinazionali), lo sfruttamento selvaggio delle risorse, a costringere queste persone ad abbandonare i loro paesi d’origine, massacrati da guerre che hanno lo scopo prevalente di aggiudicarsi o difendere tali risorse. Gli immigrati sono in cerca di un riparo da tutto questo, dal momento che non hanno altra possibilità che scegliere fra vivere la tortura della schiavitù, oppure la morte. Non portano con sé ambizioni di conquista, ma gridi dilaniati in cerca d’aiuto. L’aiuto che possiamo dar loro, se vogliamo davvero aiutare anche noi stessi e fare in modo che questo caos termini, è quello di comprendere a fondo i motivi per i quali sono costretti a fuggire.
Sono le politiche economiche a togliere lavoro, case e sussidi, a tutti, in Italia come in Europa, e in tutto il mondo “occidentalizzato” nel quale è stato esportato (e si sta esportando) questo modello economico-sociale.
Va compreso che un essere umano che scappa da una guerra è ben più disposto ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione salariale, pur di sopravvivere. Ciò contribuisce enormemente ad abbassare i costi di produzione, a ridurre i diritti umani di ognuno di noi, a far aumentare le disuguaglianze sociali e a diminuire il potere d’acquisto nel suo complesso.

Il sostantivo “immigrato”, diventato ormai un’appellativo dispregiativo, non dovrebbe neppure essere preso in considerazione quando vogliamo esprimere la nostra contrarietà a una situazione complessa e drammatica come quella che stiamo vivendo. Stiamo parlando di esseri umani come noi, né più e né meno.
Se pensiamo di risolvere i problemi che ci sovrastano, innalzare muri per non vedere né sentire, né sapere, cosa accade al di là, non risolve niente. Dobbiamo comprendere che i problemi nell’antartico riguardano e condizionano anche l’artico e viceversa. È il modello sociale consumistico nel quale viviamo, ad averci trascinati in questo disordine intellettivo, e che sempre più ci impedisce di razionalizzare il mondo che ci circonda.
Chi promette di “scacciare via gli immigrati”, lo fa sfruttando la nostra ignoranza rispetto a un problema ben più ampio, profondo e complesso. E non sarà un semplice muro che ci esonererà dall’affrontarlo. Il compito di una sana politica dovrebbe esser quello di interpretare nel modo giusto la rabbia della popolazione, anziché cavalcarla per raccogliere voti. Una popolazione che però è composta anche da queste povere persone in cerca di sopravvivenza per i motivi suddetti. Perché il popolo è colui che abita la Terra, una Terra che non ha più confini né identità culturale a causa del capitalismo selvaggio, alle politiche neoliberiste, non a causa di chi è in fuga da esse. Dobbiamo smetterla di giudicare gli effetti e intervenire su di essi, e agire finalmente sulle cause. Ecco poi dove si arriva.

Al mondo si muore…


Al mondo si muore di fame e di troppo cibo, per mancanza di medicinali e per la loro eccedenza. Si muore per amore e per odio, predicando la pace facendo la guerra, si muore per denaro e di povertà, perseguendo un sogno e di apatia. Al mondo si muore per un ordine dato e per troppo disordine, per difesa e per attacco, per un’idea di libertà e in prigione, per caso e per vendetta, per il brutto tempo e per il tempo trascorso.Al mondo si muore, mentre il resto del mondo vive, passandoci sopra, turandosi il naso, accavallando i ricordi per dimenticare, andando avanti a ritroso sulla propria strada.

La pazienza


Et ex hac parte – dice Tommaso d’Aquino – habet affinitatem cum fortitudine patientia.” La pazienza, in quanto parte della fortezza, è virtù attiva: sarebbe un grave errore confonderla con la pura e semplice rassegnazione. L’uomo paziente non si adatta al dolore, ma lo governa; soprattutto non lo accetta come una condizione definitiva.
Salvatore Natoli da “Dizionario dei vizi e delle virtù” ed. Feltrinelli pag. 104

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