“[…] più che delle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità”.
Panoptica
Chi crede non ci sia un disegno panoptico nelle politiche economico/sociali occidentali, evidentemente è troppo impegnato ad operare affinché queste vengano compiute.
Beneficenza
Ci sono mali che non si possono curare con latte in polvere e biscotti ad alto valore proteico. Orribili condizioni di vita, malattie, analfabetismo, disgregazione delle famiglie, indebolimento dei legami sociali, mancanza di lavoro e di prospettive nel futuro, sono il risultato di una società che non è più in grado (e forse non lo è mai stata dall’inizio dell’entrata in scena del capitalismo), o non ha volontà, di prendersi cura degli ultimi.
Thomas Paine:
“Quando un qualsiasi paese del mondo potrà dire che i suoi poveri sono contenti e non sono afflitti dall’ignoranza e dall’angoscia; le prigioni sono vuote, e non ci sono mendicanti per le strade; i vecchi non languono e le tasse non sono oppressive…; allora esso potrà farsi vanto della sua costituzione e della sua forma di governo”.
Ryszard Kapuscinski, uno dei più acuti osservatori della vita contemporanea, ricorda di aver attraversato villaggi e ghetti africani incontrando bambini «che non mi chiedevano pane, acqua, cioccolata o giocattoli, ma penne biro, perché andavano a scuola e non potevano prendere appunti».
Io ai carnevali di beneficenza non ci sto. È per me incomprensibile raccogliere milioni di euro senza prendersi neanche la responsabilità di spiegare analiticamente le reali cause di tanta miseria. Raccogliere fondi perché “in fondo grazie ad essi è possibile fare qualcosa”, non è una soluzione, ma un rimandare sempre a domani la soluzione al problema. Arginare non serve a nulla se continuiamo a scaricare inquinanti nel fiume. E il problema è causato dalle multinazionali che depredano quei popoli di un diritto che DEVE avere chiunque abiti questa terra. Le stesse multinazionali che alimentano una società come la nostra, indiscutibilmente fallimentare, immorale ed egoista. Le stesse multinazionali che mettono in piedi questi carnevali mediatici accompagnati immancabilmente da immagini di fronte alle quali anche la coscienza più assopita impallidirebbe e metterebbe mano a residui di moralità rimastagli. Le stesse multinazionali che ci offrono, tra una pubblicità e l’altra, prodotti di consumo che alimentano il degrado e aumentano il numero dei poveri nel mondo. È una presa in giro che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Non salviamo nessuno facendo beneficenza. Salviamo solo le nostre coscienze, perché “in fondo ne abbiamo bisogno”. Sappiamo che è il nostro modello di società a causare quelle atrocità, ma siamo talmente distratti da quello che desideriamo che riusciamo senza fatica a fregarcene di chi non ha una vita degna di essere vissuta.
“Un bambino, cento, mille, milioni di bambini ogni anno muoiono di fame… Ma non preoccuparti: adesso c’è la pubblicità. È tutto finito. E se hai versato una lacrima, hai fatto il tuo dovere.”
Abbiamo bisogno di alibi per non guardare in faccia la realtà. La realtà è che questo modello di società ha già fallito: le disuguaglianze si fanno sempre più ampie e profonde, e la povertà aumenta senza sosta in tutto il mondo, e sta diventando sempre più difficile e complesso far fede solo e soltanto alle distrazioni. Continuare dritti per la nostra strada servirà solo a diminuire i pochi metri che ci separano da una catastrofe senza precedenti.
Social network
I social network, da quello che speravo diventassero nel giro di pochi anni: strumenti che avrebbero annientato i mezzi di comunicazione tradizionali, sono diventati semplicemente una bacheca dove appendere alla vista di tutto il mondo quel che facciamo e pensiamo in tempo reale in barba all’intima individualità, che così ha perso ogni barlume di mistero, e di curiosità nel prossimo nel volerla scoprire. “Sto respirando”, “sto mangiano”, “sto evacuando”, “rimettendo”, “pisciando di traverso”, “ho schiacciato un brufolo”, “una piattola”, “sono andato lì”, “sono qui”, “domani vado là”, “ho cambiato acconciatura”, “mi sono fatta lo smalto”, “ho la colite”, “mi fa male l’ombelico”, “sono felice”, “triste”, “mi sto depilando”, “sto bevendo”, “ho le doppie punte”, “ho messo questo vestito”,”ho acquistato questo”, “ho l’unghia incarnita”, eccetera, eccetera, eccetera. Talmente banale che è persino banale dire che è banale. Non c’è più gusto a conoscersi perché ancor prima che ne sentiamo il desiderio il “social” lo ha già esaudito per noi, senza noi.
Avevo la speranza che Skype diventasse il mezzo di videocomunicazione più comune spazzando via gli oligarchi dello scatto alla risposta. Mi sono sbagliato. Credevo che Facebook avrebbe contribuito ad abbattere il degrado culturale attraverso lo scambio di riflessioni. Mi sono sbagliato. È tutto storto, al contrario. Se da una parte è un utile strumento di aggregazione, di legami comunicativi e di scambio di notizie, dall’altro è un superpotentissimo mezzo di disgregazione dei più elementari rapporti interpersonali. Se prima ancora resisteva, a fatica, una certa intimità, adesso è tutto esposto al pubblico, e più è pubblico quello che pensiamo e facciamo più ci sentiamo appagati. Come ad esempio gli album di famiglia, quelli che aprivi una volta l’anno in determinate occasioni e in presenza di determinate persone per farti un bagno di ricordi e di malinconia (che non è affatto una malattia degenerativa), sono diventati album pubblici alla mercé dei feticisti, nei quali chiunque voglia ha facoltà di immergersi. Rassicurati, però, dalla sezione “impostazioni sulla privacy”. Sembriamo spinti dall’esigenza di mercificare noi stessi, conformi, del resto, alla società dei consumatori nella quale viviamo. La cosa più importante è diventata per noi quella di gridare al mondo che esistiamo e che siamo fatti in questo o in quel determinato modo, poiché siamo convinti che altrimenti gli altri non si accorgano di noi, però lo gridiamo tutti alla stessa maniera senza distinzioni. Questo ci rende inconsapevolmente uguali, omogenei, conformati a un unico modo di essere e di esprimerci. E più “mi piace” riceviamo più ci sentiamo stimolati ad esteriorizzare quanto di più intimo abbiamo. E poiché inevitabilmente non si esaurirà mai l’infinita vastità interiore, difficilmente questo bisogno estremo di mercificare la nostra identità troverà appagamento. Così riduciamo tutto e tutti a strumenti di autoapprovazione, senza i quali ci sentiamo disarmati, inutili e invisibili. L’esigenza, poco allettante, di accettare la nostra autonomia e originalità e di rivendicare una propria intima identità, e di accettare l’altro in questi termini, è stata completamente eliminata, abbattuta, disintegrata dai social network, proprio perché abbiamo bisogno di approvazioni, e le vogliamo immediate, istantanee, in tempo reale. La socializzazione virtuale segue ormai gli schemi del marketing, del piacere superficiale e immediato della e nella finzione, e ci preoccupiamo prevalentemente di dimostrare che “facciamo qualcosa” e che la facciamo “così”; che “esistiamo” e che siamo “qui”.
Vorrei capire che differenza c’è tra Facebook e il Grande Fratello.
Ci sentiamo tanto in compagnia, parte di qualcosa o di qualcuno quanto più mettiamo in piazza la nostra intimità, quando invece, nella realtà, siamo più soli oggi di quanto non lo fossimo prima dell’avvento dei social. So che un giorno tutto questo si assesterà, che troverà un giusto equilibrio, ma sono altresì sicuro che avverrà solo dopo un brusco e drammatico scontro con la nostra coscienza e con il nostro modello di vita. Di sicuro non mi sarei mai immaginato che sarebbe stato questo il percorso. Abbiamo smesso di farci domande. Non ci chiediamo più perché ci comportiamo in una determinata maniera e siamo convinti che chiederselo equivalga ad ammettere insicurezza verso se stessi. D’altra parte, esporre le nostre debolezze rischierebbe di abbattere il muro di sicurezze artificiali che abbiamo innalzato tra noi e una società di predatori e approfittatori. E noi siamo sicuri? Farsi domande destabilizzerebbe quel che crediamo poggi su basi stabili, ma che nei fatti galleggia affannosamente su sabbie mobili che ad ogni ostacolo e ad ogni movimento brusco sprofonda là dove diventa sempre più difficile capire chi siamo e dove stiamo andando. Per ciò abbiamo un bisogno costante di certezze e le cerchiamo nel prossimo anziché in noi stessi.
Sembra non ci sia più spazio per la riflessione e che le bacheche di ogni profilo si siano ridotte ad essere semplicemente un mezzo per fare pubblicità a noi stessi per venderci al prossimo. È inquietante.
Per fortuna che ci sono i centri di benessere, così per un giorno o due abbiamo la possibilità di rilassarci, prima di riaffogare in questa inquietudine.
Cornelius Castoriadis alla domanda di uno dei suoi intervistatori:
«Ma allora lei cosa vuole? Cambiare l’umanità?»
Lui rispose:
«No, una cosa molto più modesta: voglio che l’umanità cambi, come ha già fatto due o tre volte».
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Tempi moderni
Si ha l’accezione che la società sia incapace di organizzarsi e interagire, come invece avviene nelle comunità locali, che debba quindi essere consigliata necessariamente da qualcuno, e che naturalmente abbia bisogno di esser guidata da un ristretto e privilegiato numero di persone, semplicemente perché la storia antropologica sociale ci racconta questo. Secondo la logica evolutiva, di fatto, esseri umani e animali vivono le loro esistenze basandole su società strutturate gerarchicamente con la funzione di definire ruoli, stabilire regole di convivenza, organizzare le classi sociali e, in particolare nell’uomo, servirsi di simboli intersoggettivi (religiosi, sociali, culturali, etnici) in grado di indicare una direzione, un ideale condiviso da un gruppo. Tutto vero, ovviamente. Ogni epoca è stata caratterizzata da società strutturate gerarchicamente. Generalmente a definire le classi sociali sono le succitate persone privilegiate. Esse, grazie alle conoscenze acquisite proprio per la loro posizione privilegiata (non hanno problemi economici a mandar i loro figli nelle scuole più prestigiose e hanno più facilità nel trovare lavoro nell’ambito dei loro ceti), hanno deciso e decidono il corso della storia dell’uomo, organizzandolo, educandolo, e impartendogli ordini. Sempre la storia ci insegna che solo quando l’oppressione raggiunge metodi insostenibili, nelle società si verificano situazioni in cui gli individui prendono coscienza di sé. In termini marxisti (più moderni) questa consapevolezza viene definita “coscienza di classe”. Le classi sociali più basse prendono coscienza della loro condizione, le ingerenze non vengono più sopportate e si ribellano. È un meccanismo, anche questo, connaturato nell’essere umano. Nelle società moderne questo comportamento fa grande fatica a presentarsi. La debolezza e la superficialità con cui ci poniamo verso la concezione dell’esistenza rallenta, e spesso sopprime sul nascere, segnali di rivolta servendosi di metodi che non erano a disposizione in passato, come la psicologia e il conglomerato dell’informazione. Indebolire psicologicamente il nemico vuol dire aver già vinto metà della battaglia.
Mi chiedo se davvero è possibile far funzionare una società senza differenziazioni sociali.
Ci viene raccontato che la globalizzazione avrebbe dovuto portare uniformizzazione dei consumi e dei modelli culturali, ma nei fatti ci ha condotto verso il consumismo più sfrenato, potendo avere a disposizione qualunque genere di cosa proveniente da qualunque parte del mondo. Questo ha provocato l’aumento della produzione, quindi maggior consumo di risorse e l’aumento dell’inquinamento dovuto in gran parte al trasporto delle merci. Su questo fronte l’essere umano ha fallito, scegliendo un modello di società che amplifica enormemente le differenze fra le varie etnie, per non parlare del grave disequilibrio tra i vari ceti. Chi apparteneva il cosiddetto ceto medio adesso si ritrova di svariati gradini sotto, mentre chi già era ai livelli inferiori ha la sensazione di non esistere più. Non è difficile notare che le popolazioni a fatica riescono a far sentire i loro disagi e la loro rabbia. Quando i mass-media smettono di interessarsi di un problema, possiamo stare sicuri che quel problema scomparirà anche dai nostri pensieri. Da quando è iniziata questa crisi economica abbiamo sentito parlare esperti, luminari, scienziati, premi Nobel, santoni, sensitivi, economisti di ogni genere, cultura e religione, preti, papi, presentatori, show man, politici, maghi, netturbini, calzolai e schiaccianoci! Sono anni che l’informazione ci dà appuntamento al giorno dopo. Sono anni che ci viene detto “questo si può fare”, “domani ci sediamo a un tavolo”, “abbiamo presentato una proposta”, ma soprattutto sono anni che sentiamo dire che “la colpa è tutta sua”. Solo che non si è ancora capito chi è “costui”, e perché tutti dicono la stessa cosa.
La repressione della rabbia, del disagio, della drammaticità in cui versano gran parte delle società mondiali viene fatta con metodo e sistematicità, con un’organizzazione meticolosa di cui non ci rendiamo conto. Sappiamo di star male, lo diciamo, ne parliamo con i nostri amici, con i nostri conoscenti, col passante, col panaio, con la commessa del supermercato, col barista, col fruttivendolo, col tabaccaio, con l’impiegata delle poste, con le persone in coda alle poste! Ne parliamo continuamente, poi torniamo a casa, accendiamo la tivù per sapere cosa è accaduto durante il giorno, guardiamo un tg o aspettiamo il giornale del mattino, ma tutti dicono la stessa cosa, tutti i giorni, incessantemente, inesorabilmente, inquietantemente. Giornalisti che criticano alcuni politici, alcuni politici che criticano giornalisti, politici che criticano la legge ma non la cambiano, domande senza risposta, visioni personali dei fatti, opinioni imbarazzanti, analisi scientifiche di qualunque frase venga pronunciata da chiunque si trovi sotto il fuoco di un microfono o di una telecamera; esperti del comportamento e del linguaggio che si affannano per dire la loro, che sovraffollano il già gremito palco delle analisi ideologiche.
Sarebbe ora di fare un po’ di silenzio, oppure di dare veramente parola a chi se lo merita. Il merito è un altro argomento su cui riflettere più approfonditamente, perché non concerne solo nell’ambito delle virtù e delle capacità individuali. Il concetto di merito non è disciplinato da norme giuridiche; sostanzialmente esprime un’attività del tutto discrezionale, compie valutazioni ed apprezzamenti circa l’opportunità, l’utilità, la convenienza e la giustizia di una certa scelta. Il merito non è l'”X-Factor”. Quanta giustizia c’è nel voler rendere la società indecifrabile? E quanta nel lasciare che questo accada?
Nella storia, si sono avute circa cinquemila società diverse, classificate in base a vari criteri fra i quali: il tipo di religione, le forme dell’economia, il linguaggio, l’istituzione dominate. Questa è la peggiore in termini di libertà psicologica.
Ci sono però segnali positivi.
In tempi recenti si è visto che non è necessario il contatto fisico o la vicinanza geografica per creare un’identità comunitaria, se ci sono comunicazioni efficienti e comuni obiettivi. Si sono, ad esempio, create delle comunità virtuali tramite internet. C’è chi afferma che le suddette comunità virtuali sono frutto di scelte ben precise degli utenti, i quali possono quindi, volendo, entrare e uscirne a loro piacimento, e andare a far parte di altre comunità senza particolari problemi e in tempi ristretti, perdendo così parte del concetto stesso di comunità e facendo in modo che le regole applicabili allo studio delle comunità “materiali” (comunità locali su tutte) non siano universalmente applicabili alle nuove comunità virtuali. Non ci sono ancora studi universalmente riconosciuti riguardo la funzionalità o meno di un modello di società come questo, sappiamo solo che il merito a cui ho fatto riferimento sopra, se lo stanno riprendendo con intelligenza e scrupolo tutti quelli che lo meritano veramente (è il caso di dirlo) e che la storia ha sempre soppresso: gli ultimi. Staremo a guardare. Ma nel frattempo vorrei la smettessero tutti di servirsi dei mezzi di informazione come strumento narciso andando a professare h24 di avere la coscienza pulita. Vorrei si facesse un po’ di silenzio, e che si mettessero a lavorare chi veramente vuole migliorare questa società, e non chi vuole distruggerla proseguendo un modello dichiaratamente fallimentare. Il problema è riuscire a prendere coscienza, e comprendere a chi dare questo merito.
Nessuna destinazione
La vita è un percorso disseminato di crocevia, di scelte tra una pubblicità e l’altra che le assegnano una direzione, ma che si guardano bene dal darle una destinazione. La destinazione è un punto di arrivo, una meta raggiunta, un traguardo tagliato, un risultato guadagnato, mentre una direzione non implica necessariamente una destinazione, tuttalpiù la promette, la indica, ma niente lascia presagire, poiché il futuro ci è ignoto e non possiamo conoscerlo con certezza, che quella sia la direzione più giusta (per noi, tenendo conto anche degli altri), a meno che prima della partenza non si sia studiato il percorso su una cartina stradale, o lo si sia già fatto in precedenza, dal momento che molti degli incroci della vita sono perlopiù o sprovvisti di segnaletica o ne sono provvisti in eccedenza, spesso piccoli piccoli, nascosti dietro un ramo che ne oscura la vista, come una postilla qualsiasi di un qualsiasi contratto, perciò se non si è studiato da soli il percorso su una cartina, diventa difficile orientarsi, e più facile affidarsi ad altri a nostro rischio e pericolo. D’altronde “la legge non ammette ignoranza“. Ma anche nel caso in cui lo avessimo studiato, si devono sempre mettere in conto gli ostacoli che inevitabilmente si possono incontrare strada facendo: interruzioni, deviazioni, incidenti, eccetera. Pertanto nessuna destinazione: solo tante promesse. Con la sola rassicurazione, chiaramente ambigua, del “soddisfatti o rimborsati“. Come dire: “tu intanto fidati, e se (e solo “se“) e quando arriverai (e solo “quando“) a destinazione sarà diverso da quello che immaginavi, ti rimborseremo il viaggio di ritorno”. Ciò che conta, in ogni caso, è seguire il percorso indicato.
Una volta il grado di soddisfazione si misurava in base allo sforzo fatto per raggiungerla; oggi sembra che tutto venga misurato solo in base alla facilità, alla velocità, all’immediatezza con le quali si arriva all’oggetto del desiderio, e i mezzi dei quali ci serviamo per raggiungere i nostri scopi non hanno più una rilevanza primaria, se non soltanto da un punto di vista puramente semplificativo circa lo svolgimento delle nostre azioni, che siamo stati istruiti ad interpretare come il raggiungimento di un benessere tanto pubblicizzato ed esposto con ostentata spudoratezza nei “medium“, attraverso i media, i social, e per questo tanto agognato dalle masse che continuamente ci sbattono lo sguardo contro, cosicché anche in loro possa nascere il desiderio di mettersi in viaggio andandone alla ricerca, usando quindi le sole forze seduttive della rappresentazione e della visibilità offerte dai medium.
Pena per gli obiettivi mancati (a causa di un’infinità di motivi più o meno consapevoli): la frustrazione.
Il fatto è che quando siamo arrivati, e durante tutto il percorso, non possiamo fare a meno di notare altre indicazioni che promettono destinazioni ancora più allettanti e seducenti di quella precedente, così in un batter d’occhio siamo già preparati e pronti per ripartire verso nuove promettenti destinazioni e in cerca di nuove ed emozionanti avventure. O almeno questo è quanto viene pubblicizzato dalle coreografie e dalle scenografie delle loro ambigue promesse.
Oggi tutti ci affidiamo ai navigatori, e puntualmente i navigatori, nonostante tutti gli aggiornamenti e le migliorie fornite dalla tecnologia più recente, a volte possono sbagliare a calcolare un percorso, non trovano alcune vie, numeri civici, interi paesi, ma questo di certo non basta ad inibirne l’uso che ne facciamo, perché siamo talmente abituati ad affidarci a un medium che ormai non ci facciamo neanche più caso. Se prima la percezione e la concezione di essere-nel-mondo, con-il-mondo, erano quelle determinate dalle interconnessioni con esso senza l’utilizzo di alcun medium esterno, ma solo attraverso criteri empirici dettati ancestralmente dai nostri cinque sensi, da sedimentazioni radicate nel corso della storia delle tradizioni millenarie che hanno fatto la civiltà umana, e l’hanno fatta resistere fino ai giorni nostri, oggi, anziché affidarci ai nostri cinque sensi, ci affidiamo a un medium. Quindi dalla preistoria a ieri, fino ad oggi, dove per la prima volta ci troviamo tutti “mediaticamente connessi“, utilizzando normalmente uno strumento che non solo sostituisce il fedele piccione viaggiatore, ma riscrive completamente dall’inizio la storia delle interdipendenze, delle interazioni fra esseri umani, e fra questi e la natura, causando inevitabilmente delle interferenze che si insinuano nel mezzo: tra noi e gli altri c’è il medium; il medium espone entrambi alle interferenze.
La questione interessante, sotto il profilo psicologico, è che noi non affidiamo un messaggio preciso al medium: gli affidiamo completamente la nostra intimità, che è fatta di messaggi inesauribili, oltre che spesso incomprensibili persino per noi, affinché qualcuno (si spera) possa leggerla e trovarvi dentro quello che più desidera, o che comprende meglio, o che più rappresenta il messaggio che anch’esso vorrebbe gridare al mondo, per sentirci parte di qualcosa, o avere conferma di qualcosa.
Oggi ci serviamo di oggetti che mediano i rapporti interpersonali, le compravendite, le informazioni, persino gli orgasmi. Un vibratore, una bambola gonfiabile o un sito porno sono i medium che separano l’immaginazione dalla realtà. Se tutta la nostra vita è prima fantasticata, immaginata, o anche solo orientata, e poi solo successivamente realizzata, costruita non senza fatica dopo un lungo percorso, come le esperienze ci insegnano, a dispetto invece della facilità e dell’immediatezza delle soddisfazioni tanto pubblicizzate, per quale motivo dovremmo preferire una direzione più faticosa per raggiungere l’estasi di un solo orgasmo quando c’è chi mi “offre” la possibilità di averne quanti ne desidero, e oltre, in qualunque momento, e oltre, in qualunque luogo, e oltre, seppur mediati e distorti dalle interferenze?
Freud ha percorso tutta la sua vita cercando di dare risposte a domande del genere.
E citerò lui alla fine:
“La fine improvvisa di un mal di denti può rendere incredibilmente felice chi ne è stato colpito, cosa invece impossibile se i denti non fanno mai male…”
Causare mal di denti e offrire le soluzioni più disparate utili a scacciar via il dolore promettendo felicità, anziché istituire un percorso educativo utile a stimolare la conoscenza, ovvero a risvegliare la coscienza, è una caratteristica peculiare della società di oggi. Soddisfatti o rimborsati, ovviamente.
La società dei consumi
La società dei consumi è impensabile senza la deforestazione, il deterioramento, la distruzione ambientale dovuti all’estrazione di combustibili fossili. È impensabile senza la distruzione dell’intero ecosistema marino dove ogni anno vengono sversate milioni di tonnellate di agenti inquinanti e rifiuti di ogni genere. È impensabile senza una struttura industriale sorretta da forza lavoro a basso costo, possibilmente senza diritti e senza impegni familiari, costretta per sopravvivere a soddisfare i desideri ossessivo-compulsivi dei consumatori. È impensabile senza consumatori incoscienti e inconsapevoli. La società dei consumi è impensabile senza una sensibilità fatta consumare nell’ego.
Allora tanto meglio non pensarci. È più semplice conformarsi al sistema, adattarsi, non opporsi, soprassedere, delegare, fregarsene, accettare, rassegnarsi, stare a guardare.