Come raggiungere l’irraggiungibile, senza raggiungerlo

Oggi, siamo sempre meno capaci di sperimentare il mondo vissuto. L'”essere-nel-mondo” sembra aver lasciato spazio a l'”essere-nel-mondo-a-domicilio“.
Le nostre esperienze sensoriali si “limitano” ad interazioni effettuate attraverso strumenti collocati nelle nostre abitazioni: acquistiamo, operiamo, pratichiamo, diciamo, scriviamo, eleggiamo, creiamo, immaginiamo, organizziamo, viaggiamo, relazioniamo, tutto attraverso medium posti tra “noi e il mondo“.
Viaggiamo da un punto A ad uno B spediti come un pacco, facciamo esperienze prive di sorpresa, accompagnati dallo stesso comfort che gli elettrodomestici ci offrono. La nostra è un’interrotta attività consumistica che non si esaurisce, data la vastità infinita delle offerte e delle semplificazioni che l’industria dell’intrattenimento e del comfort mette a disposizione.

Pur rimanendo fissi davanti allo schermo, siamo comunque in qualche modo trasportati, o forse sarebbe meglio dire “trascinati”, in contesti diversi e distanti da quella che è la nostra localizzazione fisica, e andiamo così incontro ad una costante “duplice esistenza spaziale“. Ciò comporta un’inevitabile perdita di senso del luogo: lo spazio occupato fisicamente si fa evanescente fino a diventare quasi del tutto estraneo e privo di significato, a un individuo che si trova incessantemente “qui e altrove“, e in definitiva permanentemente in un “non-luogo“. Il nostro corpo rimane fisso in uno spazio limitato mentre la nostra mente oscilla nell’universo infinito di un “pieno effimero“, dandoci la sensazione di essere presenti ovunque nel flusso della banca dati. Possiamo quindi definire questa oscillazione tra il “qui e l’altrove” come una forma di schizofrenia artificialmente prodotta. Un conflitto interiore tra spazio, tempo e fisico, tra percezione e mobilità, che sovverte la conoscenza del mondo che ci circonda nella reale realtà; un effetto dislocante prodotto dall'”assunzione” mediatica che “neutralizza” ogni luogo. Siamo, infatti, sempre altrove e mai a casa, e anche contemporaneamente ovunque e sempre in casa, accompagnati come siamo dal continuo trasmettere artificiale.

Oltre a perdere il dominio della nostra sfera privata, per via della “domiciliarità” delle relazioni, perdiamo anche contatto con la sfera pubblica, dato che ormai ogni luogo viene associato alla realtà mediatica rappresentata con tenacia negli spazi domestici. Ne consegue un abbandono di interesse verso l’esperienza sensoriale diretta, divenuta superflua e soprattutto scomoda. Tale effetto “schizofrenico” lo andiamo addirittura ricercando, poiché assuefatti a questa ripetuta “doppia esistenza spaziale“, non più avvezzi come siamo ad adattarci ad un singolo spazio privo dell’influsso degli “strumenti di dispersione“. Ricercata è, appunto, la possibilità di immergerci nel flusso mediatico, proprio perché aneliamo d’evadere dalla nostra condizione domestica.

Viviamo e facciamo esperienza di un surrogato del mondo, che è così in grado di subentrare integralmente nel vissuto.

Siamo in presenza, dunque, di una forma di condizionamento assolutamente impercettibile, visto che lo strumento stesso di questo assoggettamento è fatto coincidere pragmaticamente con la realtà che sperimentiamo.

In effetti è per questo che soffriamo tutti di un’intima forma di “complesso d’inferiorità” nei confronti di un mondo che ci viene rappresentato sempre più irraggiungibile ma allo stesso tempo surrettiziamente a portata di mano, sempre a disposizione, pur essendo inarrivabile, impalpabile e inabitabile nella reale realtà. Siamo costretti, paradossalmente, a riformulare costantemente i nostri bisogni, nei confronti di prodotti sempre più distanti da quella che è la nostra natura antropologica culturale. Sentiamo di essere sempre dietro rispetto a quello che viene messo davanti, in evidenza, e che implicitamente si presenta come l'”unica realtà“. Un’inadeguatezza che ci spinge alla corsa per tentare di tenere il passo, accompagnati dalla paura costante d’inciampare e di rischiare così di rimanere indietro, esclusi da quel mondo di meraviglie che ci sembra essere sempre a portata di mano, ma allo stesso tempo irraggiungibile. Rincorriamo l’artificiale trasformando noi stessi in esseri artificiali, disumanizzati, e questo tentativo di adeguamento quasi ci costringe a pensare che il nostro corpo debba essere qualcosa che deve venir superato.
Di fatto, se ci pensiamo bene, i limiti del nostro corpo ci impediscono di essere ciò che vogliamo: rincorriamo tutti il sogno di diventare “qualcuno“, di trasformarci un giorno in “self made man” a tutti gli effetti. In definitiva, desideriamo non essere più inferiori al prodotto che siamo abituati a consumare, ma finalmente parte integrante di esso: prodotti noi stessi.

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