Quando l’uomo imparò a dominare il fuoco certo non poteva immaginare che un giorno quell’impresa sarebbe diventata uno dei simboli evolutivi della storia dell’esistenza. Così come quando inventò la ruota, o più recentemente ha imparato a dominare l’elettricità, a servirsi del vento, dell’acqua e del sole per produrla. Queste invenzioni, assieme alle infinite altre, hanno migliorato, o quantomeno semplificato la nostra vita. La tecnologia nasce anche dall’esigenza di ridurre la fatica di vivere, in ogni campo. Pensiamo alla lavorazione, alla produzione industriale e artigianale e alle applicazioni in campo medico. Sono miliardi le persone che ogni giorno riescono a curarsi e a migliorare la propria vita, ad allungarla, grazie alla tecnologia. Pensiamo al fornello a gas, ad esempio: ci ha consentito di guadagnare molto tempo da dedicare ad altre cose, oltre, ovviamente, ad aumentare la qualità della cottura del cibo eliminando gran parte delle sostanze dannose e cancerogene per il nostro organismo. Oppure alla macchina per le ecografie: ci permette di guardare all’interno del nostro corpo attraverso un monitor per individuare malattie che altrimenti degenererebbero nascoste. L’identificazione o la cura di tutte le malattie conosciute fino a oggi dall’uomo sono possibili grazie a strumenti tecnologici che permettono di studiare da vicino il mondo sub-microscopico che abita o invade il nostro corpo. Ci sono persone, come il grande scienziato Stephen Hawking, che avrebbero abbandonato da tempo le loro scoperte se la tecnologia non gli avesse fatto da protesi estensiva per interagire con l’ambiente circostante. Altre non potrebbero respirare, molti altri sarebbero già morti d’infarto, altri ancora non potrebbero parlare o sentire, e si morirebbe ancora per un comune raffreddore. Sono migliaia, milioni, infinite, le applicazioni in cui la tecnologia si è resa utile per migliorare e allungare la nostra esistenza. È vero, come in tutto ciò che esiste non c’è solo il buono. L’eccessivo sfruttamento delle risorse e la distruzione di interi territori, il consumismo, l’inquinamento, le tecnologie belliche, sono tutti fattori che derivano da un perfido utilizzo della tecnologia, ma che non per questo deve essere criminalizzata nella sua totalità. Oggi consideriamo la tecnologia come una minaccia che rompe gli schemi tradizionali dai quali attingevamo per ampliare la nostra conoscenza, il nostro sapere, ed è così, ma solo in parte. Ad esempio, personalmente, la Tv come è fatta oggi, e la funzione manipolatoria che ha, non mi piace, poiché brandisce smisuratamente, e senza alcun controllo, stereotipi dannosi come unico vocabolo di comunicazione, ma questo non basta a convincermi che debba essere tutta da criminalizzare. Un programma televisivo indegno non mi fa dimenticare quello più meritevole, o un film penoso non oblia quello migliore.
Poi c’è la rete, internet. Internet nasce per questioni belliche, e nessuno di quelli che hanno inventato e utilizzato all’inizio il linguaggio HTML si sarebbe mai immaginato che un giorno avrebbe messo in comunicazione miliardi di persone in tempo reale. Era inimmaginabile, come per Einstein, e per tutta la comunità scientifica, che la sua Relatività avrebbe rivoluzionato la concezione che fino a quel momento si aveva dello spazio e del tempo. La tecnologia è ciò che ha permesso ad Einstein di formulare la sua relatività e a noi di comunicare in massa. Ci si potrebbe chiedere a cosa servono realmente queste scoperte (e dobbiamo chiedercelo, ma per comprendere, non per sentenziare), ma in quel caso verrebbe da dire mancare di una visione filosofica, critica dell’esistenza. Possiamo postulare dunque che per noi esseri umani non è importante sapere quanto di buono c’è in quel che facciamo (che a giudicare dalle catastrofi provocate nel corso della storia, a fatica è possibile affermarlo), ma se quello che facciamo accresce la nostra conoscenza oppure no. La curiosità nella novità, nella scoperta, fa parte di un individuo con una personalità temeraria, aperta alle avventure, come solo la specie umana sa essere. Se c’è del buono o del cattivo sarà, come sempre, il tempo a stabilirlo, e lui soltanto, nonché la qualità che ognuno di noi, individualmente, mette nell’utilizzare gli strumenti a disposizione.
Se pensiamo che il “buono” di internet siano solo i social network, omettiamo di dire a noi stessi una verità che effettivamente non è perfettamente definibile e che si nasconde nel modo di comunicare. Mai nella sua storia l’uomo ha potuto comunicare così velocemente e contemporaneamente scambiandosi informazioni, pensieri, idee. Non siamo mai stati così vicini fra noi come oggi, però, contemporaneamente abbiamo la sensazione (giustificata) di essere così lontani dal contatto umano, dall’empatia che si crea solo con il contatto fisico. È vero, ma la rete non è soltanto uno strumento attraverso il quale scambiamo le nostre pseudo-emozioni; scambi che, oggettivamente, sono profondamente degradanti. La rete è soprattutto la più grande enciclopedia mai concepita dall’uomo, certamente molto disorganizzata, ma grazie alla quale è ci possibile scambiare informazioni alla stessa velocità con la quale viaggiano i neuroni nel nostro cervello. Se c’è qualcuno che la utilizza solo per guardare materiale pornografico non vuol dire che la sua funzione sia solo quella. Di sbagliato, nell’approccio che abbiamo alla rete, e come in moltissime altre cose che fanno parte della nostra vita, c’è l’assenza di cultura individuale, e anche la cattiva (o assente) educazione che riceviamo riguardo all’utilizzo della vastità infinita delle informazioni che contiene.
Se non sappiamo guidare la macchina e non conosciamo un minimo di codice della strada ma ci immergiamo a tutta velocità sull’asfalto del traffico cittadino, alla meglio commetteremo una lunga serie di infrazioni o, più probabilmente, causeremo un incidente. Quel che è certo è che a nessuno verrebbe in mente di prendersela con l’asfalto o con le altre macchine rimaste coinvolte nell’incidente.
Il vero problema delle tecnologie è il loro cattivo utilizzo. A causa di esse si stima che fra qualche anno la forza lavoro necessaria impiegata nella produzione sarà pari al 20% del totale; il restante 80% non troverà collocazione. Potrebbe essere questa l’occasione di riscrivere la funzione esistenziale dell’essere umano, indirizzato al lavoro forzato dall’inizio della Prima Rivoluzione Industriale? Può questo mutamento irreversibile occupazionale far sì che l’uomo possa dedicare il tempo a disposizione ad altre cose più vicine al suo essere? È una sfida che si profila all’orizzonte, visibile e già tangibile, che forse, vista l’ostinazione irrazionale a voler mantenere in uso un’etica del lavoro che non esiste più, e che forse non è mai davvero esistita, se non per esigenze capitalistiche egoiste, e che sta mietendo vittime ovunque attestando il proprio fallimento, sarebbe il caso di affrontare seriamente.
P.s. È certo che all’inizio a molti il fuoco incutesse paura, e che quindi lasciassero ad altri il compito di dominarlo. Non per questo abbiamo smesso di perfezionare l’utilizzo che ne facciamo.
L’ha ribloggato su alessandrapeluso.
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