Perché oggi critichiamo tutto?

Non è vero. Anche in passato criticavamo tutto, o almeno quello di cui venivamo a conoscenza, ma è solo di recente che i media si sono accorti che anche il popolo ha dei gusti (criticabili, ovviamente), e “pensa” e si “esprime”.
Partiamo da un fatto incontrovertibile: i mass media hanno da sempre presentato un pensiero a senso unico, unilaterale: io parlo, tu ascolti. Non c’erano alternative e nessuna diretta interazione. Dagli esordi delle comunicazioni di massa si è sempre inscenato uno spettacolo basandolo su questo principio, e con l’avvento della radio prima e della televisione poi, è stato introdotto negli anni in tutte le case, in tutte le famiglie, trasformando tale “canone di unilateralità” in atto routinario culturale, che antropologicamente è sempre appartenuto alle rappresentazioni teatrali. Un altro fatto incontrovertibile è appunto che le maschere, gli attori, che presentavano uno spettacolo al pubblico, da quest’ultimo ispiravano le loro narrazioni, dalla plebe e dai nobili, dalle sfumature dell’uomo, dai suoi intimi difetti o capricci o debolezze, con tutte le contraddizioni culturali del caso. E la caricatura dei difetti dell’uomo era appunto ciò che più attirava (e attira) il pubblico. Ma lo spettacolo, la comunicazione e l’informazione di massa poi, sono sempre stati omologati come “rappresentazione unilaterale“.

Negli ultimi decenni, spettacolo e informazione di massa si sono amalgamati sempre più, andando oltre, nella ricerca esasperata delle più intime sfaccettature dell’uomo, per tenere incollata l’attenzione su se stesso che non sulle radici delle sue drammaticità e inefficienze. In passato il dramma raccontava una storia che aveva una logica narrativa, un messaggio ben preciso, oggi ci troviamo invece di fronte a una rappresentazione esasperata delle contraddizioni umani che non raccontano più una storia, ma un susseguirsi di fatti che non hanno alcuna connessione fra loro, se non la loro stessa contraddizione: non esiste più un percorso definito e definibile, ma tanti sentieri senza indicazioni che formano un labirinto privo di di entrata e vie d’uscita. Tali irrazionalità, divenute oltremisura caricaturali, imbarazzanti, avevano (ed hanno) come unico scopo quello di aumentare i “dati di ascolto” per incrementare i profitti economici derivanti dagli sponsor, dai produttori che investono parte del loro capitale per vendere i loro prodotti. Tutta la comunicazione vive grazie a questi investimenti.

Ogni notizia o spettacolo infatti enfatizza aspramente i lati oscuri e bizzarri dell’uomo che non i suoi aspetti positivi, che invece non riuscirebbero a suscitare la stessa attenzione con altrettanta efficacia, ad eccezione di alcuni casi che, comunque, non incidono sulla regola dominante. L’entrata in scena dei “reality” sono infatti l’emblema e il culmine di quest’abitudine. Lo “spettacolo da buco della serratura” è oggi l’elemento predominante nella comunicazione.

Raccontare le intimità della gente è come circondare scenografia e attori di specchi: è una debolezza umana, ed è normale che allo spettatore venga il desiderio di specchiarsi, di immedesimarsi, di immaginare cosa farebbe “al posto degli altri“. Il narcisismo, come la curiosità, sono elementi che hanno da sempre prevalso negli esseri umani e che lo hanno contraddistinto da qualunque altra forma di vita.

Fatto sta che negli anni la comunicazione si è avviluppata sempre più in se stessa, alla ricerca del profitto anziché del messaggio. Possiamo parlare di un’evoluzione involutiva: ossimoro che rispecchia bene le contraddizioni della comunicazione.
Noi, gli spettatori, come da prassi, abbiamo assistito passivamente a questo processo involutivo, e in un certo qualmodo ancora lo subiamo.

Diciamo pure che se la sono cantata e suonata da soli per anni.

Oggi, però, con l’avvento delle nuove tecnologie, i social network, il digital sharing, si è data voce a tutti, e i media, che per loro natura devono fare spettacolo, trovano nella voce e nelle espressioni del popolo un’inesauribile fonte di materiale da spettacolo, perciò non esiste più un minimo di ragionevolezza nell’informazione.

Per vendere un prodotto – una notizia, un programma, un talk-show, una personalità – si deve colpire l’attenzione del consumatore/spettatore, e non importa quanto quel prodotto sia di qualità o quale contenuto nasconda al suo interno, ciò che conta è la capacità di attirare attenzione su di sé. È un principio fondamentale del marketing, che se non utilizzato complica e riduce l’aspettativa di vita sul mercato del prodotto. Ed è proprio questa concorrenza sfrenata, priva di un fondamento logico narrativo, a rincorrere se stessa senza trovare misura o buon senso.

Il pensiero critico è innato nell’essere umano, non deriva dall’esperienza ma anzi la precede, altrimenti oggi non saremmo qui. Ma quello che non si è capito, o si fa finta di non capire, è che oggi tutto è divenuto pubblico: il pubblico (lo spettatore) è di dominio pubblico. E in questo circolo vizioso, più o meno consapevolmente ci stiamo affogando tutti, informazione compresa, che per prima non riesce a cogliere il senso del profondo cambiamento che è avvenuto nella cultura sociale.

Non esiste, e non può esistere un unico pensiero, e pretendere di spigare questo fenomeno criticando la critica, è davvero paradossale. Ma è ciò che sta avvenendo.

È emblematico, ma solo perché attuale, il caso de “La grande bellezza“, dove leggo di giornalisti che si lamentano del fatto che una parte di italiani o intellettuali critichino l’Oscar assegnatogli, autoinnalzandosi a supercritici inconsapevoli e spesso anche arroganti. Questo è un chiaro esempio di nostalgia del “pensiero unilaterale“. Come si può pretendere che a tutti, tutti, possa piacere qualcosa, qualunque cosa essa sia, alla stessa maniera e con la stessa passione? Allora la “Merda d’artista” di Manzoni, secondo i super critici, dovrebbe piacere oggettivamente a tutti? Oppure oggettivamente non dovrebbe piacere? Per fortuna esiste la relatività, la soggettività, l’individualità. La qualità è quella cosa che sta tra il soggetto e l’oggetto: non si può pretendere di oggettivarla a priori anteponendo i propri gusti come modello universale. È sciocco.

Giornalisti, opinionisti e commentatori che si vantano di essere più intelligenti di altri per il semplice fatto che loro, a differenza di “quegli altri” che non capiscono nulla di cinema (nel caso specifico) e quindi non meritano di esprimersi, certe cose invece le capiscono. Ecco, io vorrei far notare a tutti, tutti, che “il mondo è bello perché vario“, ricco di sfumature, odori, pensieri, culture. Pensa un po’ che noia fossimo tutti uguali.

Un altro esempio di esasperazione è un caso che mi è capitato di vedere sulla Tv pubblica di recente:
Una tizia, sconosciuta alle masse scrive un post sul suo profilo Facebook nel quale esprimeva tutta la sua disapprovazione riguardo a un cambiamento apportato nelle scuole del comune di Milano. Il cambiamento riguardava il riconoscimento delle coppie conviventi dello stesso sesso con figli. Con tale riconoscimento il comune ha deciso di cambiare la voce “Firma dei genitori o di chi ne fa le veci” con “Genitore 1” e “Genitore 2“. Al di là delle considerazioni, che non voglio discutere qui, i media hanno ripreso quel post e ci hanno costruito una puntata sopra dove gli ospiti invitati erano uno psichiatra, un transessuale, una scrittrice e la tizia che aveva scritto il post incriminato. Lo psichiatra, con un evidente spilla a forma di crocifisso attaccata sulla giacca, era contrario alla modifica, e lo esprimeva con rabbia e disgusto. Nella discussione è venuto fuori che lui non ha mai avuto il padre, che è cresciuto con la zia e la mamma, e quando una di loro doveva firmare qualcosa per la scuola non si è mai sentito in imbarazzo per la sua situazione: «Non è una scritta su un foglio che può cancellare l’amore in famiglia». Salvo poi inveire sul fatto che la scritta “Genitore 1” e “Genitore 2” erano quanto di peggio si potesse fare poiché destabilizzano profondamente la psicologia del bambino, che per natura ha un padre e una madre. È evidente la confusione. La tizia che aveva scritto il post non è riuscita a dire mezza parola, la transessuale veniva schiacciata dalle urla dello psichiatra, così come la scrittrice. Risultato: un programma di intrattenimento senza storia né logica, né messaggio. Poi è arrivata la pubblicità.
L’unico elemento certo è che la puntata è stata “organizzata” prendendo come spunto la “critica” di una tizia sconosciuta postata su un social. Ma questo è solo un caso su tanti.

Come sappiamo, grazie alla rete, ai social, al digital sharing, ognuno ha la possibilità di esprimere le proprie idee. È una grande libertà. Ma anche una colpa, un demerito della società, perché nella stessa misura in cui è concessa “libertà” di pensiero, ci è dato il suo opposto: ci incateniamo ad esso e pretendiamo di imporlo con ogni mezzo, perché “noi abbiamo ragione, e la pretendiamo“. Infatti è difficile affrontare una conversazione senza cadere in una discussione litigiosa, spesso fatta di colpi di link. Critichiamo, ma difficilmente accettiamo le critiche.

Assorbiamo tutto e il contrario di tutto, e tutto e il contrario di tutto viene amplificato e rilanciato dai media all’ennesima potenza, fino a generare una concatenazione di eventi che non seguono alcuna logica, ma solo la “notizia” più eclatante, adatta a tenere incollata l’attenzione di un pubblico.

Di fatto, i nostri Tg sono pieni di “social”, di commenti, di email, di video, post, e molti programmi televisivi sono ideati sulla base dei “presunti” gusti del pubblico espressi attraverso i social: pensiamo solo ai “mi piace”. In questa forma esasperante di “assecondare” i gusti del pubblico, mettendo in scena lo spettacolo del “tutto e il contrario di tutto“, chi ne soffre di più, alla fine, è proprio il pubblico, la capacità cognitiva degli individui che lo compongono, il loro senso individuale di percepire il mondo intorno sé, e quindi anche le informazioni che continuamente gli arrivano dai media. E più il pubblico viene portato all’esasperazione, più esasperatamente si cerca di inseguirlo. I media generalmente stavano davanti e il pubblico dietro: oggi il pubblico sta davanti, confuso dai media, e media stanno dietro, confusi dal pubblico che tentano con ogni mezzo di “accontentare“, e lo spettacolo che mettono in scena, esasperatamente confuso, viene riposto davanti al pubblico. È una catena di Sant’Antonio.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Per concludere, la confusione è data dal privato che è divenuto di pubblico dominio, che prima dell’avvento dei social era pressoché privato. La comunicazione non riesce a cogliere e a razionalizzare questo cambiamento, e più di tutto non riesce a contenere il disprezzo che prova nei confronti della critica che, come abbiamo visto, fino a pochi anni fa rimaneva dentro le quattro mura di casa, o al bar, o nei teatri, o nelle piazze. Si cerca di accontentare tutti, ma quel che nessuno comprende o fa finta di non comprendere, è che si ottiene l’effetto opposto.

Non è un caso che il mondo dell’informazione sia dominato dall’ignoranza.

1 commento su “Perché oggi critichiamo tutto?”

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