(Qui puoi trovare la 1ª Parte, qui la 2ª, qui la 3ª, qui la 4ª)
Abbiamo bisogno di qualcuno da odiare perché abbiamo bisogno di qualcuno a cui attribuire la colpa per la nostra abominevole e intollerabile condizione, così come per le sconfitte che patiamo allorché tentiamo di migliorare tale condizione e renderla più sicura. Abbiamo bisogno di quel qualcuno per scaricare (e in questo modo eventualmente mitigare) il senso devastante della nostra stessa inadeguatezza. Affinché questo scaricamento abbia successo, c’è comunque bisogno che l’intera operazione nasconda ogni traccia di vendetta personale. L’ultimo legame tra la percezione del carattere disgustoso e odioso dell’obiettivo prescelto e la nostra frustrazione in cerca di uno sfogo deve rimanere segreto. In qualunque maniera sia stato concepito, tenderemo dunque a giustificare la presenza dell’odio, degli altri che ci sono intorno e a noi stessi, con il nostro desiderio di difendere quelle cose buone e nobili che loro, quegli individui maligni e spregevoli, denigrano e contro cui cospirano. Lotteremo per dimostrare che il nostro odio, la nostra determinazione a sbarazzarci di loro, trovano ragione (e giustificazione) nel desiderio che abbiamo che possa sopravvivere una società ordinata e civile. Insisteremo nel sostenere che li odiamo perché vogliamo un mondo libero dall’odio.
Forse non si accorda con la logica delle cosec ma si accorda bene con la logica delle emozioni il fatto che “die unterklasse” (la sottoclasse) e altri come loro – rifugiati senza casa, sradicati, “non apparenti“, richiedenti asilo che non lo ottengono, sans papiers (senza documenti) – tendono ad attirare il nostro risentimento e la nostra avversione. Sembra che tutta questa gente sia stata creata a misura delle nostre paure. Sono disegni animati su cui i nostri incubi incidono incidono le didascalie. Sono tracce viventi (sedimenti, segni, incarnazioni) di tutte quelle forze misteriose, comunemente chiamate “globalizzazione“, a cui attribuiamo la responsabilità per il timore che abbiamo di venire forzatamente strappati dal luogo che amiamo (dal paese o dalla società) e di finire per strada senza alcuna indicazione stradale e senza conoscere la destinazione. Summa summarium, sono adatti, perfino ideali per il ruolo di una effige su cui, anche solo per procura, bruciate quelle forze che non riusciamo a domare e che sono al di là della nostra portata.
Il “leitmotiv” introdotto da da Wozzeck con le parole wie arme Leute (noi povera gente) segnala l’incapacità dei personaggi dell’Opera di trascendere la loro situazione: un’incapacità che i personaggi sulla scena condividono con la folla che assiste alla rappresentazione. Gli artisti romantici vollero vedere l’universo in una goccia d’acqua. I detrattori di Wozzeck, come lui stesso, non potrebbero essere che delle gocce d’acqua, ma, se tentassimo, vedremmo in loro, se non l’Universo, sicuramente la nostra “Lebenswelt” (mondo vitale, il nostro universo, la nostra comunità, società).
Fine.
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1 commento su “(Ultima Parte) Sulla responsabilità sociale. Dall’opera: “Wozzeck”, di Alban Berg, Berlino 1925. Fonte letteraria: “Woyzeck” di Georg Büchner.”