Nell’era della comunicazione digitale siamo diventati tutti cacciatori di notizie, o meglio “pescatori“, dal momento che la rete ha più la consistenza strutturale di un oceano che di un luogo definito e limitato come lo è una riserva di caccia. Andiamo a pesca di notizie di ogni razza, misura e peso, esigenza e gusto, e brandiamo le nostre prede come trofei sulle nostre bacheche esposte al pubblico per dimostrare e rafforzare le nostre idee, il nostro “status di appartenenza“: «Ecco! Hai visto che avevo ragione!?»
Cerchiamo continue conferme nel mare della rete.
Gettiamo continuamente le nostre reti nella rete per pescare il pesce più grosso da esibire al pubblico e confermare così a noi stessi e agli altri le nostre ragioni e rafforzare le nostre convinzioni. Da insicuri quali siamo sentiamo l’esigenza di aver qualcuno accanto, al di fuori di noi stessi, che rafforzi e confermi la nostra autostima. E nell’infinita vastità della rete possiamo trovare con facilità tutte le conferme di cui abbiamo bisogno a sostegno delle nostre ragioni. E la pesca, essendo sempre aperta e infinitamente ricca, è “felice”, esaltante, interessante, stimolante, poiché ogni qualvolta gettiamo la rete in mare non capita mai di tirarla su vuota, e quel che ci troviamo impigliato riesce sempre a mantenere alti sia il nostro senso di soddisfazione che di insoddisfazione: la sera non torniamo mai a casa con la cambusa vuota, e se ci applichiamo un po’ possiamo pescare pesci sempre più grossi, ma al tempo stesso il giorno dopo ci sentiamo ugualmente vuoti, come se quello precedente non avessimo portato a casa niente.
È un circolo vizioso che può ripetersi all’infinito.
Quello che non riusciamo più a fare, però, è esprimere la nostra opinione individuale formata attraverso un percorso culturale individuale.
Conferme.
Abbiamo bisogno sempre più di conferme poiché il bombardamento di informazioni continuo mette in crisi le nostre percezioni e convinzioni, perciò andiamo alla ricerca di articoli e notizie già confezionati e pronti all’uso.
Ma l’essere umano, per sua natura, non è colui che “dice no“, e neppure colui che “dice sì“, bensì colui che domanda “perché?“. E sembra che oggi, nell’era del digital sharing, questo approccio cognitivo nei confronti del mondo che ci circonda sia stato messo prevalentemente – inconsciamente – da parte. In effetti, come mi hanno fatto osservare, possiamo affermare con semplicità che oggi più di ieri “è più facile non pensare che farlo“. In particolare in un mondo dove i comfort, materiali e psicologici, sono imposti come meta principale dell’esistenza dal modello sociale imperante, che ci riconosce un posto “rispettabile” solo quando abbiamo imparato a limitare, o a rassegnare, o a deporre i nostri “perché?“, e ad accontentarci di quel che gli scaffali della vita – essendo ormai essa diventata un grande centro commerciale – espongono-propongono-offrono-vendono. Naturalmente, a chi non può permettersi di acquistare la subcultura disposta sugli scaffali illuminati dai neon, viene negato quel posto.
È ormai una condizione preponderante, sempre più estesa: l’uomo moderno deriva le proprie convinzioni, i propri giudizi, da fattori esterni alla propria volontà. L’eteronomia è uno stato esistenziale endemico nella nostra società.
Nella società mediatica, dove le informazioni vengono recepite/percepite attraverso i media e non attraverso un percorso evolutivo culturale individuale, soggettivo, l’uomo “sceglie” ciò che la figura mediatica predominante gli offre. Non approfondisce, ma si fida ciecamente di ciò che ascolta, e non di ciò che elabora attraverso percorsi individuali che gli consentirebbero di trascendere, di uscire da quel centro commerciale illuminato per affrontare l’oscurità, il lato notturno della vita umana.
Kant diceva che “le cose non stanno nella mente, ma esse vengono riconosciute e formate nella mente“, e quando le nostre basi culturali individuali sono carenti, e dall’esterno veniamo continuamente bombardati da informazioni ognuna in aperta contraddizione con l’altra, già in conflitto tra loro, in noi, nel nostro modo soggettivo di percepire tali informazioni si verificano corti circuiti che non siamo più in grado di dominare e razionalizzare. Da qui nascono le nostre insicurezze. Non abbiamo più certezze, e ci abbandoniamo passivamente a quel conflitto più o meno sistematico a cui assistiamo, e allora l’unica cosa che ci sentiamo in grado (e in dovere) di fare è quella di accendere i motori e navigare in mare aperto a caccia di pesci già confezionati e pronti all’uso, pronti da esibire e da mangiare. Solo che non riusciamo a capire “perché?” la nostra fame e il nostro desiderio di esibire i trofei non trovano mai soddisfazione.
Non dialoghiamo più con noi stessi, ma lo facciamo solo attraverso gli altri. È una bella gatta da pelare. È una brutta rassegnazione.
L’ha ribloggato su alessandrapeluso.
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