“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Italo Calvino
“Le città invisibili” (Einaudi, Torino 1972, p. 170)
Ma è certo che gli uomini e le donne che si sforzano di scoprire «chi e cosa non è inferno» devono far fronte a pressioni di ogni genere che li spingono ad accettare ciò che essi insistono a chiamare «inferno». L’inferno è ormai routinizzato, non proviamo più sorpresa e non sappiamo più distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Quando abbiamo a che fare con il male, la prima volta ci sbalordiamo ed “esclamiamo!”. Dopo la seconda, la terza, la quarta volta che lo si incontra, la nostra reazione sarà al massimo un “ecco che ci risiamo…”, che ne attesta il riconoscimento routinario, che ne esprime la presenza abituale nella nostra vita quotidiana, nel nostro modo di vedere e vivere lo spazio che ci circonda. E lo si accetta e lo si somatizza, dando così combustibile per alimentare le fiamme dell’inferno.
Solo l'”innocenza” di un bambino è in grado di testimoniare quanto e quanti siamo colpevoli. E il male, è che non sorprende affatto scoprire che siamo tutti adulti.