Come un fiume non riesce a dominare la sua acqua oltre gli argini durante un’abbondante alluvione, o va in secca nei periodi di siccità, così l’uomo si sovraespone o sottoespone, o sproporziona nel suo modo di essere e di mostrarsi quando viene meno la consapevolezza e il controllo del sé. Quando il commercio, anche umano, il consumismo ci sopraffà, siamo come gettati in un mondo che non ci appartiene e a cui sentiamo di non appartenere, e perciò non riusciamo a decifrare.
Chi non sa mai cosa indossare, ad esempio, esprime incapacità nel mostrare se stesso. Scegliere il vestito da mettere equivale a scegliere la parte di noi che vogliamo rappresentare agli altri, e anche a noi stessi. Quando siamo indecisi sull’abito da indossare, esprimiamo un conflitto con noi stessi. Non è un caso che chi pur avendo mille vestiti nell’armadio e ne acquisti sempre di nuovi senta insieme il costante bisogno di “rinnovare” anche se stesso, o la rappresentazione che vuol dare di sé. Il corpo non è solo “una parte” del mondo esteriore ma anche “una parte” del mondo interiore, così i vestiti non sono solo oggetti materiali, ma anche “involucri personali”. “L’abito fa la persona”: in questo consiste il loro significato sociale.
“Il vestito copre”, “il vestito tradisce”, “il vestito contraffà”.
Si può però anche dire che l’abito ci fa, poiché il suo significato antropologico non si esaurisce nel fatto che ci sentiamo osservati e giudicati dagli altri secondo ciò che indossiamo; noi lo sperimentiamo non solo come qualcosa che ci espone e che contemporaneamente ci protegge e ci nasconde dallo sguardo degli altri, ma anche come qualcosa che ci appartiene, nel quale ci sentiamo bene e “liberi” oppure a disagio ed “oppressi”, e inoltre come qualcosa che non solo ci portiamo, ma che anche “ci porta”, ci aiuta (di fronte a noi stessi o agli altri), ci ostacola, ci ingrandisce o restringe, e vela e nasconde a noi stessi il nostro corpo. D’altronde oltre alla nostra pelle cosa c’è più “vicino” a noi del vestito? Dobbiamo (dovremmo) fare però attenzione al fatto che spesso “vestiamo la società” più che noi stessi, dal momento che il “marketing dell’apparire” propone prepotentemente abiti alla moda che sono ormai uniformi anziché accessori individuali, personali, intimi. La moda dà in pasto degli short particolari e tutti ci affrettiamo ad indossarli/desiderarli/possederli, così come stivali, gonne, e tutto ciò che la moda anno per anno decide di venderci (questo naturalmente è un aspetto che non riguarda solo la sfera femminile, o solo gli abiti). Anche (soprattutto) il colore viene imposto. Non siamo più noi a fare la moda, ma la moda a “costruire” noi. Non rappresentiamo più noi stessi ma la firma che indossiamo. Dunque oggi la domanda che più spesso ci facciamo (inconsciamente) quando scegliamo un vestito da indossare è “chi indossiamo oggi?”, e che si tratti di noi o della marca è irrilevante in base ai nostri criteri di scelta. È a causa di questa interconflittualità, o “interconnessione conflittuale” tra l'”interiorità” e l'”esteriorità”, che a fatica riusciamo a incanalare fuori il dentro con equilibrio. Quando l’equilibrio è assente, quando gli argini si rompono, e l’interdipendenza tra il dentro e il fuori si fa confusa, disarmonica, si verifica una sovraesposizione di uno sull’altro. Resta, però, il fatto che oggi sempre meno sappiamo vestirci di noi stessi: tanto meno sappiamo “indossare” noi stessi, tanto più ci vestiamo di estranei.
Tutto questo, naturalmente, è in linea con il senso di alienazione che proviamo, e che è provocato dalla società dei consumi, dove tutto ha solo ed esclusivamente un valore commerciale fine a se stesso; dove tutto, personalità compresa, viene consumato. Un conflitto interiore, che si potrebbe definire “alla moda”.