Ci hanno sempre detto che i doveri vengono necessariamente prima dei bisogni, e a forza di ripeterlo – e di ripetercelo – ci abbiamo creduto, quando invece la natura del mondo “è” l’esatto opposto. Siamo stati e siamo costretti a subire supinamente una lotta di potere, nella sostanza anche se non nella forma, per costringere la forza lavoro ad accettare, in nome della nobiltà del lavoro, una vita tutt’altro che nobile o rispondente ai principi di dignità morale. Abbiamo sempre dato priorità a “ciò che si può fare” rispetto a “ciò che bisogna fare”, rendendo così la soddisfazione dei nostri bisogni irrilevante dal punto di vista della logica, e soprattutto dei limiti, dello sforzo produttivo.
Da un anonimo fabbricante di calze (Cit. S. Polland, “Factory discipline in the industrial revolution”, 1806):
“Ho constatato la più profonda avversione, da parte degli operai, per qualsiasi orario o abitudine regolari… Erano insofferenti perché non potevano andarsene e ritornare quando volevano, riposarsi quando credevano e continuare a fare quello che avevano sempre fatto; e durante il tempo libero si lasciavano influenzare negativamente da altri lavoratori, al punto di provare un completo disgusto per l’intero sistema, per cui sono stato costretto a chiudere i battenti.”
Ci hanno sempre detto che dovevamo “agire” invece di “pensare”. Non siamo più capaci di esprimere la nostra personalità, la nostra creatività nei lavori che facciamo, poiché la rigida soggezione a una routine meccanica e amministrativa ce lo ha impedito sistematicamente per generazioni.
J. L. e Barbara Hamnond (1760-1832, “The Town Labourer”):
“Le classi alte non riconoscevano ai lavoratori alcuna qualità se non quelle apprezzate da un proprietario di schiavi nei suoi servi. L’operaio doveva essere solerte e industrioso, non pensare con la propria testa, dimostrare lealtà e attaccamento soltanto al suo padrone, riconoscere che il suo posto nell’economia del paese era quello dello schiavo in una piantagione di zucchero. Le molte virtù che ammiravano in un uomo, diventano difetti in uno schiavo.”
Siamo stati separati dalla natura per spianare la strada alle classi più elevate, e farle trionfare su di essa, dandogli così modo di ostentare egotisticamente una superiorità innaturale, inesistente; e sulla quale nessuna scienza, dall’inizio della storia dell’uomo, si è mai neanche lontanamente sognata di elevare alcuno. La natura ci ha pregiati (e chissà per quanto ancora potremmo parlare di pregi) del beneficio della logica e del dubbio, e l’uomo stesso è riuscito senza scrupoli nell’intento di strapparceli via da dentro perché considerati un intralcio sulla via del “progresso”.
Era facile prevedere che un giorno saremmo stati considerati pienamente come delle “macchine inanimate senza cervello”; come era prevedibile che un giorno la classe operaia sarebbe stata sostituita dalla sola forza meccanica. Era prevedibile che una società strutturalmente sostenuta da un modello di crescita e consumo indefiniti, nella quale a contare è il raggiungimento del solo benessere personale dentro il quale ci si dimentica, volutamente e incoscientemente, di prendere in considerazione il bene comune, sarebbe riuscita nell’impresa di escludere ciò che da sola riteneva fosse inutile e d’intralcio per se stessa, e solo a se stessa, perdipiù servendosi di strumenti, tecniche e modalità che sono contro ogni logica etica, morale, naturale, delle cose. Era prevedibile, infine, ed evidente fin dagli inizi della rivoluzione industriale, che la separazione delle classi sociali più elevate si sarebbe fatta sempre più drastica, drammatica, profonda, e che sarebbe andata a sconvolgere antropologicamente, empiricamente la concezione che avevamo del bene comune e del suo raggiungimento.